Contenuti del blog

Le esegesi riportate in questo blog non sono frutto delle mie capacità, in realtà molto modeste. Le ricavo leggendo diversi testi dei più importanti specialisti a livello mondiale, generalmente cattolici, ma non disdegno di verificare anche l’operato di esegeti protestanti, in particolare anglicani. Se si escludono alcuni miei approfondimenti specifici, per la parte tecnica dell’analisi critica il mio testo di riferimento è questo:

- Giovanni Leonardi
, Per saper fare esegesi nella Chiesa, 2007 Ed. Elledici (testo promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale). Questo testo è molto semplice, veramente alla portata di tutti; per migliorare la capacità di analisi deve essere affiancato da altri due testi per la parte linguistica, anch’essi a livello divulgativo:

- Filippo Serafini,
Corso di greco del nuovo testamento, 2003 Ed. San Paolo.
- Luciana Pepi, Filippo Serafini,
Corso di ebraico biblico, 2006 Ed. San Paolo (da usare solo nel caso si voglia approfondire l’etimologia semitica sottesa ai vocaboli greci).

I testi della Bibbia in lingua originale sono pubblicati da varie case editrici; in particolare per i Vangeli segnalo l'ottimo testo della Edizioni Enaudi e quello sinottico della Edizioni Messagero in quanto hanno i testi greco ed italiano a fronte. Si trovano anche in vari siti in rete, ma non sempre sono testi aggiornati con le ultime scoperte a livello archeologico o paleografico.
Per la parte sostanziale normalmente faccio riferimento a documenti prodotti dalle fonti seguenti, che riporto in ordine decrescente di frequenza di utilizzo:

- École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), retto dai Domenicani e dove ha lavorato anche il Card. Martini.
- Centro Studi Biblici “G. Vannucci” – Montefano (An), retto dall’Ordine dei Servi di Maria.
- Sito www.Nicodemo.net gestito da P. Alessandro Sacchi.
- Università degli studi di Torino – Corso di Letteratura cristiana antica – Prof.essa Clementina Mazzucco.
- Fr. Dante Androli, OSM, docente di esegesi alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum – Roma
- Università degli studi La Sapienza di Roma – Corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Prof.essa Emanuela Prinzivalli.
- Biblia, Associazione laica di cultura biblica – Settimello (Fi)


mercoledì 29 dicembre 2010

Domenica 2.1.2011

II domenica dopo Natale – Gv 1, 1-18

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.

Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta.

Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.

Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.

Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto.

Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.

A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.

Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me».

Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.

Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.

Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

"In principio era il Verbo". Giovanni si riallaccia all'espressione: "In principio", che è esattamente la prima parola con la quale inizia la Bibbia: "In principio Dio creò il cielo e la terra" Gn1,1). L'autore di questo vangelo non è d'accordo e smonta tutto il bagaglio teologico della creazione che si era radicato nei secoli in Israele.

Dice Giovanni che in principio, esisteva già il "logos" usando un termine greco che non è facile tradurre perché ha un'incredibile varietà di significati. La CEI traduce con "verbo", ed è una traduzione tutto sommato esatta; però in questa espressione manca la ricchezza del significato che ha la parola greca.

"Logos" è un termine che da una parte significa "progetto" e da un'altra, in quanto progetto formulato, significa "parola"(1). Giovanni, in questo prologo, dice che fin dall'inizio, prima ancora della creazione del mondo, Dio aveva un progetto.

Gli ebrei credevano e credono che quando Mosè è salito sul monte Sinai abbia ricevuto due leggi: quella scritta nelle tavole e un'altra, orale, che consiste nella spiegazione di quella scritta. Questa legge orale si è trasmessa nei secoli di padre in figlio e, circa a metà del I secolo, quindi all'epoca di Gesù, è stata messa per iscritto e chiamata Talmud. Il Talmud dice che il mondo fu creato per le dieci parole, cioè i dieci comandamenti: quindi, secondo la teologia ebraica, nell'osservanza dei dieci comandamenti dati da Dio a Mosè si realizza la creazione.

Giovanni non è d'accordo, per questo dice: fin dall'inizio, prima di creare il mondo, prima della creazione, c'era una parola che annulla le altre dieci parole, perché di valore incommensurabile, una parola che si esprime in un unico comandamento. Quello stesso comandamento che Gesù, al capitolo 13 del Vangelo di Giovanni, eprimerà così : "Vi do un comandamento nuovo(2), che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato"(Gv 13,34).

Continua Giovanni: in principio c'era questo progetto, questa parola e l'evangelista sottolinea che "il Verbo era presso Dio"; questo progetto era qualcosa che gli stava a cuore, prima ancora di creare il mondo, il quale è stato creato proprio per la realizzazione di questo progetto.

Ed ecco la rivelazione fantastica che fa Giovanni: "e il Verbo era Dio". Potremmo tradurre anche: "e un Dio era questo progetto". Il progetto di Dio sull'umanità, sull'uomo, è qualcosa di incredibile: Giovanni ci presenta un Dio talmente innamorato dell'umanità, che non gli basta aver creato l'uomo in carne e ossa, ma lo vuole innalzare alla sua stessa condizione divina!

Giovanni torna ancora sull'argomento per far comprendere quanto sia importante questo progetto. Infatti dice: "Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste." Notate la ripetizione, la sottolineatura: l'evangelista ci vuol far comprendere chiaramente quello che sta dicendo; vuole sottolineare due aspetti. Come prima cosa, tutto quello che è stato creato, è stato creato in funzione di questo progetto; e, d'altra parte, non esiste nulla nella creazione che non sia frutto di questa volontà divina.

Ci dice Paolo che "la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio" (Rm 8,18). La creazione non è terminata perché l'uomo non ha raggiunto la pienezza della condizione divina: Dio non si è manifestato ancora completamente e non si manifesterà completamente, fintanto che ogni uomo non avrà la possibilità di rispondere al progetto che Egli ci propone. Per questo, nei Vangeli si parla dell'affanno di Dio per il singolo; ricordate la parabola delle cento pecore? Ne manca una e Gesù va in cerca, perché fintanto che tutti quanti non fanno parte di questo gregge d'amore, il pastore non è contento (Mt 18,12-14; Lc 15, 4-7).

Continua Giovanni, "In lui era la vita ". È la prima volta che nel Vangelo di Giovanni appare questo termine "vita"(3), un termine che, al confronto con gli altri evangelisti, Giovanni userà molte volte. Questo progetto di Dio sull'umanità contiene la vita: se una persona è in comunione con Dio, ha una vita talmente esuberante da poterla trasmettere agli altri.

E l'evangelista aggiunge: "e la vita era la luce degli uomini". Anche qui, Giovanni dà un colpo alla teologia ebraica; nella teologia ebraica si diceva tutto il contrario, si pensava: c'è una legge, e l'osservanza di questa legge illumina la vita.

Giovanni, che esprime il pensiero di Gesù, spazza via tutto questo. Non è una legge esterna all'uomo quella che ti guida nella vita, ma è la vita che è luce per i tuoi passi. È il rispondere a quel desiderio di pienezza che ogni uomo porta dentro di sé, è lo sviluppare e sprigionare quella pienezza di vita, che ti illumina e ti fa capire come camminare. È l'inno all'ottimismo di Dio sull'umanità: non un Dio pessimista, ma un Dio talmente ottimista e contento della sua creazione che non dice all'uomo: "adesso ti do una serie di leggi e se non cammini dentro a queste, attento a te!", ma dice all'uomo: "rispondi al desiderio di pienezza che hai dentro di te e quello ti farà comprendere qual è il cammino verso la luce".

Continua Giovanni: "la luce splende nelle tenebre…": la luce è una metafora con la quale si indica il gruppo dei credenti che hanno accolto questo messaggio d'amore. Il compito della luce è di splendere, non di lottare: qui Giovanni prende le distanze dai gruppi fanatici della sua epoca, che si chiamavano "figli della luce" e pensavano di dover essere continuamente in lotta contro i figli delle tenebre.

"…ma le tenebre non l'hanno accolta". Giovanni scrive in un momento in cui da tempo erano cominciate le persecuzioni per la comunità dei credenti, come si legge in questa espressione di Gesù: "Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!"(Gv 16,33). Giovanni rassicura la comunità dei credenti: le tenebre non l'hanno estinta.

Continua il Vangelo: "Apparve un uomo inviato da Dio e il suo nome era Giovanni". Caliamoci nell'ambiente culturale dell'epoca: appare un inviato da Dio. Un inviato da Dio deve essere senz'altro un personaggio importante, un sacerdote, un santo: niente di tutto questo! La parola di Dio è stata inviata a un uomo di nome Giovanni (Giovanni in ebraico significa "misericordia di Dio") e "Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Questo è il compito di Giovanni; non è quello di essere la luce, ma di risvegliare questo desiderio di pienezza di vita. Questo invito è rivolto a tutti, perché la tenebra - che rappresenta i poteri che impediscono all'uomo la libertà - ha coperto tutta l'umanità.

Ma, sottolinea Giovanni (lo farà tante volte), "Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce". Giovanni, al suo apparire, venne accolto come il Messia, ed ancora due secoli dopo la morte di Gesù esistevano discepoli di Giovanni che credevano che fosse lui il Messia e non Gesù. Questo perché Gesù era una persona comune, vestiva come una persona comune, mangiava, beveva, si comportava normalmente; non aveva nessuno di quegli aspetti che contraddistinguevano, secondo la loro mentalità, un uomo di Dio. Un uomo di Dio si doveva riconoscere dalla sua vita ascetica; Gesù vita ascetica non ne ha mai fatta, anzi andava pure a pranzo nei giorni di digiuno.

Gesù rivoluziona il concetto di "uomo di Dio". Lui, che era l'"uomo di Dio" per eccellenza, lo manifesta non attraverso atteggiamenti esteriori di ascetismo o di spiritualismo, ma trasmettendo una qualità d'amore che assomiglia a quella di Dio.

