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Le esegesi riportate in questo blog non sono frutto delle mie capacità, in realtà molto modeste. Le ricavo leggendo diversi testi dei più importanti specialisti a livello mondiale, generalmente cattolici, ma non disdegno di verificare anche l’operato di esegeti protestanti, in particolare anglicani. Se si escludono alcuni miei approfondimenti specifici, per la parte tecnica dell’analisi critica il mio testo di riferimento è questo:

- Giovanni Leonardi
, Per saper fare esegesi nella Chiesa, 2007 Ed. Elledici (testo promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale). Questo testo è molto semplice, veramente alla portata di tutti; per migliorare la capacità di analisi deve essere affiancato da altri due testi per la parte linguistica, anch’essi a livello divulgativo:

- Filippo Serafini,
Corso di greco del nuovo testamento, 2003 Ed. San Paolo.
- Luciana Pepi, Filippo Serafini,
Corso di ebraico biblico, 2006 Ed. San Paolo (da usare solo nel caso si voglia approfondire l’etimologia semitica sottesa ai vocaboli greci).

I testi della Bibbia in lingua originale sono pubblicati da varie case editrici; in particolare per i Vangeli segnalo l'ottimo testo della Edizioni Enaudi e quello sinottico della Edizioni Messagero in quanto hanno i testi greco ed italiano a fronte. Si trovano anche in vari siti in rete, ma non sempre sono testi aggiornati con le ultime scoperte a livello archeologico o paleografico.
Per la parte sostanziale normalmente faccio riferimento a documenti prodotti dalle fonti seguenti, che riporto in ordine decrescente di frequenza di utilizzo:

- École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), retto dai Domenicani e dove ha lavorato anche il Card. Martini.
- Centro Studi Biblici “G. Vannucci” – Montefano (An), retto dall’Ordine dei Servi di Maria.
- Sito www.Nicodemo.net gestito da P. Alessandro Sacchi.
- Università degli studi di Torino – Corso di Letteratura cristiana antica – Prof.essa Clementina Mazzucco.
- Fr. Dante Androli, OSM, docente di esegesi alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum – Roma
- Università degli studi La Sapienza di Roma – Corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Prof.essa Emanuela Prinzivalli.
- Biblia, Associazione laica di cultura biblica – Settimello (Fi)


lunedì 26 dicembre 2011

Domenica 1 gennaio 2012 – Maria Santissima Madre di Dio

Lc 2, 16-21

In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.

Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.

I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro.

Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall'angelo prima che fosse concepito nel grembo.

Il brano in esame è la prosecuzione di quello letto la notte di Natale; per comprenderlo meglio occorre leggere anche il versetto 15 che il liturgista ha, incomprensibilmente, saltato:

"Appena gli angeli partirono da loro per il cielo, i pastori si dicevano l'un l'altro: andiamo dunque fino a Betlemme e vediamo questo avvenimento, l'accaduto che il Signore ci ha fatto conoscere". Domenica scorsa avevamo detto che i pastori sono il simbolo, il prototipo dei peccatori incalliti, quelli senza alcuna speranza di redenzione(1). Luca afferma che questi peccatori, ricevuto il messaggio che l'amore di Dio è per tutti, anche per loro, cambiano totalmente atteggiamento e vogliono andare sino in fondo, vogliono toccare con mano il dono che è stato fatto loro. Da questa loro decisione si sviluppa un altro avvenimento: la sorpresa da parte dei genitori di Gesù.

"…andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro".

La prima sorpresa è il fatto che Giuseppe li accolga e li ascolti; la seconda che sia presente anche Maria ed il bambino, una vera rivoluzione nelle usanze ebraiche. Giuseppe è un giusto(2) (Mt 1,19), un attento esecutore di quanto previsto dalla Legge, eppure Luca non accenna ad alcun moto di repulsione di Giuseppe quando vede arrivare i pastori, persone sicuramente impure: infatti, più che una situazione reale, Luca sta descrivendo quale sarà (o dovrebbe essere) il comportamento degli uomini con la venuta del Messia che annullerà ogni legge, ogni precetto, ogni usanza che risulti contraria al benessere ed alla felicità degli uomini(3).

"Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori."

Guardate cosa sta dicendo Luca(4): tutti quelli che avevano ascoltato si stupirono, tutti, compresa Maria e compreso Giuseppe, "…delle cose dette loro dai pastori". Sono stupiti perché c'è qualcosa che non quadra: c'era tutta una tradizione di un Dio che detestava i peccatori, di un Dio che voleva sterminare i peccatori (Sal 37,22.38); c'era la tradizione che attendeva il Messia come il giustiziere che avrebbe fatto piazza pulita dei peccatori (Mt 3,10-12); adesso si presentano i peccatori per eccellenza e dicono: siamo stati avvolti dall'amore del Signore e Dio ha detto che è nato quello che per noi sarà la salvezza.

Tutti, Maria compresa, si stupiscono di questo.

Da qui in poi ha inizio la descrizione dell'incomprensione da parte di Maria e da parte di Giuseppe: più volte Luca dirà che essi con capivano queste cose ma proprio di qui inizia e si sviluppa quella che sarà la grandezza di Maria: Gesù le presenterà qualcosa di nuovo, qualcosa di inaudito, le presenterà un Dio differente da quello che lei aveva conosciuto dalla tradizione e Maria lo accetterà.