Purtroppo questo amore non è stato accolto da tutti. Sottolinea ancora Giovanni che "Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo". E assicurando che questa luce, questo anelito di pienezza di vita che permette la comunione di Dio, è proprio quella vera, Giovanni, come gli altri evangelisti, cancellerà la vecchia categoria del credente visto come l'obbediente a Dio, per inaugurare quello della somiglianza a Dio. Con Gesù, il perfetto credente non è colui che obbedisce a Dio osservandone le leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al Suo.

"Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe". È una denuncia tragica! Scriverà più volte Giovanni in vari brani: "in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete" (Gv 1,26), "chi mi ha mandato voi non lo conoscete" (Gv 7,28), "voi non sapete da dove vengo o dove vado"(Gv 8,14), "voi non conoscete né me né il Padre" (Gv 8,19), "non conoscono colui che mi ha mandato" (Gv 15,21).

Questa mancata conoscenza di Dio determinerà la tragedia del popolo: la gerarchia religiosa pretendeva di far conoscere la volontà di Dio al popolo, ma in realtà non lo conosceva.

Continua ancora Giovanni: "Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto". Triste costatazione: Dio si era preparato il suo popolo; quando finalmente si manifesta, i suoi non lo accolgono. I vangeli sono estremamente radicali: o con Gesù, o contro Gesù. La via di mezzo, nei vangeli, non è conosciuta.

Sempre la scuola giovannea, nel libro dell'Apocalisse, parlando alla comunità scrive: "conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca" (Ap 3,15-16). La via di mezzo, quella che per molti cristiani sembra la migliore, non fa parte della proposta di Gesù.

Tante volte ci sono persone che si presentano dicendo: non sono né un santo né un peccatore, io non rubo, non ammazzo, mi faccio i fatti miei. Ecco la risposta che Giovanni da a queste persone nell'Apocalisse: Gesù dice "e io ti vomito".

Meglio peccatore che tiepido: perché un peccatore, una volta che viene raggiunto dall'amore di Dio, è capace di tirare fuori anche qualche cosa di straordinario, di buono; ma da quelli che sono nati tiepidi, che non hanno fatto mai qualche grosso peccato, quelli che si sono sempre tenuti nel mezzo, non si ricaverà mai niente, per Gesù sono inutili. O santi(4) o peccatori!

Ma ecco finalmente, una buona notizia, la migliore: "A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio". Giovanni, con questa espressione, cancella ancora una volta un concetto tipico della religione: la dottrina religiosa ebraica, (e purtroppo molto spesso anche quella della Chiesa sia cattolica che protestante; meno evidente in quella ortodossa), ha presentato Dio come un signore e l'uomo come un suo servo.

Giovanni ci presenta non un Dio che si fa servire dall'uomo, ma un Dio che si mette al servizio dell'uomo. Questo tema verrà spiegato dal Vangelo di Giovanni con l'episodio della lavanda dei piedi (Gv 13,1-20), che era un compito degli schiavi. Noi dobbiamo accogliere questo servizio che Dio fa nei nostri confronti; è un servizio d'amore, è Dio che ci innalza al suo stesso livello, e con Lui e come Lui dobbiamo dirigerci verso gli altri.

Non si è "figli di Dio" per nascita, ma lo si diventa mediante la pratica di un amore che assomiglia a quello di Dio.

Quindi essere "figli di Dio", è un avvenimento dinamico; non è nemmeno l'atto del Battesimo che ci trasforma in figli di Dio, ma il vivere il Battesimo nel mondo ogni giorno rinunciando ai falsi valori del mondo. Per questo il Battesimo non è un sacramento da celebrare nei confronti di un bambino, ma nei confronti di un adulto cosciente e consenziente, perché un bambino non è ancora in grado di vivere questo sacramento.

Come possiamo renderci conto di essere figli di Dio? Vediamo tre aspetti: il primo, se siamo capaci, come Lui, di voler bene anche a chi non se lo merita. La caratteristica di Dio è questa: Dio non ci ama perché noi siamo buoni, ma ci ama perché Lui è buono. Il secondo aspetto è se siamo capaci di fare del bene senza aspettare nulla in cambio, perché così ha fatto Dio con noi. E il terzo, l'aspetto più difficile, è se siamo capaci, come Lui, di perdonare gli altri prima ancora che ci vengano a chiedere il perdono, perché così fa Dio nei nostri confronti. Dio ci dona amore nell'istante stesso in cui noi stiamo peccando. Infatti Paolo dice: "Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi" (Rm 5,8). Dio non aspetta che noi andiamo a chiedergli perdono, Dio ci concede il suo perdono prima ancora che glielo andiamo a chiedere. Se ci sono in noi questi tre aspetti, anche noi siamo i "figli di Dio". "Figlio", nella cultura dell'epoca, significa colui che assomiglia al Padre.

Pertanto, si diventa "figli di Dio" nella pratica di un amore simile a quello del Padre, un amore che, man mano che si esercita, sviluppa nuove capacità d'amare e fa sorgere ancora nuove possibilità di fare: è un amore che fa crescere l'uomo.

Si è sicuri di essere in comunione con Dio non perché si è dato l'assenso a delle verità teologiche ma perché si è data adesione a Gesù, modello dell'uomo e modello d'amore. Il mantenere questa adesione significa rinnovare continuamente, quotidianamente, quelle scelte che ci hanno fatto decidere per Gesù. Significa che, di fronte al desiderio di prestigio, alla sete di denaro, alla ricerca di potere, che sono gli atteggiamenti che causano la rivalità e l'odio nel mondo, il credente sceglie la condivisione e il servizio. E questo va mantenuto quotidianamente.

La scelta di essere "figli di Dio" non viene fatta una volta per sempre, ma, come dice Giovanni, l'adesione a Gesù va mantenuta. Quotidianamente c'è da rifiutare di arricchire perché si vuole condividere quello che si ha e quello che siamo con gli altri (è questa la vera ricchezza), da rifiutare situazioni di potere perché si vuole vivere soltanto in situazioni di servizio.

E, spiega ancora Giovanni, i "figli di Dio" sono "i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati." In realtà la traduzione letterale suonerebbe così: "coloro che non nacquero da sangui": è strana l'espressione di sangue al plurale: in ebraico(5) il plurale di sangue significa "spargimento di sangue", e Giovanni è l'unico evangelista a parlare espressamente di sangue nella crocifissione di Gesù, quando gli trafiggono il costato ed escono sangue ed acqua (Gv 19,34).

Possiamo allora tradurre in modo impreciso, ma più comprensibile, "coloro che non sono nati da un sangue qualunque, ma dal sangue di Gesù, che non sono nati per un disegno di una carne o di un uomo qualunque, ma dalla carne di Gesù", diventano figli di Dio: quindi non per generazione carnale, ma per l'adesione a colui che è il Figlio di Dio.

Questa divisione del sangue e della carne che troviamo nel vangeli si rifà al capitolo sesto, quando Gesù dice: "se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna" (Gv 6,52-53)(6). Queste non sono regole liturgiche per andare a fare la Comunione, ma sono indicazioni per un atteggiamento di vita.

Mangiare il corpo di Gesù non è una indicazione liturgica, ma significa accettare questo dono che Gesù ci fa; ma nel momento in cui lo si accetta, si accetta pure di diventare noi stessi dono per gli altri, si accetta di diventare pane affinché venga mangiato dagli altri. Così per il sangue.

Giovanni, smentendo la tradizione dell'Antico Testamento, dichiara, in aperta polemica con la cultura e con la mentalità giudaica del suo tempo: "Dio nessuno l'ha mai visto". Sembra una dichiarazione inesatta, addirittura fuorviante. Se andiamo a vedere i testi dell'A. T. (il libro dell'Esodo e il libro dei Numeri), almeno Mosè, Aronne ed Elia hanno visto Dio. Anzi l'autore, per darci la garanzia che l'hanno visto, dice: "Essi videro Dio e tuttavia mangiarono e bevvero"(7).

Secondo Giovanni, tutte le esperienze di Mosè, Aronne ed Elia sono state esperienze parziali e limitate e, pertanto, la volontà di Dio che essi intendono esprimere, non corrisponde integralmente al vero.

Se andiamo a vedere il racconto dell'incontro tra il Signore e Mosè, Mosè non riesce a vedere il volto di Dio, ma riesce a vederlo solo di spalle. Mosè ha avuto una visione parziale, per cui la legge di Dio che Mosè ci ha presentata come volontà di Dio, era una legge imperfetta perché, non avendo avuto Mosè la perfetta esperienza di Dio, non poteva presentare e fare conoscere la volontà di Dio.

Con questa affermazione Giovanni relativizza tutti gli insegnamenti dell'A.T. Le norme cultuali e i tabù provenienti dalle tribù beduine e nomadi di 1300 anni prima(8) non possono ancora condizionare la vita dei credenti.

"Dio nessuno lo ha mai visto". La legge che intendeva esprimere la volontà di Dio, è imperfetta. "L'unico figlio che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato". Solo la parola di Gesù esprime la volontà del Padre.