Nel vangelo più antico, quello di Marco, è riportato un episodio drammatico: tutto il clan familiare ha deciso di catturare Gesù ritenuto ormai demente (Mc 3,21-35). Gesù, presentatosi come l'inviato del Signore (Lc 4,18-21), si è comportato infatti come un nemico di Dio, trasgredendo i precetti e comandamenti più sacri (Mc 3,5.22; 7,15-23), e mentre le autorità religiose lo bollano come bestemmiatore eretico ed indemoniato (Mt 9,3), per la gente è solo un pazzo a cui lanciare pietre (Gv 8,59).

La richiesta dei famigliari di Gesù "Tua madre e i tuoi fratelli ti vogliono", è interrotta dalla fredda risposta del Cristo: "Chi è mia madre?..."

Per Gesù suoi intimi sono solo quelli che lo seguono e come lui vivono la volontà del Padre traducendola in un amore incondizionato che si rivolge a tutti, prescindendo da categorie religiose, morali e sessuali (Lc 10,29-37).

Maria deve scegliere: o resta con il clan famigliare, che ritiene Gesù un matto, e salva così la sua reputazione, o segue il figlio, conosciuto per essere "un mangione e un beone, amico di pubblicani e peccatori" (Mt 11,19).

A Nazaret Maria s'era fidata dell'invito rivoltole dal suo Signore e da questo suo assenso era nato il Messia di Dio. In questa seconda annunciazione(5), più sofferta e matura, Maria risponde ancora con un sì all'invito alla pienezza di vita che le viene da Gesù e che la condurrà a una nuova nascita: la sua.

Ora sarà la madre che rinascerà dal figlio: nuova nascita che avverrà "dall'alto" (Gv 3,3), da colui che, innalzato in croce, trasformerà la madre nella fedele discepola (Gv 19,25-27).

Coronamento della prima annunciazione era stata la beatitudine con la quale si aprono i vangeli: "Beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore" (Lc 1,45); la seconda annunciazione troverà la sua formulazione nella beatitudine con la quale i vangeli si chiudono: "Beati quelli che pur non avendo visto crederanno" (Gv 20,29).

Mentre l'annunciazione di Nazaret culmina a Betlemme, dove lo sfolgorio di luce della gloria del Signore avvolge la nascita del Figlio, e pastori e magi sono in adorazione (Lc 2,1-21; Mt 2,1-12), l'altra sfocerà nelle tenebre di Gerusalemme (Mc 15,33), dove bestemmie e sberleffi accompagnano la morte del Cristo e la rinascita di Maria (Mc 15,29-32; Gv 19,27).

Presso la croce l'evangelista non presenta una madre schiacciata dal dolore, che comunque sta vicina al figlio anche se questo è un criminale, ma la coraggiosa discepola che ha scelto di seguire il maestro a rischio della propria vita, mentre gli apostoli, che avevano giurato di esser pronti a morire per lui (Mc 14,29-31), sono vigliaccamente fuggiti (Mt 26,56).

Sul Gòlgota, più che una madre che soffre per il figlio, Giovanni mostra infatti la discepola che soffre con il suo maestro, la donna che condivide la pena dell' "Uomo dei dolori" (Is 53,3; Rm 8,17). Maria ha preso la sua croce, e si è posta a fianco del giustiziato contro chi lo ha crocifisso, schierandosi per sempre a favore degli oppressi e dei disprezzati.

Non è stato facile per Maria.

Per schierarsi col crocifisso si è messa contro la propria famiglia e ha dovuto rompere con la religione che, nella persona del suo rappresentante più alto, il Sommo sacerdote, aveva scomunicato Gesù (Mt 26,65; Mc 3,22). Infine, scegliendo il condannato, ha osato pure mettersi contro il potere civile che giustiziava quel galileo come pericoloso rivoluzionario (Mt 27,38). Maria presso il patibolo aderisce attivamente a Colui che "rovescia i potenti dai troni" (Lc 1,52): sta dalla parte delle vittime di questi potenti e fa sua la croce, cioè accetta, come Gesù, di essere considerata un rifiuto della società pur di non venire meno all'impegno di essere presenza dell'amore di Dio in mezzo al mondo (Mc 8,34).

La grandezza di Maria non consiste nell'aver dato alla luce Gesù, ma di essere stata capace poi di diventare la sua discepola.

Tutti erano sconvolti, ma "Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.". Il cuore nel mondo ebraico è la mente, la sede del pensiero e delle emozioni. Anche Maria è sconvolta, c'è qualcosa che non quadra ma non rifiuta nulla: ci pensa, ci riflette nel suo cuore.

"I pastori poi se ne tornarono…" e qui Luca scrive qualcosa di incredibile, qualcosa di straordinario che cambierà per sempre il nostro rapporto con Dio e di conseguenza anche quello con gli altri. Scrive Luca: "I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com'era stato detto loro".

Dopo aver fatto l'esperienza del Dio amore, è possibile anche ai pastori, quelli che la religione riteneva i più lontani da Dio, lodarlo e glorificarlo, cioè essere gli intimi di Dio.

"Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall'angelo prima che fosse concepito nel grembo". E' la conclusione della vicenda familiare; d'ora in poi tutto quello che riguarda Gesù sarà pubblico, a cominciare dalla sua presentazione al Tempio.

Note: 1. Vivendo tra le bestie, i pastori diventavano persone abbrutite, erano considerati come dei criminali, dei ladri; si rubavano il bestiame tra di loro, si uccidevano e, secondo il Talmud, erano considerati non-persone, non godevano di nessun diritto civile. Naturalmente, abbrutiti da questo lavoro, essi non avevano né il tempo, né la possibilità di fare le purificazioni quotidiane o di andare al tempio, cosa che li emarginava sempre di più. – 2. Con il termine giusto, zaddiq in ebraico, non s'intende una persona retta, una persona di buona moralità: nel mondo ebraico i giusti erano una specie, diciamo così, di confraternita, di persone laiche, molto devote, che s'impegnavano ad osservare nella loro vita quotidiana tutti quei 613 precetti che i farisei avevano ricavato dalla legge di Mosè. Ne consegue che Giuseppe non avrebbe potuto parlare con degli impuri senza diventarlo anche lui e che Maria, come tutte le donne, non avrebbe potuto intrattenersi con persone estranee alla famiglia sia pure in presenza di Giuseppe. – 3. Con ragione ha scritto Paolo: "Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge" (Gal 3,13). Il grande problema della Chiesa Cattolica è l'aver ricostruito, imitando i farisei del I secolo, la rete di precetti, obblighi e dogmi contro i quali si era battuto Gesù, dimenticando che l'unico imperativo morale, come ha insegnato Cristo, è il benessere e la felicità dell'uomo. – 4. L'analisi che segue è liberamente tratta da un articolo di P. Alberto Maggi "Maria, la fantasia di Dio". – 5. L'episodio riportato da Marco (Mc 3,31-35) è considerato dai teologi la seconda annunciazione a Maria certamente più importante della prima in quanto non è vissuta passivamente (o quasi), ma ha comportato un'intima, corraggiosa decisione autonoma.

lunedì 19 dicembre 2011

Domenica 25 dicembre 2011 – Natale del Signore

Massa della Notte – Lc 2,1-14

In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città.

Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta.

Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c'era posto nell'alloggio.

C'erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all'aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, ma l'angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».

E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».

Messa del Giorno – Gv 1, 1-18

In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.

Egli era, in principio, presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta.

Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.

Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.

Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto.

Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.

A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.

Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me».

Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.

Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.

Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.

Per quanto riguarda l'analisi del brano di vangelo per la Messa del Giorno vi invito a vedere quanto riportato la domenica 2 gennaio 2011. Passiamo quindi all'esame del brano che il liturgista ha scelto per la Messa della notte. Per comprendere a pieno la narrazione della nascita di Gesù bisogna un po' distaccarsi dalle tradizioni, dalle pie leggende, dalle devozioni che l'hanno accompagnata, avvolta ed addirittura offuscata per secoli. Infatti per la maggior parte dei cristiani, la nascita di Gesù è più quella che viene narrata nei presepi che quella descritta nei Vangeli, in particolare quello di Luca.

"In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra". Cesare Ottaviano era nipote adottivo di Giulio Cesare ed è stato il primo imperatore che si fece insignire del titolo di Augusto, che significa sublime, per indicare che la sua condizione non era semplicemente umana, ma era una condizione divina(1). Augusto si faceva chiamare anche figlio di dio e questo è importante per comprendere quello che l'evangelista sta scrivendo; un altro dei suoi titoli era salvatore del mondo. Questo grande rapinatore, questo assassino, questo uomo che distruggeva persone, case e popoli, si faceva chiamare il salvatore del mondo; Cesare Augusto celebra il suo potere indicendo il censimento di tutta la terra abitata. La finalità del censimento è chiara: tutti quanti dovevano essere schedati e censiti, affinché nessuno potesse sfuggire al pagamento delle imposte; quindi il salvatore del mondo, Cesare Augusto, celebra il suo trionfo mediante quella che si configura come una grande rapina perché in allora le tasse non servivano a realizzare servizi ai cittadini, ma ad arricchire l'imperatore e a finanziare le guerre di occupazione. In questo momento in cui l'impero manifesta tutto il suo splendore, nasce il bambino che, con il suo insegnamento dell'amore opposto ad ogni potere e dominazione, ne minerà le basi e lo farà crollare, come dirà più avanti Zaccaria: "Sta per sorgere colui che sarà la luce di coloro che camminano nelle tenebre" (Lc 1,79). Zaccaria non sta parlando dell'oscurità del peccato, come erroneamente insegnavano i teologi del medioevo, ma sta parlando dell'oscurità dell'oppressione, quando la vita è difficile e non si vede ancora la luce in fondo al tunnel. "Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria". Questa precisazione di Luca ci permette una datazione: dopo il 6 d.C., data confermata da Giuseppe Flavio, storico ebreo del I sec. d.C.(2).

"Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide…". Fermiamoci un attimo perché la denominazione che segue "…chiamata Betlemme…" è per lo meno strana: nella Bibbia la città di Davide è sempre considerata Gerusalemme; evidentemente questa stranezza sottintende un significato che Luca vuole trasmettere. La città di Davide si chiama Betlemme perché se Gerusalemme è stata la città dove Davide fu re, Betlemme è stata la città dove Davide fu pastore (Cfr. 1Sam 16,1-13). Luca vuol far capire che colui che nascerà non avrà i tratti del Davide monarca, ma sarà il pastore, il pastore atteso (Ez 34,23) che era il terrore dei sommi sacerdoti: infatti le profezie, da Ezechiele in poi, dicevano che il Signore, riferendosi ai pastori (i governanti allora venivano chiamati pastori!), diceva: ecco io mando un pastore che farà piazza pulita di tutti voi, falsi pastori (Ez 34,10). "...egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta". La traduzione purgata della CEI non inganni: Luca adopera lo stesso termine che usa all'annunzio dell'angelo, "promessa sposa" anche se la traduzione parla di "sposa". Quindi Maria e Giuseppe si trovano ancora nella prima parte del matrimonio e non sono passati alla seconda. Questo crea sconcerto perché due che erano nella prima parte del matrimonio non potevano convivere ed era inammissibile, scandaloso, che potessero fare un viaggio insieme. Ebbene Luca ci presenta qui una coppia che è irregolare, una coppia che non ha compiuto tutti i termini del matrimonio(3). "Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto." È importante sottolineare tutte le piccole cose; forse sono troppo pedante, ma lo faccio per sbarazzarci di tutte le leggende che hanno offuscato la bellezza di questo brano: ricordo che alle elementari, in occasione del Natale, ci facevano imparare una filastrocca, mi pare di Gozzano, che metteva angoscia; presentava Maria e Giuseppe come una coppia di sprovveduti che arriva a Betlemme proprio il giorno che doveva partorire il figlio; è mezzanotte ed ancora non sanno dove andare, bussano di là, no, non c'è posto e così via. Ecco questo fa parte dell'immaginario popolare che nulla ha a che fare con la serietà dei Vangeli. Infatti Luca non scrive che mentre arrivavano là o mentre giungevano là arrivarono le doglie, ma "mentre si trovavano in quel luogo". Una donna in quello stato di gravidanza non poteva percorrere tutti quei chilometri che separavano Nazareth da Betlemme, circa 140, tanto più che l'immagine di Giuseppe a piedi e Maria sull'asinello non si sarebbe mai potuta verificare in oriente: in oriente, ancor oggi, vedrete l'uomo sull'asino e la donna incinta a piedi e con i bagagli sulla testa o sulle spalle(4). Non era ammissibile che una donna sedesse su un mezzo di trasporto perché la donna non era considerata allo stesso livello del maschio, ma a livello della bestia da soma. Di conseguenza una donna in avanzato stato di gravidanza non poteva percorrere tutti quei chilometri a piedi e pertanto il viaggio da Nazareth a Betlemme è sicuramente avvenuto nei primi mesi di gravidanza, quando per una donna incinta era ancora possibile percorrere a piedi questo tragitto.

"Diede alla luce il suo figlio primogenito": perché questa espressione primogenito, significa che poi ce ne furono altri? I Vangeli e gli altri scritti del NT lo affermano (Mc 3,31-34.5,3-4; Mt 12,46-50.13,55-56; Lc 8,19-21; Gv 2,12.7,3-10; Att 1,14; 1Cor 9,5; Gal 1,19), ma la tradizione della Chiesa lo esclude. Comunque sia, Luca adopera l'espressione primogenito perché, secondo la tradizione ebraica, ogni primogenito veniva consacrato al Signore (Es 13,2) e questo rito, unitamente alla purificazione di Maria, viene descritto da Luca più avanti (Lc 2,22-38).

"..lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c'era posto nell'alloggio". Con la traduzione CEI 2008 finalmente è stata eliminata la parola albergo e sostituita dalla parola alloggio! Sinceramente continuo ancora a chiedermi dove l'avevano trovata la parola albergo perché nel testo greco originale non esiste(5).

E' importante una esatta traduzione dei testi biblici perché proprio da una errata interpretazione del testo nacque poi la leggenda che non c'era posto per loro nell'albergo di Betlemme; Luca adopera lo stesso termine che usa per l'ultima cena di Gesù: "ha detto il Maestro, dov'è la stanza dove posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli?" (Lc 22,11), e non usa il termine greco che si può tradurre con locanda che è il termine che troviamo nella parabola del buon samaritano (Lc 10,29-37), dimostrazione, ammesso che ce ne fosse bisogno, che Luca conosceva perfettamente la differenza di significato tra i due vocaboli.

Altra traduzione imprecisa, che non è stata ancora corretta, è "mangiatoia" perché oggi tutti gli esegeti parlano di "scaffale" anche perchè una mangiatoia non è mai posizionata dentro una casa. Ma andiamo con ordine.

Vediamo qual è il significato della frase "perché per loro non c'era posto nell'alloggio".

Leggendo il Vangelo, dovremo sempre fare lo sforzo di collocarlo nell'ambiente palestinese, nel quale è nato. Ancor oggi possiamo vedere i resti delle case palestinesi dell'epoca: c'era la parte posteriore della casa che era scavata nella roccia ed era la parte più sana, più sicura e più protetta, anche dal caldo nella stagione estiva. Lì c'era il magazzino, la dispensa, gli alimenti disposti sopra scaffali per non farli divenire preda di animali che potevano entrare. Sul davanti c'era, costruita in muratura, una stanza dove tutta la famiglia viveva. Lì si cucinava, si mangiava e la sera si gettavano delle stuoie per terra e tutta la famiglia, che normalmente comprendeva anche i genitori del marito e, alle volte, anche cugini e zii, vi dormiva(6).