Note: 1. Faccio un esempio banale: se dico "casa", è una parola che contiene in sé un'idea, un progetto di una particolare casa che ho in mente; dicendo "casa" esprimo quindi una parola che in sé possiede già un'immagine, un'idea, una volontà realizzatrice. – 2. In greco ci sono due espressioni per dire "nuovo": una che significa: "aggiunto nel tempo" e l'altra che significa: "una qualità che annulla tutto il resto", un qualcosa di nuovo che è talmente bello che fa scomparire tutto il resto. Ebbene, Giovanni non usa il termine "aggiunto nel tempo", ma usa il termine che significa una qualità talmente eccellente da oscurare tutte le altre. – 3. Una piccola parentesi: Giovanni usa la parola greca "zoe" e non gli altri due termini che in greco esprimono il concetto "vita". La cosa non è senza significato. Penso che uno studio accurato del significato di ciascuno dei tre termini greci potrebbe portare un contributo non indifferente di chiarezza sulla posizione cattolica in merito all'inizio ed alla fine della vita umana. – 4. La santità, nel cristianesimo, non è quella che si esprime attraverso la mortificazione e la preghiera, ma quella che si esprime nella dedizione agli altri anche a scapito dei propri interessi: solo così, dice Gesù, si avrà "…una misura piena, scossa e con l'aggiunta". – 5. Attenzione: anche se tutti i vangeli sono stati scritti in greco, la base culturale degli evangelisti (ad esclusione di Luca) è semitica, ed il modo di esprimersi è sempre più vicino all'ebraico che al greco. Nel caso di Luca, di evidente cultura greca, mantiene il modo semitico di esprimersi in tutte quelle parti del suo vangelo che fanno riferimento a Marco e alla Fonte Q. – 6. Per spiegare pienamente queste parole, non facilmente comprensibili anche per la mentalità dell'epoca, occorrerebbe un lungo discorso. In estrema sintesi essi si rifanno alla concezione ebraica della condivisione della conoscenza e della condivisione conviviale della vita in una comunità. – 7. La cultura ebraica dell'VIII secolo a.C. (periodo Elohista, Regno di Israele del nord) prevedeva la morte per coloro che vedevano Dio; ecco perché, al contrario dei periodi precedenti, in questo periodo le manifestazioni di Dio vengono descritte attraverso sogni, visioni e messaggi (in greco anghelos, da cui è derivata la nostra parola angeli). – 8. Gli storici, supportati dagli archeologi, ritengono che gli eventi relativi all'abbandono dell'Egitto da parte del popolo ebraico risalgono al 1260 a.C. La data è, chiaramente, indicativa.

giovedì 23 dicembre 2010

Domenica 26.12.2010

Sacra famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe

Mt 2,13-15.19-23

I Magi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».

Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Dall'Egitto ho chiamato mio figlio».

Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va' nella terra d'Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino».

Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d'Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno».

Questo brano del Vangelo di Matteo mette in crisi la maggior parte degli esegeti perché quanto racconta Matteo ha un importante significato teologico ma, con elevata probabilità, non ha valenza storica.

Molti storici moderni, infatti, negano la storicità dell'episodio che noi chiamiamo "strage degli innocenti", dato il mancato riscontro nelle opere di Giuseppe Flavio(2), fonte principale della storia giudaica del I secolo.

Paul Maier afferma che "…la maggioranza delle recenti biografie di Erode il Grande lo rifiuta interamente…"(2). Stessa posizione si riscontra in Geza Vermes e E.P. Sanders(3). A questi pareri deve aggiungersi che, in qualunque modo venga fatto il calcolo, anche prendendo date diverse di riferimento, la morte di Erode sarebbe sopraggiunta tra 6 e 10 anni prima della nascita di Cristo.

E' corretto però fare presente che altri studiosi cristiani ne accettano la storicità notando come l'episodio sia compatibile con la politica repressiva di Erode, il quale avvertendo il pericolo di un'usurpazione non esitò a uccidere in diverse occasioni una moglie, tre cognati, una suocera, tre figli e alcune centinaia di oppositori.

Il fatto che sia Giuseppe Flavio che gli storici romani, come pure gli altri evangelisi, non riportino l'episodio si spiega, secondo Giuseppe Ricciotti(4), storico biblista, con il modesto numero di bambini presumibilmente coinvolti. I nati a Betlemme in quel periodo, essendo circa 1000 gli abitanti adulti, potevano aggirarsi intorno ai 60 individui. Volendo però Erode uccidere solo i bambini maschi il numero degli uccisi è dunque, approssimativamente, di circa 30 neonati e, contando che la mortalità infantile in vicino oriente era molto alta, il numero si può restringere a soli 20.

La notizia, se giunse a Roma, non rappresentò però motivo di cordoglio da parte dell'imperatore che non esitava a soffocare nel sangue possibili rivolte. Secondo Macrobio(5), Cesare Augusto, ricevuta la notizia della strage, disse scherzosamente: «È meglio essere il maiale di Erode piuttosto che uno dei suoi figli» poiché Erode, essendo giudaizzato(6), non poteva mangiare carne di maiale, ma non esitava però ad uccidere i propri figli. Sembra più plusibile, però, che la frase non si riferisse a questo evento ma al successivo omicidio di Antipatro, ultimo figlio assassinato da Erode.

Matteo, pur essendo l'unica fonte canonica a tramandare il racconto della fuga in Egitto, nulla dice riguardo agli anni trascorsi dalla famiglia di Gesù in Egitto.

L'episodio della fuga e la vita di Gesù e dei suoi genitori in terra egiziana è narrato in diversi apocrifi del Nuovo Testamento; questi riportano storie miracolose, come alberi di palma che si inchinano davanti a Gesù bambino, bestie del deserto che gli rendono omaggio, incontri con i due ladri che saranno poi crocifissi con lui, oltre ad aggiungere dettagli come l'aggregarsi alla famiglia di Salomè come balia del bambino.

Le storie della vita di Gesù in Egitto hanno svolto un ruolo importante specialmente all'interno della Chiesa copta. Per tutto l'Egitto vi sono diverse chiese e santuari che sarebbero stati eretti in luoghi abitati dalla famiglia; il più importante di questi è la chiesa dei santi Sergio e Bacco ad Abu Serghis, che sarebbe stata eretta sulla casa di Gesù in Egitto.

Matteo scrive questo brano del suo vangelo sul filo del confronto che fa tra la vita di Mosè e quella di Gesù.

Mosè, appena nato, ha corso il rischio di essere ucciso se la levatrice avesse applicato quanto si legge in Es 1,15-22:

"…Il re d'Egitto disse alle levatrici degli Ebrei, delle quali una si chiamava Sifra e l'altra Pua: «Quando assistete le donne ebree durante il parto, osservate bene tra le due pietre: se è un maschio, fatelo morire; se è una femmina, potrà vivere». Ma le levatrici temettero Dio: non fecero come aveva loro ordinato il re d'Egitto e lasciarono vivere i bambini. Il re d'Egitto chiamò le levatrici e disse loro: «Perché avete fatto questo e avete lasciato vivere i bambini?». Le levatrici risposero al faraone: «Le donne ebree non sono come le egiziane: sono piene di vitalità. Prima che giunga da loro la levatrice, hanno già partorito!». Dio beneficò le levatrici. Il popolo aumentò e divenne molto forte. E poiché le levatrici avevano temuto Dio, egli diede loro una discendenza.

Allora il faraone diede quest'ordine a tutto il suo popolo: «Gettate nel Nilo ogni figlio maschio che nascerà, ma lasciate vivere ogni femmina».

Mosè sopravvisse perché appena nato fu affidato alla corrente del Nilo dentro un cestino di vimini e raccolto dalla figlia del faraone che lo allevò.

Matteo, facendo riferimento alle parole del profeta Osea (11,1) "…quando Iraele era fanciullo, io lo amai e chiamai mio figlio fuori dall'Egitto…" costruisce la funga in Egitto facendo così diventare, in qualche modo, Gesù partecipe dell'esodo del popolo di Israele come fanno intendere i versetti 4,22-23 del Libro dell'Esodo: "…Israele è mio figlio ... lascia andare mio figlio…".

Questa "partecipazione" di Gesù all'esodo di Israele, secondo Matteo, lo pone in condizione di avere il diritto di compiere due atti: il superamento dei comandamenti del Sinai tramite la proclamazione delle beatitudini che diverranno così i nuovi comandamenti dei seguaci di Cristo e l'indicazione della via da seguire per il nuovo esodo, quello che condurrà la comunità cristiana a superare la morte, cioè a ottenere la redenzione.

Note: 1. Flavio Giuseppe (in latino: Titus Flavius Iosephus; in ebraico Joseph Ben Matityahu, nato a Gerusalemme nel 37 circa, morto a Roma nel 100 circa) è stato uno scrittore, storico, politico e militare romano di origine ebraica; scrisse le sue opere in greco. – 2. Paul Maier "Herod and the Infants of Bethlehem", in Chronos, Kairos, Christos II, Mercer University Press (1998), n. 170. – 3. Geza Vermes, The Nativity: History and Legend, London, Penguin, 2006, p. 22; E.P. Sanders, The Historical Figure of Jesus, Penguin, 1993, p. 85. – 4. Ricciotti, Vita di Gesù, par. 9; pp. 256-257. – 5. Ambrogio Teodosio Macrobio (vissuto nel V secolo d.C.) è stato un filosofo, scrittore e funzionario romano. Studioso anche di astronomia, sostenne la teoria geocentrica. – 6. Erode il Grande era un idumeo, ma ha tentato tutta la vita di farsi passare per giudeo facendo propri tutti i modi di vita della tradizione ebraica.

giovedì 16 dicembre 2010

Domenica 19 dicembe 2010 –

Quarta domenica di Avvento – Mt 1, 18-24

"Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.

Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».

Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa "Dio con noi".

Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa."

Facciamo prima una constatazione: quando, negli anni 40-50 d.C., Marco ha scritto il suo vangelo rifacendosi, con ogni probabilità, all'insegnamento di Pietro, ignorò del tutto la nascita di Gesù, probabilmente perché la cosa, nella comunità di Marco, interessava meno dei valori trasmessi da Gesù con la sua predicazione e la sua passione.

Al contrario Matteo, impegnato nel suo parallelo tra Gesù e Mosè, per far risaltare la correttezza dell'attributo di Figlio di Dio a Gesù, non può far altro che descrivere e sottolineare la vicenda della nascita con tutte le sue implicazioni.

Non solo, ma poiché la predicazione e l'azione di Gesù andrà in contrasto con la tradizione ebraica, Matteo rimarca con grande evidenza che Gesù non è il frutto di Giuseppe perché, nella mentalità ebraica, il padre, oltre la vita, trasmetteva anche la tradizione e i valori del popolo. Secondo Matteo tutta la tradizione di Israele si tronca in Giuseppe: Gesù non riceve niente da lui. In Gesù la tradizione ed i valori non verranno da Giuseppe, ma dal Padre nei cieli, da Dio. Ecco perché Gesù sarà capace di rapportarsi con Dio in una maniera completamente inedita, completamente nuova.