In questa stanza dove tutti dormono, dove tutti alloggiano, non c'è posto "per loro" (ovvero per la madre e il neonato) perché la legge ebraica segnalava che la donna al momento del parto era impura(7). Impuro significa che le viene impedita la comunione con Dio. Perciò, sempre secondo la tradizione ebraica, una donna che partorisce non può stare in mezzo agli altri, perché essendo impura, rende impuro tutto ciò che tocca e tutti quelli che si avvicinano a lei o entrano in contatto con lei. Maria e il bambino vengono quindi confinati in questa parte della casa che oltretutto era anche la più pulita poiché ci stavano gli alimenti.

Immaginare che Giuseppe si accosti a Maria e al neonato come si vede nei presepi vuol dire non conoscere la leggi rituali ebraiche scritte nella Bibbia.

La descrizione che Luca ne fa è molto sobria, appena due versetti, ma tutta la descrizione serve a preparare la incredibile novità che adesso viene presentata.

"C'erano in quella regione alcuni pastori…": i pastori(8) dell'epoca non erano come le nostre figurine del presepio, tanto bellini e carini con i loro agnellini sulle spalle: vivendo tra le bestie diventavano persone abbrutite, erano considerati come dei criminali, dei ladri; si rubavano il bestiame tra di loro, si uccidevano e, secondo il Talmud, erano considerati non-persone, non godevano di nessun diritto civile e, dice sempre il Talmud, se per strada trovi un pastore che è caduto in dirupo, non tirarlo fuori: tanto per lui non c'è speranza di resurrezione e allora lascialo lì. Naturalmente, abbrutiti da questo lavoro, essi non avevano né il tempo, né la possibilità di fare le purificazioni quotidiane o di andare al tempio, cosa che li emarginava sempre di più.

Gli ebrei attendevano la venuta del Messia e avevano redatto un elenco di dieci cose che il Messia avrebbe fatto alla sua venuta; tra queste cose c'era l'eliminazione fisica di tutti i peccatori: al primo posto, nella lista dei peccatori, c'erano i pastori.

I pastori erano perciò l'immagine dei peccatori per i quali non c'è nessuna speranza. "..che, pernottando all'aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce"(9). Leggendo i salmi, (ad esempio nel salmo 37 si legge: tutti i peccatori saranno distrutti; oppure un altro che dice: il Signore si alza al mattino e distrugge tutti i peccatori della terra), è possibile prevedere solo terrore per i pastori: è arrivata la fine, perché queste erano sicuramente tra le persone che andavano eliminate. Invece ecco la novità clamorosa, sconvolgente, "...e la gloria del Signore li avvolse di luce". La gloria del Signore è la manifestazione visibile, concreta di ciò che Lui è, ed il Signore è amore(10).

I pastori, immagine dei peccatori per eccellenza, coloro che andavano castigati da Dio, quando Dio li incontra non solo non li castiga, ma li avvolge con il suo amore.

Qui c'è qualcosa che non va: non c'è più religione! Nell'AT ci viene presentato un Dio che castiga e che premia (e purtroppo ancora oggi molti cristiani hanno ancora questa idea in testa). Lo troviamo anche nelle conversazioni quotidiane, quando sentite una persona che è scampata o è sfuggita alla giustizia, sentirete sempre quelle persone che dicono: si, ma non sfuggirà alla giustizia divina: sei scampato agli uomini, ma prima o poi ti arriverà addosso la giustizia divina.

Ecco, Luca smentisce questa immagine: Dio è amore e l'unica maniera che ha Dio di relazionarsi, di comportarsi con gli uomini è quella di una comunicazione incessante di amore. L'uomo lo ama? L'uomo lo odia? Dio non cambia il comportamento: Lui è soltanto comunicazione incessante di amore. Ecco perché, quando si presenta a questi uomini, ai pastori, a questi peccatori, non li avvolge con la sua ira, il castigo di Dio, ma li avvolge con il suo amore.

L'AT insegna che l'uomo deve essere puro per avvicinarsi a Dio; Gesù al contrario insegna: accogli il Signore e diventerai puro(11).

Loro però furono presi da grande spavento, meglio non fidarsi, ci hanno sempre detto che questo qui ci farà fuori. Allora l'angelo deve prendere delle precauzioni.

"«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia»."

Quante persone, ancor oggi, vivono con l'angoscia di un giudizio da parte di Dio! Se queste persone leggessero il Vangelo, vedrebbero che da parte di Dio non c'è nessun giudizio. Dio non giudica, Dio ama e nell'amore non c'è nessun giudizio. Dio non ha mandato il Figlio per giudicare il mondo, dice Giovanni nel suo Vangelo, ma per salvare il mondo. Gesù non è venuto a distruggere ma a vivificare, a dar vita a quello che è morto.

Ma non è finita qui: "E subito apparve con l'angelo una moltitudine dell'esercito celeste, che lodava Dio e diceva: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama»".

Ricordate in passato, l'errata traduzione che era espressione di una certa mentalità religiosa, che deformava anche il contenuto del Vangelo pur di affermare il proprio pensiero: "agli uomini di buona volontà". Solo a chi se lo merita, a quelli di buona volontà! E' l'idea che l'amore di Dio va meritato. Vedete come una mentalità, una ideologia, può travisare persino il significato del testo evangelico, ma nelle vostre Bibbie trovate ormai la traduzione esatta: "sulla terra pace agli uomini, che egli ama"

Attenzione: per una completa comprensione occorre conoscere che il termine pace deriva da una parola ebraica che molti conoscono, shalòm, che significa pienezza di vita. Pace perciò non significa soltanto assenza di conflitti, ma significa tutto quello che concorre alla pienezza di vita dell'uomo: felicità, salute, lavoro, sazietà, amore.