Per ottenere questo, Matteo fa una dichiarazione del tutto estranea al pensiero ebraico: Gesù viene generato da Maria(1). Maria è portata, con ciò, al livello degli uomini.

Così Matteo permette di comprendere la novità straordinaria portata da Gesù: a differenza di Mosè, Gesù non è stato un profeta del suo popolo.

Ricordo che i profeti sono coloro che, vivendo in piena sintonia con Dio, ne fanno conoscere i desideri e la volontà e normalmente sono sempre più avanti dei loro contemporanei. Quindi è profeta colui che si mette avanti al suo popolo e gli fa prospettare una immagine, una teologia, una idea affinché il popolo la faccia sua. La storia insegna che, proprio per questo, normalmente invece sono incompresi e perseguitati.

Ma Gesù non è un profeta. Gesù non è il figlio di Giuseppe, non è il figlio di Davide: Gesù è il Figlio di Dio, ha assunto l'azione creatrice del Padre e l'ha saputa formulare in una maniera completamente inedita facendo così conoscere una maniera nuova di rapportarsi con Dio.

La sorpresa che coglie chi legge i vangeli (tutti i vangeli) è che questa nuova maniera di rapportarsi con Dio esula dalla religione ebraica! Gesù dimostra che la religione non solo non favorisce la comunione con Dio ma è ciò che l'impedisce.

Quindi, mentre il profeta vive sempre nell'ambito della sua religione, Gesù ne esce e mostra le radici nuove della religione, di tutto quello che veniva presentato in nome di Dio. Lui lo ha potuto fare perché Lui non è stato generato da Giuseppe, non ha i cromosomi di Davide e di Abramo nel suo sangue, ma in Lui c'è una creazione completamente nuova.

Ma come è stato generato Gesù? Per conprendere ciò che descrive Matteo, bisogna conoscere le modalità del matrimonio ebraico.

Il matrimonio ebraico avviene in due tappe ben distinte e separate da un anno d'intervallo. Quando la ragazza ha compiuti 12 anni ed un giorno(2) ha l'obbligo di sposarsi. Obbligo, non possibilità: nel mondo ebraico e orientale non è concepibile la figura della donna indipendente e la verginità è una maledizione; senza un marito od un figlio maggiorenne, la donna ebraica è considerata un essere senza testa(3). Il ragazzo ha l'obbligo di sposarsi a 18 anni, può temporeggiare fino a 20, non di più(4). Il matrimonio non è un'istituzione religiosa e neppure sociale, ma una sorta di contratto privato dove le parti contraenti non sono né la sposa né lo sposo, bensì le rispettive famiglie. Con questo sistema, la ragazza si trova in qualche modo comprata dalla famiglia del marito ed è realmente un oggetto nelle loro mani, una sorta di recipiente per ottenere dei figli(5). Lo sposalizio si tiene in casa della donna; raggiunto l'accordo sul prezzo, lo sposo copre con il proprio scialle da preghiera la sposa e pronuncia la formula "Tu sei mia moglie" e la sposa risponde "Tu sei mio marito". Con questa semplice cerimonia Maria è divenuta "promessa sposa di Giuseppe"(6). Dopo un anno, quando la maturità sessuale di Maria lo permetterà, avrà luogo la seconda fase del matrimonio, la convivenza. Ma in questo anno succede qualcosa di imprevedibile.

I Vangeli non sono un trattato di biologia e tanto meno un trattato di ginecologia. L'Evangelista intende fare una narrazione teologica, non storica: Matteo vuole affermare che colui che è generato da Maria è opera dello Spirito Santo. Vediamo di comprendere al meglio questa indicazione teologica.

Quando ancora c'era il caos, lo Spirito di Dio aleggiava sulla creazione e tutto fu fatto attraverso lo Spirito. Quindi in Gesù si manifesta una nuova creazione: in Gesù si realizza in pienezza la creazione dell'uomo, un uomo che abbia anche la condizione divina.

Mentre nella prima creazione sembrava un delitto per l'uomo aspirare alla condizione divina; nella seconda, quella che si manifesta in Gesù, avere la condizione divina fa parte del progetto di Dio. Gesù è l'uomo che ha raggiunto la pienezza dell'umanità e che coincide con la condizione divina.

Ecco allora il significato dell'indicazione "si trovò incinta di Spirito Santo". E' inutile chiederci come: Matteo non vuole darci una indicazione storica. Lui ci sta dando una indicazione teologica importante che significa: in Gesù si manifesta il piano della creazione.

Matteo esclude categoricamente qualunque intervento da parte di Giuseppe: il povero Giuseppe però entra in crisi e scrive Matteo, al versetto 19: "Giuseppe, suo marito, era un giusto".

Con il termine giusto, zaddiq, non s'intende una persona retta, una persona di buona moralità: nel mondo ebraico i giusti erano una specie, diciamo così, di confraternita, di persone laiche, molto devote, che s'impegnavano ad osservare nella loro vita quotidiana tutti quei 613 precetti che i farisei avevano ricavato dalla legge di Mosè.

C'erano 365 proibizioni e 248 comandi per un totale di 613 precetti da osservare. Questi numeri avevano un preciso significato: 365 sono i giorni dell'anno e 248 erano, secondo la cultura ebraica, i componenti che costituivano il corpo umano.

Giuseppe è quindi una persona che osserva scrupolosamente la legge ed è per questo che entra in crisi.

La legge è chiara: dal momento in cui c'è la prima parte del matrimonio esiste subito il reato di adulterio per la donna.

La Bibbia è parola di Dio, ma è stata scritta dagli uomini e qualche riguardo per loro se lo sono tenuti: l'adulterio per la donna è costituito da qualunque rapporto con qualunque uomo; per l'uomo ebreo sussiste l'adulterio soltanto se la donna è sposata ed è ebrea. Se non è ebrea o non è sposata l'uomo può andare con tutte le donne che vole e questo non è considerato adulterio.

Giuseppe era un giusto e sapeva che la legge gli comandava di denunciare la donna e le pene di morte erano differenti. Nella prima fase del matrimonio la pena di morte era per lapidazione, nella seconda per strangolamento.

Giuseppe è un carpentiere di circa 20 anni, una artigiano che vive del proprio lavoro, quindi, in rapporto alle condizioni economiche di allora, una persona di ceto medio, certo non povera come poteva essere un bracciante; secondo alcuni autori dei primi secoli(7), si dice che fosse soprannominato "il Pantera", come suo padre, per il carattere non proprio cordiale; probabilmente, quando conosce lo stato di Maria, ha una prima reazione violenta(8); lui è giusto dinanzi a Dio, deve denunciare Maria altrimenti sarà lui il peccatore e non potrà più rivolgersi a Dio.

Ma qui accade il secondo colpo di scena. Per quanto rimugini la cosa, a Giuseppe manca il coraggio di denunciare Maria. Il peso del peccato dovuto alla omessa denuncia gli sembra più lieve del rimorso per la morte di Maria. Però il suo orgoglio gli dice che non può neppure tenerla con sé, perché non gli è stata fedele. Decide allora di ripudiarla, di nascosto.

Il ripudio, a quell'epoca, era uno strumento unilaterale, in mano soltanto agli uomini e non alle donne: era soltanto l'uomo che poteva ripudiare la donna. Bastava una semplice tavoletta incerata dove l'uomo scriveva o più frequentemente faceva scrivere: tu non sei più mia moglie. La dava alla moglie e questa veniva cacciata via di casa.

Quali potevano essere i motivi per il ripudio? Il libro del Deuteronomio, al cap. 24, affermava: "Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se avviene che essa non trovi grazia ai suoi occhi, perché vi ha trovato in lei qualcosa di vergognoso, scriva un libello di ripudio, glielo consegni in mano e la mandi via di casa". Solo che Mosè in proposito, non è stato ben chiaro. "Se avviene poi che essa non trovi grazia, perché ha trovato in lei qualcosa di vergognoso…": che cosa vuol dire qualcosa di vergognoso? All'epoca di Gesù c'erano due grandi scuole teologiche, una di rabbi Shamai, molto rigoroso, che indicava come causa l'adulterio; l'altra, facente capo ad Hillel, più di manica larga (era naturalmente quella più seguita), che diceva "qualunque causa".

La preoccupazione di Matteo di mostrare un Giuseppe che non vuole diffamare Maria, dimostra che dovevano essere molte, moltissime, le maldicenze su Gesù circolanti in quel tempo. Il documento ebraico su Gesù più antico che abbiamo, un brano del Talmud dell'anno 70, definisce Gesù "quel bastardo di un'adultera". Le chiacchiere nel paese quindi dovevano essere state tante e nella metà del III° secolo si trova, in un discorso del filosofo Celso, questa accusa a Gesù che è significativa, per far capire quale doveva essere l'ambiente nel quale è maturato tutto questo. Celso diceva: "..di essere nato da una vergine te lo sei inventato tu; tu sei nato in un villaggio della Giudea, da una donna del posto, una povera filatrice a giornata che fu scacciata dal marito di professione carpentiere per comprovato adulterio. Ripudiata dal marito e ridotta a ignominioso vagabondaggio, clandestinamente ti partorì da un soldato di nome Pantera".

Le chiacchiere sull'origine di Gesù dovevano essere state tante e questo si riflette nella tensione che c'è nei Vangeli. Nel Vangelo di Giovanni, le autorità religiose, scandalizzate, offese da ciò che Gesù dice loro, rispondono: "Noi" e sottolineo quel noi, "Noi non siamo nati da prostituzione".(9)

Questa nascita è quindi stata qualcosa di diverso, qualcosa di anormale tanto che Matteo la presenta come un intervento diretto dello Spirito Santo. Il termine greco per Spirito è di genere neutro; in ebraico ruach (spirito) è femminile: sembra avulso dal modo di pensare della nostra epoca, ma questa scelta di Matteo era opportuna per evitare fantasie su accoppiamenti che, in quel tempo, si credevano possibili tra esseri umani ed esseri divini. A quell'epoca si credeva che gli dei, ogni tanto, scendevano sulla terra e si accoppiavano con le donne.

Torniamo al povero Giuseppe: mentre stava pensando queste cose "..ecco, un angelo del Signore(10) gli si manifestò in sogno dicendo: Giuseppe, figlio di Davide, non esitare a prendere Maria, tua moglie, perché quello che è generato in lei viene dallo Spirito. Essa partorirà un figlio".

E' importante ogni dettaglio dell'Evangelista, dico questo perché i traduttori sono spesso delle persone molto pie che di fronte a questi termini normali adoperati dall'Evangelista, sembrano loro non essere dignitosi e allora in molti Vangeli troverete l'espressione "diede alla luce". Dare alla luce è un po' più fine, le donne normali partoriscono, ma la Madonna dà alla luce: qui il verbo è partorire, lo stesso termine che si adopera in tutto il mondo, quando le donne mettono al mondo un figlio. Però, poiché partorire sembra troppo terra terra, allora si adopera il dare alla luce.

"Essa partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù, egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati". Nella lingua italiana non si può comprendere la relazione che esiste tra Gesù e la salvezza del suo popolo. Il nome italiano di Gesù, in ebraico Jehoshuà è l'abbinamento del nome di Dio, Jahvhè, più il verbo salvare. Ecco che allora comprendiamo il gioco di parole:

tradotto in italiano, si chiamerà Salvatore perché salverà il popolo dai suoi peccati. Questa salvezza dai peccati dell'uomo è importante per Matteo ed è tipicamente ebraica; infatti è l'unico Evangelista che nell'ultima cena pone, tra le parole di Gesù, anche il perdono dei peccati.

"Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto del Signore per mezzo del profeta: ecco la vergine sarà incinta e partorirà un figlio al quale sarà posto il nome di Emmanuele che significa Dio-con-noi".

E' la prima delle cinque citazioni dell'A.T. che caratterizzano i primi due capitoli di Matteo. L'Evangelista l'adopera questa citazione del profeta Isaia non tanto come si è fatto in passato per indicare la vergine(11) che partorisce, ma il termine Emmanuele che significa Dio-con-noi.

Questo è il filo conduttore di tutto il Vangelo di Matteo: il Dio-con-noi.

Note: 1. In ebraico Miryam o Mariam, nome dell'intrigante e pettegola sorella di Mosè, punita da Dio per la sua insaziabile ambizione (Es 15,20); passata alla storia come "lingua malvagia" (Num 12, 1-10), il suo nome non comparirà più nella Bibbia prima di essere ripreso nei vangeli, in quanto considerato evocatore di maledizione da parte di Dio. Il fatto che avessero scelto questo nome fa immaginare che i genitori di Maria non fossero particolarmente contenti per aver generato una femmina. – 2. Talmud, Nidda M. 6,11. – 3. Ef 5, 23. – 4. "Fino a vent'anni il Santo, che benedetto sia, vigila a che l'uomo si sposi, e lo maledice se manca di farlo entro quell'età" –Talmud, Qid. B , 29b. Nelle parole dei vangeli si intuiscono le grandi difficoltà che ha incontrato Gesù per la sua scelta celibataria. – 5. Questo modo di concepire il matrimonio si è trasmesso sin quasi ai nostri giorni. Soltanto nel 1215 (Concilio Lateranense IV) il matrimonio è divenuto un sacramento al fine di impedire una serie di abusi, ma la potestà delle famiglie è rimasta fino ai primi decenni del XX secolo. Soltanto con il Concilio Vaticano II si è finalmente elevata la dignità del matrimonio cristiano dandogli una finalità che va al di là della semplice procreazione (Gaudium et Spes, n. 48 e 49). – 6. È errato chiamare questa cerimonia "fidanzamento" perché non ha i caratteri della provvisorietà del fidanzamento occidentale; esso infatti è indissolubile da parte della donna e può essere rotto dall'uomo solo con un atto di ripudio, esattamente nello stesso modo con cui l'uomo può sciogliere la successiva convivenza. – 7. Epifanio; Andrea vescovo di Creta; Eusebio; alcuni midrash giudaici riportano la stessa notizia. Per Giovanni Damasceno (VII secolo), Joseph ben Panther sarebbe invece il nonno di Maria. – 8. Giovanni Crisostomo, In Mattheum IV 5-6; S. Agostino, Sermo 51,9. – 9. Gv 8, 39-41: "Rispose Gesù: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo! Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio; questo, Abramo non l'ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero: «Noi non siamo nati da prostituzione, noi abbiamo un solo Padre, Dio!»". – 10. E' la prima delle tre volte che nel Vangelo di Matteo compare questo "angelo del Signore". Quando nella Bibbia troviamo questa espressione "angelo del Signore" non significa un angelo inviato dal Signore ma Dio stesso, quando entra in contatto con l'umanità. Nella Bibbia infatti si mantiene sempre una certa distanza tra Dio e gli uomini ed con l'uso della espressione "angelo del Signore" si evita di far vedere interventi diretti del Signore con gli uomini. Compare tre volte e tutte e tre le volte nel Vangelo di Matteo in relazione con la vita, qui per annunziarla a Giuseppe, tra poco per difenderla dalle trame omicide di Erode e poi alla fine del Vangelo, quando ricomparirà per annunziare che la vita, quando proviene da Dio, è capace di superare la morte. – 11. E' una espressione che Matteo ha preso dal profeta Isaia (7, 14), e più precisamente dalla traduzione dall'ebraico in greco dei Settanta dove la parola "giovane" è stata tradotta erroneamente con "vergine" in quanto si riferiva alla giovanissima sposa del re Acaz in attesa di un figlio.

giovedì 9 dicembre 2010

Domenica 12 dicembre 2010
Terza domenica di Avvento – Mt 11, 2-11
In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».
"Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?". Si interroga, Giovanni Battista, nella buia e umida prigione di Erode, mentre aspetta la morte e gli portano le notizie di Gesù. Lo abbiamo incontrato, domenica scorsa, che minacciava punizioni divine, vendette esemplari, ed ora è lui stesso attonito: è talmente diverso questo Messia che non fulmina i peccatori ma li abbraccia e mangia con loro; talmente strampalato questo Dio che è così follemente innamorato dell’uomo da perdonargli tutto: l’ultimo ed il più grande dei profeti dell’A.T. non si capacita, pensa di avere preso un granchio.
Il Giovanni che incontriamo oggi è ben diverso da quello di domenica scorsa; è in carcere e sa che sta per essere giustiziato a causa della sorda rabbia di una stizzita e isterica “femme fatale” e dalla debolezza di un re-fantoccio. Giovanni è masticato dalla vita, spazzato via dall'arroganza del potere; non grida più, solo aspetta la morte e si interroga: avrò visto giusto? Avrò fatto bene ad indicarlo come Messia?
Le notizie che gli giungono dai suoi discepoli lo lasciano costernato: il Messia non sta seguendo le sue orme, non incita con veemenza la gente, ha assunto un profilo basso, mediocre. Giovanni minacciava la vendetta di Dio, il fuoco divorante. Gesù, invece, propone un perdono incondizionato, rimette le colpe, non minaccia né attua vendetta, dice che quel fuoco lo vuole accendere, certo, ma a partire dall'amore, non certo dal timore.
È troppo diverso questo Messia dal Messia atteso da Giovanni e da Israele, troppo diverso. Diverso dal Dio che vorremmo noi, che vorrei io.
Dio ci spiazza sempre, è sempre radicalmente diverso da come ce lo immaginiamo. Anche le persone che, come Giovanni, vivono la radicalità della fede, rischiano di costruirsi un Dio a propria immagine e somiglianza. La venuta di Dio che Giovanni (ma anche noi) si aspetta, è una venuta evidente, un irrompere nella storia con fragore assordante e schiere di angeli trionfanti. Gesù, invece, ci svela il volto di un Dio celato, evidente, sì, ma non banale, pieno di ogni tenerezza e sensibilità. Siamo abituati, come Giovanni, a dividere il mondo in buoni e cattivi, i buoni (spesso noi!) da salvare e i cattivi da punire, per rimettere un po' in sesto il palese squilibrio di questo mondo, che premia gli arroganti e bastona i giusti.
Gesù ci spiazza svelandoci che Dio, invece, divide il mondo in chi ama, o cerca di amare, o almeno si lascia amare, e chi no.
E l'amore è una possibilità immensa, l'unica cosa che tutti ci lega. Non i risultati, non gli sforzi, non le buone azioni ci salvano, ma la volontà di amare nella fragilità di ciò che siamo o che vorremmo essere.
Dobbiamo essere sinceri con noi stessi, molti di noi l'hanno già pensato: ci vuole una sana dose d'incoscienza per credere, un bel po' di fegato per dire che il mondo e la vita hanno senso e che Dio regna; si ha davvero la percezione, nel nostro ambiente di essere dei pii idioti, dei sognatori anacronistici e illusi.
Se qualcuno tra voi ha davvero orientato i suoi passi alla luce del Vangelo non può non attraversare momenti profondi di crisi: la malattia, la sofferenza, l'ostilità dei non credenti, il peso della propria fragilità e del proprio peccato... Ci sono momenti in cui sinceramente, col cuore pieno, viene voglia di dire: "mi sono sbagliato, devo aspettare un altro Salvatore".
La risposta che Gesù dà a Giovanni è allo stesso tempo sconcertante e fantastica: "Guarda, Giovanni, guarda quello che accade". Gesù non rassicura Giovanni, ma lo aiuta a guardare intorno a se in maniera diversa, a darsi una risposta da solo: i ciechi vedono, i muti parlano, i lebbrosi sono guariti... La gente, dice Gesù, ha aperto gli occhi nei confronti di quello che predicavano gli scribi, ora ne parla, ne discute e non si sente più oppressa dal peccato, comprende che la malattia non è una punizione di Dio: sono i segni della vittoria silenziosa della venuta del Messia.
Anch'io li ho visti, quei segni. Anch'io, credetemi, ho visto la forza dirompente del Vangelo, persone cambiare, guarire, vedere. Anch'io ho visto nelle pieghe del nostro mondo corrotto e inquieto gesti di totale gratuità, vite consumate nel dono e nella speranza, squarci di fraternità in inferni di solitudine ed egoismo. Ho visto i tanti segni del Regno, dentro e fuori la Chiesa, anzi, più spesso fuori.
Il problema principale è una miopia interiore che ci impedisce di godere della nascosta e sottile presenza di Dio.
Ma c’è un’altra cosa da sottolinare. Quando Giovanni gridava, quando minacciava in nome di Dio, Gesù non aveva commentato. Ora che dubita, che chiede conferma, Gesù lo esalta: “…fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista…”. E’ lui che conclude la grande epopea dell’A.T., la cavalcata dei profeti che hanno mostrato la volontà di Dio.
Ma ora le cose cambiano, l’uomo, attraverso l’amore, diviene il protagonista della salvezza creando il Regno di Dio sulla terra: “… ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui…”. Ecco la buona novella: non più le minacce spronano l’uomo ma l’amore, non l’obbedienza a Dio ma la volontà di assomigliare a lui fa grande l’uomo; risalta così quello che era stato l’imprimatur della creazione: “…a sua immagine li creò…”. Il punto di contatto tra l’uomo e Dio, tra creato e creatore, è la capacità di amare.