Smentendo una mentalità che vedeva un Dio aguzzino, che godeva nel far soffrire gli uomini, un Dio che puniva mandando disgrazie, Luca ci dice che la pace, cioè la felicità degli uomini, è lo scopo del progetto di Dio.

Note: 1. L'analisi del brano è liberamente tratta dalla conferenza "I vangeli del Natale: storia o teologia?" tenuta da P. Alberto Maggi il 18 dicembre 2009 a Padova. – 2. Come già spiegato domenica scorsa, i primi due capitoli di Matteo e i primi due capitoli di Luca non vanno d'accordo: non è possibile conciliare la nascita di Gesù come è scritta da Matteo e la nascita di Gesù come è descritta da Luca perché sono due realtà differenti. Quella di Matteo è drammatica: Gesù nasce ed Erode decide di ammazzare il bambino e la sua famiglia fugge in Egitto; questo fatto pone la nascita di Gesù prima del 4 a.C., anno della morte di Erode; Matteo inoltre pone la nascita di Gesù a Betlemme senza spiegarne il motivo. Invece secondo Luca Gesù nasce a Betlemme a causa del censimento il che pone il tempo della nascita dopo il 6 d.C., quindi almeno dieci anni dopo, cosa che lo mette al sicuro dalle reazioni di Erode. Inoltre Matteo fa di tutto per escludere ogni responsabilità di Giuseppe nel concepimento (cfr Mt 1,25) mentre Luca non sembra escluderla (anche se la Chiesa l'ha poi esclusa a partire dal VI secolo d.C. nel Concilio di Costantinopoli). In effetti gli Evangelisti non fanno una cronistoria esatta di quello che è successo, come oggi si usa nel giornalismo, ma vogliono trasmettere ai credenti di tutti i tempi la profonda verità di questo messaggio, cioè che in Gesù si realizza la nuova, vera, definitiva creazione. – 3. Questa sottolineatura di Luca lascia intravedere conoscenze di fatti che Luca non riporta e che saranno oggetto di innumerevoli scritti (molti chiaramente leggendari) riportati nei vangeli aposcifi come il Protovangelo di Giacomo. I vangeli apocrifi, anche se non sono considerati ispirati, ci forniscono interessanti notizie storiche che facilitano l'interpretazione dei vangeli canonici. – 4. Studi risalenti agli anni '70 (cfr. per esempio Yigal Shiloh, The Population of Iron Age Palestine in the Light of a Sample Analysis of Urban Plans, Areas, and Population Density, Bulletin of the American Schools of Oriental Research , No. 239, 1980) indicano in circa 25 anni la vita media della donna del I secolo in Israele, conseguenza delle gravidanze (almeno dieci), della fatica e della riduzione drastica delle ore di sonno (Pr 31, 15-18). La vita media dell'uomo nello stesso periodo è stimata in circa 40 anni. A titolo di confronto oggi la vita media in Italia è di 84,3 anni per la donna e 79,1 per l'uomo (fonte ISTAT anno 2010). – 5. Il termine greco katalyma può indicare una stanza, al limite un alloggio, mai una locanda (che in greco si dice pandocheion). Vedere anche la nota riportata nella Bibbia di Gerusalemme, ed. 2009, a pag. 2439 punto 2,7. – 6. Luca mette in evidenza questo fatto quando Gesù, parlando della preghiera, dice: immaginate uno che va a bussare a notte fonda ad una porta e dall'interno un uomo dice no, non posso venire alla porta perché sveglierei i miei bambini, perché sono tutti quanti sulle stuoie e andare alla porta significa disturbare qualcuno (Lc 11,5-8). – 7. Una donna, quando partoriva un bambino, era impura per 7 giorni (se era un maschietto, ma 14 se era femmina) e poi per 33 giorni doveva fare continue abluzioni per purificarsi, al solito 33 giorni se era un maschio, 66 se era una femmina (Lv 12,1-8). Prima del Concilio Vaticano II, queste cose c'erano anche nella nostra tradizione: le mamme, dopo il parto, prima di entrare in chiesa, avevano bisogno di una benedizione. Questo è il crimine orrendo che può compiere una tradizione male intesa: il miracolo della vita considerato impuro. – 8. In questo caso si sta parlando delle persone che gestiscono le greggi e non dei governanti di Israele: l'ebraico antico ha solo 900 vocaboli e, se non si sta attenti, si possono creare confusioni. Anche Luca, pur scrivendo in greco, per chiarezza, specifica quale era il loro lavoro, dato che i lettori erano prevalentemente greci di tradizione semitica. – 9. Ricordo che "l'angelo del Signore" è una espressione con la quale non si intende mai un messaggero inviato da Dio, ma Dio stesso quando entra in contatto con gli uomini. – 10. Cfr. "Deus Caritas est" lettera enciclica di Benedetto XVI del 2006. – 11. Ricordate Gesù che lava i piedi ai discepoli (Gv 13, 1-20): questo è un gesto di enorme importanza perché i piedi degli individui erano la parte più impura del corpo umano, perché allora prevalentemente camminavano scalzi e le strade, i sentieri dell'epoca erano polvere, escrementi, sudore; ebbene Dio non attende che l'uomo si purifichi, ma scende lui in basso per purificarlo e per innalzarlo. Questa è la grande novità e non per niente il Vangelo è stato chiamato la buona notizia.

lunedì 12 dicembre 2011

Domenica 18.12.2011 – Quarta Domenica di Avvento

Lc 1,26-38

Al sesto mese, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».