mercoledì 1 dicembre 2010

Domenica 5 dicembre 2010 – Seconda domenica di Avvento – Mt 3,1-12

(Anticipo ad oggi la pubblicazione del post

perché domani e dopodomani sono impegnato. Carlo)

 

In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto(1) della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!».

E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.

Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all'ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: "Abbiamo Abramo per padre!". Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Io vi battezzo nell'acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

 

Le settimane scorse avevo presentato il vangelo di Matteo come il vangelo scritto da un ebreo per gli ebrei, il brano di oggi è una conferma delle mie parole.

Prima di tutto chi era Giovanni? Secondo Luca era figlio del sacerdote Zaccaria e di Elisabetta (Lc 1,24), quest'ultima probabilmente della stessa tribù di Maria, la madre di Gesù(2). La storia della nascita di Giovanni come dono di Dio è riportata in Lc 1,5-25.

Giovanni era un nazireo(3), cioè un uomo che trascorreva una piccola parte della sua vita consacrato a Dio secondo quanto previsto in Nm 6,1-21; aveva scelto un particolare modo di predicare attraverso il battesimo(4); del resto in quel periodo in Israele vi erano diversi movimenti battisti che invitavano a cambiare la propria vita in attesa del Messia(5).

Rispetto agli altri movimenti battisti, l'invito di Giovanni assume una forma nuova; egli invita a "convertirsi". In greco, ci sono due maniere per esprimere il concetto di conversione: uno, che ha un significato teologico, è il ritorno a Dio, ma tutti gli evangelisti evitano accuratamente questo termine; l'altro è "metanoia", significa un cambio di mentalità che incide nel comportamento della persona. La parola significa letteralmente "cambiamento di sentimenti", e potremmo tradurlo in cambiamento di vita. L'intenzione di Giovanni è quella di far desistere i peccatori dal loro modo di vivere in vista del "regno dei cieli", cioè in vista della venuta del Messia.

Quando Gesù farà propria questa stessa frase il suo significato sarà ancora diverso: convertirsi indicherà il movimento della mente che sposta l'interesse, l'amore, da se stesso agli altri, al prossimo, all'umanità intera modificando o meglio superando il concetto di peccato.

Un'altra cosa da sottolineare prima di andare avanti, è il significato di "Regno dei cieli". Nei vangeli, ed in particolare in quello di Matteo, il regno dei cieli non significa mai l'aldilà. Matteo, ebreo, scrive per una comunità di ebrei e sta bene attento a non urtare la loro suscettibilità. Infatti gli ebrei non solo non scrivono, ma neanche pronunziano il nome di Dio. Usano dei sostituti: uno di questi sostituti è «i cieli». Un po' quello che facciamo anche noi nella lingua italiana: quante volte diciamo «grazie al cielo!» E nessuno di noi ringrazia l'atmosfera, è un'altra maniera per dire Dio. In passato, in un linguaggio ormai tramontato, si diceva «il cielo non voglia», cioè che Dio non voglia.

Quindi, quando Matteo scrive Regno dei cieli intende Regno di Dio. Se leggiamo il capitolo 34 del profeta Ezechiele troviamo la descrizione del Regno di Dio: non è un luogo, ma un tempo, il momento in cui Dio, stanco di vedere il suo popolo maltrattato dai suoi stessi governanti, dai sacerdoti e dalle altre autorità, scende sulla terra a governare lui stesso il suo popolo. Regno dei cieli = Regno di Dio è quindi il momento in cui Dio stesso comincerà ad occuparsi di ciascuno di noi in prima persona.

Giovanni è presentato come il redivivo Elia, come lui veste di peli di cammello con una cintura di pelle ai fianchi(6). Inoltre è presentato come un uomo puro, di quella purità rituale descritta nei libri del Deuteronomio e del Levitico che nulla ha a che vedere con il nostro concetto di purezza.

L'evangelista, per sottolineare questa purezza, specifica il cibo che usava Giovanni, locuste e miele selvatico, cibi sicuramente consentiti(7), oltre ogni ombra di dubbio, dalla legge ebraica(8); per questo Giovanni può battezzare, cioè purificare gli altri.

Il battesimo era un rito di immersione conosciuto in molte religioni antiche, oltre che dal giudaismo; l'immersione in acqua era il simbolo della purificazione rituale. Giovanni, pur ispirandosi a questi riti preesistenti, ne modifica gli scopi, mira ad una purificazione non più rituale ma morale e che rivesta, in un certo senso, l'aspetto di una iniziazione, di un ingresso del battezzando tra coloro che professano un'attesa attiva del Messia e costituiscono in anticipo la sua comunità.

Ma quale messia attendeva Giovanni insieme ai suoi discepoli?

Matteo, per evitare ogni dubbio, presenta subito il tipo di messia atteso da Giovanni: un messia adirato nei confronti dei peccatori, pronto a punire e a tagliare qualunque ramo secco ed a buttarlo nel fuoco. Un messia che saprà separare il grano dalla pula, i buoni dai cattivi, e gettare questi ultimi nel fuoco inestinguibile. Ecco che idee aveva Giovanni del messia. Ed erano idee sostenute anche dalla visione di Dio che si aveva allora: un Dio collerico e pronto a punire, ad agire in modo duro su quanti non ottemperavano alla sua legge.

Se la prende anche con i farisei(9) e i sadducei(10) e li chiama "razza di vipere". Io penso che qui Matteo si sia voluto togliere alcuni sassolini dalla scarpa dovuti a qualche vecchia ruggine.

Farisei e sadducei erano generalmente persone in buona fede che credevano di potersi salvare perché "figli di Abramo".

Ma Giovanni si sbagliava; era in buona fede, ma si sbagliava. Lo vedremo la prossima domenica quando, in un altro brano del vangelo di Matteo, Giovanni manda a dire a Gesù: "Sei tu quello che doveva venire, o ne dobbiamo aspettare un altro?". Giovanni infatti cominciava a non capirci niente. Gesù non si stava comportando come il messia predicato da Giovanni, Gesù accoglieva i peccatori, ne faceva suoi discepoli e li abbracciava. Viveva e mangiava con loro, con grande scandalo dei benpensanti.

È questa la buona notizia dei vangeli: Dio è padre ed è così pazzamente innamorato dell'uomo da perdonargli tutto e da ricoprirlo del suo amore. Chi accetta l'amore di Dio e lo riversa sugli altri senza pregiudizi e senza giudicare, avrà la vita eterna. Solo chi rifiuta questo amore che lo circonda, si autoesclude dalla vita eterna. E sarà davvero la fine.

 

Note: 1. Il Deserto di Giudea è relativamente popolato, nei suoi pochi villaggi situati lungo il perimetro. Il suo paesaggio aspro e irregolare è divenuto spesso, nel corso della storia, luogo di rifugio e nascondiglio per ribelli e zeloti , oltre che dimora ideale per la solitudine e l'isolamento di monaci ed eremiti. All'epoca dei Maccabei (circa 2.000 anni fa), nel deserto vennero edificate grandi fortezze, come Massada e Horkenya, e nel corso delle violente ribellioni contro Roma l'ultima battaglia degli Ebrei zeloti venne combattuta proprio a Massada, mentre nel periodo del Secondo Tempio, i membri di alcune comunità religiose, tra cui gli Esseni, scelsero il deserto come luogo di dimora. – 2. In nessun vangelo si dichiara Elisabetta cugina di Maria, solo in Lc 1,36 si parla di "parente" che, in ambiente semitico, va inteso in senso esteso ai componenti di una tribù che viene chiamata "famiglia"; la definizione di "cugina" è stata frutto della pietà popolare del medioevo. – 3. Vedi Lc 1,15. – 4. Il rito di immersione, simbolo di purificazione rituale e di rinnovamento era conosciuto dalle religioni antiche e dal giudaismo post-esilico e veniva applicato ai proseliti (non ebrei che volevano seguire la religione ebraica) e ai componenti del movimento monastico di Qumran. Con Giovanni il battesimo perde il suo significato rituale ed assume quello morale di purificazione dai peccati. – 5. A cavallo tra il I sec. a.C. ed il I sec. d.C., l'attesa del Messia da parte di Israele diviene spasmodica. Secondo gli scribi del I secolo il Messia tardava a venire e a manifestarsi a causa della presenza in terra di Israele di grandi peccatori quali i pubblicani (esattori delle imposte in favore dei romani) e le prostitute. I movimenti battisti miravano ed eliminare questo impedimento. Giovanni estenderà la categoria dei peccatori anche ai farisei e ai sadducei provocando scandalo. – 6. Vedere 2Re 1,8 e seguenti. – 7. Vedere Lv 11, 22. – 8. Da notare che le locuste erano consentite, ma la lepre no. Il fatto che Matteo indichi nelle locuste il cibo normalmente usato da Giovanni è una forzatura letteraria che gli consente di rimarcare la stretta osservanza della Legge da parte del personaggio; questo era indispensabile in quanto i destinatari del vangelo di Matteo erano ebrei osservanti e quindi sensibili a questi argomenti. – 9. La corrente dei farisei costituisce, probabilmente, il gruppo religioso più significativo all'interno del giudaismo nel periodo che va dalla fine del II sec. a.C. all'anno 70 d.C. ed oltre. Sul piano dottrinale, caratteristica dei farisei è l'intransigenza sulla sostanza della fede e della legge, ma si mostrano duttili sulle sue applicazioni. Le tendenze progressiste dei farisei si ritrovano sul piano teologico; anzitutto sullo sviluppo dell'escatologia, ovvero del fine ultimo di ogni uomo, nel quale vedono la risurrezione e il premio o la pena comminate da Dio. – 10. I Sadducei costituiscono una importante corrente spirituale del tardo giudaismo che si costituisce anche quale distinta fazione politica verso il 130 a.C. sotto la dinastia asmodea. Rappresentata eminentemente dall'aristocrazia delle antiche famiglie, nell'ambito delle quali venivano reclutati i sacerdoti dei ranghi più alti, nonché, in particolare, il Sommo sacerdote, la corrente dei sadducei, si richiamava, nel proprio nome, all'antico e leggendario Sadoc (anche Sadoq o Zadoq), sommo sacerdote al tempo di Salomone. Cercavano di vivere un giudaismo illuminato, ma dottrinalmente ortodosso (non accettavano la risurrezione perché non contemplata nel Pentateuco), e di trovare un compromesso anche con il potere romano. Dei sadducei e della loro spiritualità non conosciamo molto, perché la loro fazione, ritenuta colpevole di collaborazionismo nei confronti dei romani, fu letteralmente sterminata, durante la rivolta giudaica del I secolo d.C., dagli insorti più esagitati e violenti, come narra lo storico Flavio Giuseppe in quella prima guerra giudaica che, oltre ad essere una lotta di liberazione dalla dominazione straniera, fu anche una vera e propria cruenta e spietata guerra civile. Gli eventuali residui superstiti dei sadducei o furono assimilati dalla società romano-ellenica nella quale si rifugiarono, oppure si convertirono al cristianesimo.

 

 

 

 

 

 

 

giovedì 25 novembre 2010

Domenica 28 novembre 2010 – Prima domenica d'Avvento - Mt 24,37-44

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell'uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l'altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l'altra lasciata.

Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo».

 

Iniziare la lettura di Matteo con questo brano, vuol dire non rendergli giustizia. Ma non fermiamoci alle apparenze. Questo brano fa parte del cosidetto discorso apocalittico di Gesù e non può essere correttamente compreso se non lo si legge nella sua interezza e, aggiungo malignamente io, se non lo si traduce per quello che dice e non per quello che la tradizione gli ha attribuito. Leggiamo il brano che precede:

 

MT 24,1-36: Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio. Egli disse loro: «Non vedete tutte queste cose? In verità io vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta».

Al monte degli Ulivi poi, sedutosi, i discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: «Di' a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo».

Gesù rispose loro: «Badate che nessuno vi inganni! Molti infatti verranno nel mio nome, dicendo: «Io sono il Cristo», e trarranno molti in inganno. E sentirete di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi, perché deve avvenire, ma non è ancora la fine. Si solleverà infatti nazione contro nazione e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi: ma tutto questo è solo l'inizio dei dolori.

Allora vi abbandoneranno alla tribolazione e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. Molti ne resteranno scandalizzati, e si tradiranno e odieranno a vicenda. Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; per il dilagare dell'iniquità, si raffredderà l'amore di molti. Ma chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato. Questo vangelo del Regno sarà annunciato in tutto il mondo, perché ne sia data testimonianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine.

Quando dunque vedrete presente nel luogo santo l'abominio della devastazione, di cui parlò il profeta Daniele - chi legge, comprenda -, allora quelli che sono in Giudea fuggano sui monti, chi si trova sulla terrazza non scenda a prendere le cose di casa sua, e chi si trova nel campo non torni indietro a prendere il suo mantello. In quei giorni guai alle donne incinte e a quelle che allattano!

Pregate che la vostra fuga non accada d'inverno o di sabato. Poiché vi sarà allora una tribolazione grande, quale non vi è mai stata dall'inizio del mondo fino ad ora, né mai più vi sarà. E se quei giorni non fossero abbreviati, nessuno si salverebbe; ma, grazie agli eletti, quei giorni saranno abbreviati.

Allora, se qualcuno vi dirà: «Ecco, il Cristo è qui», oppure: «È là», non credeteci; perché sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e miracoli, così da ingannare, se possibile, anche gli eletti. Ecco, io ve l'ho predetto.

Se dunque vi diranno: «Ecco, è nel deserto», non andateci; «Ecco, è in casa», non credeteci. Infatti, come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell'uomo. Dovunque sia il cadavere, lì si raduneranno gli avvoltoi.

Subito dopo la tribolazione di quei giorni,

il sole si oscurerà,
la luna non darà più la sua luce,
le stelle cadranno dal cielo
e le potenze dei cieli saranno sconvolte.

Allora comparirà in cielo il segno del Figlio dell'uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell'uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli, con una grande tromba, ed essi raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all'altro dei cieli.

Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l'estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete tutte queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.

Quanto a quel giorno e a quell'ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre. Come furono i giorni di Noè, così……….

 

Facciamo subito chiarezza: GESÙ NON STA PARLANDO DELLA FINE DEL MONDO. Il versetto 3 messo in bocca ai discepoli dice testualmente, traducendo letteralmente dal greco, "quando sarà il segno della tua presenza e della fine dell'epoca?".

E' chiaramente una frase idiomatica(1) di non facile interpretazione. Nel mondo greco-romano la parola "presenza" designava la visita ufficiale e solenne di un principe in un determinato luogo. Non sappiamo nulla, però, del significato che questa frase aveva assunto nel mondo semitico. Possiamo solo ipotizzare, con buona approssimazione, che i discepoli stiano dicendo a Gesù: "…quando verrà distrutto il tempio, tu sarai certamente il re di Israele, con quali segni ci avvertirai?...". Del resto l'idea della seconda venuta di Cristo non è presente in maniera esplicita nel NT e il versetto Gv 14,3(2), che, ad una lettura superficiale, sembra annunziarla, può più propriamente essere inteso in modo simbolico. Solo con l'interpretazione di Giustino(3) si inizia a parlare di "ritorno" di Cristo.

Veniamo ora alla restante parte della frase: avevo detto che questo viene chiamato il discorso apocalittico di Gesù. La scrittura apocalittica è un genere letterario tipicamente semitico, molto lontano dalla nostra mentalità, che, attraverso la descrizione di catastrofi, disgrazie e visioni grandiose e simboliche cerca di risollevare l'animo ed il morale di lettori che stanno vivendo situazioni difficili; è il cosidetto scritto o discorso di consolazione attraverso il quale viene svelato un avvenire che farà dimenticare le sofferenze presenti. Vedere ad esempio Is 24-27, Ez 38-39, Dn 7-12, Zc 9-14 e, nel NT, l'Apocalisse di Giovanni.

Matteo ha avuto modo di assistere all'inizio delle persecuzioni (la prima fu ordinata da Nerone nel 64) ed alla distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 ad opera dei romani. Entrambi gli avvenimenti risultarono essere sconvolgenti sia per l'ebraismo che per la neonata chiesa giudeo-cristiana; i credenti avevano bisogno di un conforto per sperare in un futuro di pace e serenità. A questo scopo Matteo costruisce questo discorso apocalittico mescolando i due avvenimenti e dandogli un indirizzo escatologico(4) che forse Gesù non avrebbe condiviso.

Le parole di Gesù richiamano le difficoltà incontrate dalle prime chiese cristiane ad affermare la loro fede (nel primo secolo e all'inizio del secondo apparirono in Palestina e nella Turchia sud orientale molti falsi profeti messianici) in mezzo a rivolte e guerre (le rivolte dei Parti e le Guerre Giudaiche) che confonderanno molti che, non credendo più all'amore universale proclamato da Cristo, abbandoneranno la fede e si schiereranno con il più forte denunciando amici e parenti. Simbolo di tutto questo sarà l'abominio della devastazione che, nell'immaginario ebraico, rappresentava il massimo delle disgrazie: il profeta Daniele designava con ciò un altare pagano che Antioco Epifane aveva fatto erigere nel tempio di Gerusalemme nel 168 a.C. (1Mac 1,54). Di fronte a questi avvenimenti ci si potrà salvare solo con la fuga abbandonando tutto. Solo chi avrà mantenuto salda la fede in Gesù riuscirà a vedere la fine di questo periodo (epoca(5)) e sarà in grado di far parte del Regno di Dio che si affermerà prepotentemente.

Occorre sottolineare che Matteo mette in bocca a Gesù due definizioni di se stesso: Cristo (il Messia, l'Unto di Dio) e Figlio dell'Uomo. Queste due definizioni non sono coincidenti(6) e devono essere intese in modo differente. Gesù utilizzò l'espressione o concetto del Figlio dell'Uomo perché era un contenitore aperto che Dio poteva riempire a suo piacimento, era l'epressione della volontà di Dio che diventa azione. Ecco che la "venuta del Figlio dell'Uomo" diviene l'attuazione della volontà di Dio, il prevalere sulla terra del Regno di Dio, l'insieme di tutti gli uomini che mettono in pratica le beatitudini.

Ecco l'atto consolatorio, il fine dello scritto apocalittico; ma non è finita, c'è dell'altro: la citazione di Isaia(7) e di Amos: "…il sole si oscurerà….e le potenze dei cieli saranno sconvolte…" è un altro messaggio di speranza. Si, di speranza, nonostante la pensino diversamente sia i Testimoni di Geova che Radio Maria (molte volte i loro pareri sono coincidenti), Gesù non sta parlando di fine del mondo, ma di inizio di un mondo nuovo.

Gli astri, nella Bibbia, non indicano il cosmo, ma le divinità pagane. Nel mondo che circondava Israele, il sole non era un astro, era una divinità ed era adorata come tale. La luna era una dea, e sotto il termine di stelle si rappresentavano i potenti della terra.

Per comprendere questo è necessario ricordare che, a quell'epoca, ogni potente si considerava di condizione divina: il faraone, non era un uomo normale, era figlio di un dio, l'imperatore era un dio, tutti coloro che comandavano pretendevano di avere la condizione divina, e, nella Bibbia, queste persone venivano identificate con le stelle.

Gesù, quindi, non sta minacciando una catastrofe, ma qualcosa di bello. Dice: 'se voi fate brillare lo splendore di questo messaggio d'amore, questa luce oscurerà le false divinità'. Allora quando dice che il sole si oscura, è perché brilla la vera luce. Il messaggio di Gesù è la luce che splende tra le tenebre. Più la luce splende, più le tenebre si allontanano.

Allora se voi annunciate il messaggio della verità del vero Dio, le false divinità, una ad una si rivelano per quello che sono, dei falsi e perdono il loro splendore. E nei cieli, cioè nella condizione divina, comincerà un terremoto e le stelle, una dopo l'altra, cominceranno a cadere.

Perché se io credo che il faraone è un figlio di dio, ho paura di trasgredire i suoi ordini e quindi lo rispetto. Ma se invece io so che è un uomo come me, anzi, peggio, perché è un mascalzone e forse ha ammazzato e rubato, posso pensare di sfidarlo.

Questa è la pericolosità del messaggio cristiano, quella che ha spaventato i potenti di tutti i secoli, che hanno costretto a trasformare il cristianesimo da fede attiva nel sociale e nel politico a fede prona e succube di concetti moralistici e non etici: perché tutti non capissero che l'unico che è nei cieli, cioè che è importante, è il Padre.

Avete mai pensato perché Matteo, quando trascrive il Padre Nostro, dice: "Padre nostro che sei nei cieli"? Non è chiaramente l'indirizzo di Dio, ma dicendo "padre nostro che sei nei cieli", afferma che l'unico che ha autorità è il Padre, tutto il resto è niente. È un'affermazione rivoluzionaria per quei tempi (e non solo per quei tempi); i primi cristiani furono perseguitati per questa affermazione, perché non riconoscevano nell'imperatore uno che stava nei cieli.

Quindi gli astri sono, in bocca a Gesù, le ideologie o le divinità che assumono il potere di comandare sugli uomini. Se facciamo splendere il messaggio di Gesù, uno dopo l'altro questi astri si oscurano e coloro che determinano il loro potere grazie a questi astri, uno dopo l'altro cominceranno a capitolare. Ecco perché nel Vangelo di Luca, dice: "Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina" (Lc 21,28). Luca è un greco e quindi, in questo, è molto più esplicito di Matteo.

Quindi non un messaggio di fine del mondo, da avere paura, ma qualcosa di positivo. Gesù ci assicura che tutti i sistemi che sono contro l'uomo, uno dopo l'altro, capitoleranno. Ci sono dei sistemi che si credono eterni e la loro fine sembra la fine del mondo. No, è fine di un tempo e dopo ne nascerà uno migliore.

Agostino, quando vede l'impero romano sgretolarsi sotto la pressione dei barbari dice: è la fine del mondo. Agostino non poteva immaginare un mondo diverso da quello nel quale era cresciuto: il grande impero romano. Per lui se finisce l'impero romano, è la fine del mondo. No, è la fine di un tempo, di un'epoca, di un'era. Tutte le potenze che opprimono l'uomo, una dopo l'altra, nella storia, verranno eliminate e ogni volta emergerà, (apparirà), il Figlio dell'Uomo, la volontà di Dio.

Ora siamo pronti a comprendere il vangelo di questa domenica; senza questa lunga premessa il brano del vangelo è ostico e rischia di essere letto in chiave grottesca.

Gesù, al solito, è straordinario: cita gli eventi simbolici di Noè, dice che intorno a lui c'era un sacco di brava gente che venne travolta dal diluvio senza neppure accorgersene. Perciò ci invita a vegliare, a stare desti, proprio come fa Paolo scrivendo ai Romani: Gesù ci invita a renderci conto che sta arrivando la nostra liberazione, questo atteso e desiderato regno di pace, il Regno di Dio, la volontà di Dio divenuta fatto, atto reale, atto fattivo.
E Gesù avverte: uno è preso, l'altro lasciato. Uno incontra Dio, l'altro no. Uno è riempito, l'altro non si fa trovare. Dio è discreto, modesto, quasi timido, non impone la sua presenza, la sua venuta è come la brezza della sera.

A noi è chiesto di spalancare la mente, di far funzionare la nostra intelligenza, di aprire gli occhi, di lasciar emergere il desiderio. Come? Non lo so con certezza; io cerco di farlo ritagliandomi uno spazio quotidiano alla preghiera, per meditare la Parola. Alcuni riescono a prendersi una domenica pomeriggio per fare un paio d'ore di silenzio e di preghiera, altri fanno una piccola deviazione andando al lavoro per entrare in una chiesa. Se vissuti bene, aiutano anche i simboli, a me ostici, del Natale cristiano: preparare un presepe, addobbare un albero, partecipare alla novena.

Facciamo qualcosa, una piccola cosa, per chiederci se Cristo è nato in noi, per non lasciarci travolgere dal diluvio di parole e cose che ognuno vive. Ma, ad aggravare la nostra situazione, non dobbiamo solo combattere contro la dimenticanza. Ci tocca pure combattere contro il finto Natale, il Natale tarocco.

Non capisco perché una festa splendida, la festa che celebra la notizia dell'inaudito di Dio che irrompe nel mondo, sia stata travolta dalla melassa del buonismo natalizio. È un dramma, il Natale, è la storia di un Dio presente e di un uomo assente. Non c'è proprio nulla da festeggiare, non abbiamo fatto una gran bella figura, la prima volta.Natale è un pugno nello stomaco, una provocazione, un evento che obbliga a schierarsi. Natale è l'arrendevolezza di Dio che ci obbliga a conversione. Quindi viva la festa, ma che sia autentico ciò che facciamo, che sia presente il festeggiato, Dio, alle nostre ipercaloriche cene, che i bimbi capiscano che è il suo compleanno, anche se i regali ce li facciamo noi.

Io, ormai, sono vecchio. Lo dico con un po' di civetteria, lo ammetto, ma anche con sgomento: in questi anni ho visto che il Natale, per i poveri veri, per chi ha subito un abbandono, un trauma, un lutto, è diventato una festa odiosa e insostenibile, l'ho provato sulla mia pelle.

Di fronte alle immagini stereotipate della famiglia felice intorno all'albero che ci propinano i media, c'è chi, invece, vivendo affettività fragili e solitudini, è travolto da un insostenibile dolore. E questo mi fa impazzire di rabbia.

Il Dio dei poveri, il Dio che viene per i pastori, gli emarginati di quel tempo, il Dio che non nasce nel Tempio di Gerusalemme, ma in una casa palestinese, viene sostituto dal Dio piccino del nostro ipocrita buonismo.

Se i nonni soli, se le persone abbandonate, se i feriti dalla vita non hanno un sussulto di speranza nella notte di Natale, significa che il nostro annuncio è ambiguo, travolto e sostituito da un inutile messaggio di generica pace.

Esagero? Voglia Dio che sia così.

In un mondo privo di speranza, il cristiano attende un avvento (una venuta), crede a un evento, anzi ad un fatto che precede e determina tutta la vicenda umana: si tratta dell'invasione di Dio nella nostra storia di uomini, per rivelare un progetto preciso, per proporre e sollecitarvi una collaborazione, e alla fine per portarlo a compimento con una ri-creazione di mondi nuovi. E' il fondamento della speranza cristiana, non sentimentale, ma garantita dalla potenza e dalla fedeltà di Dio.

 

Note: 1. Cioè una frase alla quale la cultura e la tradizione della comunità che l'ha espressa danno un significato diverso (e talora molto diverso) dal significato letterale. Per esempio in italiano la frase "ha i grilli in testa" significa che la persona cui la frase si riferisce ha idee balzane che nulla hanno a che fare con i grilli. – 2. "Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi". – 3. Giustino martire (Flavia Neapolis, 100 – Roma 162 - 168) è stato un filosofo palestinese fortemente influenzato dalla filosofia greca e platonica in particolare. Flavia Neapolis, la sua città natale, era il nome romano dell'attuale Nablus. La Chiesa cattolica lo venera come santo e lo annovera tra i Padri della Chiesa; i suoi due più famosi scritti Prima Apologia dei Cristiani e Seconda Apologia dei Cristiani ne fanno uno dei primi difensori del pensiero cristiano. Viene venerato come santo anche dalla Chiesa ortodossa. – 4. Cioè riferito al destino di ogni uomo e, tramite di lui, dell'umanità tutta (escatologia = dei giorni ultimi). – 5. Nella letteratura apocalittica del I secolo rieccheggia la concezione filosofica greca della scuola gnostica che divideva il tempo in ere o epoche (aiȍn = eone, era, epoca). Secondo lo gnosticismo il passaggio da un'era all'altra era segnato da sconvolgimenti e catastrofi. – 6. Vedere a questo proposito l'intervento di James H. Charlesworth al convegno internazionale Il Messia tra memoria ed attesa, Venezia 4-6 luglio 2003. James H. Charlesworth è professore di nuovo testamento, lingua e letteratura neocristiana al Princeton Theological Seminery (New Jersey, USA). – 7. Is 13,9-10; 34-4 e Am 8,9 e segg.