A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L'angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».

Allora Maria disse all'angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l'angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch'essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l'angelo si allontanò da lei.

 

Mi sembra opportuno premettere all'analisi del brano che il racconto dell'annunzio a Maria(1) ha un chiaro scopo cristologico: esso è un racconto teologico, (quindi lontano dalla realtà dei fatti ma non dal loro profondo significato), che serve a Luca per presentare, fin dall'inizio del vangelo, il ruolo particolare che Gesù riveste nel piano di Dio. Egli è l'uomo che, come i grandi personaggi dell'AT, è stato scelto da Dio fin dalla nascita per un compito straordinario. In più egli ha un rapporto specialissimo con Dio, di cui porta a compimento il progetto di salvezza, destinato a tutta l'umanità. Per questo il racconto dell'annunzio a Maria rivela tutto il suo significato per la vita dei credenti solo se è letto sul piano della fede e dell'esperienza religiosa, che si serve di immagini e di simboli che richiamano realtà trascendenti; una interpretazione miracolistica rischia di travisarne il significato e di farne un ostacolo sul cammino di coloro che vogliono fare un'autentica esperienza di fede.

"Al sesto mese…" il riferimento(2) è al brano che precede (Lc 1,5-25) in cui si narra l'annunzio a Zaccaria della nascita miracolosa di Giovanni; i fatti si svolgono quindi all'inizio del sesto mese di gravidanza di Elisabetta. L'indicazione non ha solo significato temporale, ma sostanziale in quanto nella cultura orientale si riteneva che al sesto mese(3) di gravidanza entrasse nel feto la vita (in greco zoe ed è intesa come vita di relazione) e quindi iniziasse a percepire il mondo esterno; questo permetterà, nel brano successivo, di giustificare il sobbalzo di gioia che avverte Elisabetta al comparire di Maria in casa sua.

"…l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria." Quando nella Scrittura si parla di angelo Gabriele non si indica una persona ben identificata, ma è un modo di annunciare la presenza di Dio in tutta la sua potenza(4); il colloquio di Maria non è quindi con un messaggero, ma con Dio stesso.

Maria(5) è nata a Nazaret, da genitori evidentemente poco soddisfatti di aver generato una femmina. Certo non poteva nascere in un posto peggiore. In quell'epoca Nazaret era un microscopico paese in una regione malfamata: la Galilea. La Galilea era ritenuta esclusa dall'azione di Dio: "Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea", si dice nel vangelo di Giovanni (Gv 7,52), dimenticando però il profeta Giona (2Re 14,25).

La Galilea è lontana dal centro del potere politico e religioso, è regione di frontiera con una popolazione che è una mescolanza di giudei e di pagani, e quindi, secondo la visione ebraica, di impuri, di peccatori, di reietti. Il territorio è arido e brullo; i suoi abitanti sono rozzi e duri. I galilei si distinguono per essere tra i più temerari e feroci affiliati alla setta degli zeloti, i fanatici fautori della lotta armata contro l'invasore romano, e Nazaret è proprio uno dei loro covi(6). I giudei non nascondono il loro disgusto per i rozzi galilei e lo manifestano apertamente con una ricca serie di proverbi, racconti e detti popolari(7).

In questo ambiente non proprio idilliaco, Maria, come tutte le donne ebree del suo tempo, è divenuta maggiorenne a undici anni e, a dodici anni al più tardi, ha l'obbligo di sposarsi(8). Obbligo, non possibilità: nel mondo ebraico e orientale non è concepibile la figura della donna indipendente e la verginità è maledetta da Dio (Gen 1,26); senza un marito od un figlio maggiorenne, la donna ebraica è considerata un essere senza testa (Ef 5, 23).

Il matrimonio non è un'istituzione religiosa e neppure sociale, ma una sorta di contratto privato dove le parti contraenti non sono né la sposa né lo sposo, bensì le rispettive famiglie. Con questo sistema, la ragazza si trova in qualche modo comprata dalla famiglia del marito ed è realmente un oggetto nelle loro mani, una sorta di recipiente per ottenere dei figli(9). Lo sposalizio si tiene in casa della donna; raggiunto l'accordo sul prezzo, lo sposo copre con il proprio mantello la sposa e pronuncia la formula "Tu sei mia moglie" e la sposa deve rispondere "Tu sei mio marito". Con questa semplice cerimonia Maria è divenuta "promessa sposa di Giuseppe"(10). Dopo un anno, quando la maturità sessuale di Maria lo permetterà, avrà luogo la seconda fase del matrimonio, la convivenza.

Maria è qui chiamata parthenos, cioè giovinetta, e pertanto, in generale, una vergine; la traduzione di parthenos con il termine italiano vergine è chiaramente un omaggio alle concezioni teologiche acquisite, ma non costituisce la parte fondante del racconto.

Giuseppe è un costruttore(11) (in greco o tekton – cfr Mc 6,3) di circa 20 anni(12), un artigiano che vive del proprio lavoro, che ha dei dipendenti e quindi, in rapporto alle condizioni economiche di allora, una persona di ceto medio. Secondo alcuni autori dei primi secoli(13), si dice che fosse soprannominato "il Pantera", come suo padre, per il carattere non proprio cordiale; inoltre lui è un giusto(14) dinanzi a Dio.

"Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te»." L'angelo si rivolge a lei con l'usuale saluto greco kaire, che etimologicamente significa: «rallegrati». Inusuale è invece l'elogio che l'angelo le fa chiamandola «piena di grazia» (kekaritomenê, cioè favorita, diletta: cfr.Ef 1,6). Maria è dunque la donna «ricolma del favore di Dio»: questa espressione riguarda non tanto il momento del suo concepimento, ma il momento attuale, in cui Dio le conferisce una missione che fa di lei la sua collaboratrice nella grande opera della redenzione. La sua chiamata e la sua missione sono poste sotto il segno della Provvidenza: «Il Signore è con te», come spesso è detto nei racconti di vocazione dell'AT (cfr: Es 3,12; Gdc 6,12; Ger 1,8.19;15,20; Gen 26,24;28,15). In questo contesto la formula greca di saluto (kaire) sembra alludere anche all'oracolo di Sofonia: «Gioisci, figlia di Sion..; rallegrati,... il re di Israele è il tuo Signore in mezzo a te. Non temere, Sion... il tuo Dio in mezzo a te è un Salvatore potente» (Sof 3,14-17; Zc 9,9).

"A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo." Le parole che le sono rivolte provocano il turbamento di Maria. L'angelo perciò la invita a non temere: "L'angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine»."

Dio quindi vuole stabilire un rapporto speciale con lei per assegnarle un compito specifico nel suo progetto di salvezza. Queste parole alludono all'oracolo di Is 7,14; Maria è dunque la giovanetta di cui parla il profeta e il suo figlio non è un semplice discendente della casa davidica, ma il Messia atteso per gli ultimi tempi. In sintonia con il testo ebraico dell'oracolo e in forza del ruolo di genitrice che le è assegnato, sarà lei che gli darà il nome(15). Si tratta però non di un nome qualsiasi, ma di un nome deciso da Dio, nel quale è indicata la missione futura del bambino (Jhoshua [Gesù] = Jhaweh salva). A differenza di Giovanni il Battista, il quale «sarà grande davanti al Signore», egli sarà grande in senso assoluto, come Davide (cfr. 2Sam 7,11). Inoltre sarà chiamato «figlio dell'Altissimo», come i re davidici che assumevano questo titolo nel momento della loro intronizzazione (cfr. 2Sam 7,14; Sal 2,7;110,3). A lui infatti Dio conferirà il trono di suo padre Davide (cfr. 2Sam 7,12). Ma non si tratterà di un regno limitato nel tempo e nello spazio, bensì di un regno che durerà in eterno. Mentre Giovanni il Battista sarà il profeta degli ultimi tempi e il precursore del Messia, il figlio di Maria sarà il Messia stesso, nel quale troverà il suo compimento definitivo il regno di Davide.

Tra i documenti di Qumran si è scoperto un frammento in cui si trovano parecchie espressioni che corrispondono a quelle del brano in esame: «[Egli] sarà grande sulla terra; Tutti far[anno pace] e [lo] serviranno. [Sarà chiamato figlio d]el [Dio G]rande, e sarà chiamato con il suo nome. Sarà salutato come Figlio di Dio e lo chiameranno figlio dell'Altissimo..., e il suo regno sarà un regno eterno» (4Q 246). Il frammento è troppo guasto per permettere una precisa identificazione del personaggio di cui si parla, ma è sufficiente per dimostrare che Luca, per indicare l'identità di Gesù, ha ripreso espressioni note nel suo ambiente. Nel contesto giudaico del I secolo le parole «figlio», «figlio di Dio» o «figlio dell'Altissimo», non avevano il significato di un legame di sangue, cioè di una discendenza diretta, ma quello di un rapporto unico e speciale che legava il re, e quindi a maggior ragione il futuro Messia, al Dio dell'Alleanza (cfr. J.C. Vanderkam, Manoscritti del Mar Morto, Città Nuova, Roma 1995,195-196).

"Allora Maria disse all'angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Una difficoltà si oppone all'attuazione del disegno di Dio e Maria chiede una spiegazione. Sul piano letterario la domanda corrisponde in parte a quella di Zaccaria (cfr. Lc 1,18: «Come posso conoscere questo?»). Ma mentre questi chiedeva ulteriori garanzie, Maria chiede spiegazioni sulle modalità in cui si realizzerà l'annunzio messianico, dal momento che «non conosce uomo». Questa domanda lascia perplessi: Maria era giovanissima, quindi vergine, ma presto si sarebbe unita a Giuseppe, suo sposo, figlio di Davide, dal quale poteva immaginare di avere il figlio preannunziato dall'angelo. Quale era dunque la sua difficoltà? Diverse soluzioni sono state avanzate per chiarire questo enigma. Le più significative sono le seguenti:

 

a) interpretazione tradizionale, risalente ad Agostino: Maria avrebbe fatto voto di verginità, e ora le parole dell'angelo mettevano in discussione la sua scelta. Ma, a parte il fatto che nulla nel contesto lascia intravedere una situazione del genere, è evidente che Agostino non sapeva nulla delle usanze dell'epoca e del resto il Talmud era allora considerato opera del demonio e quindi non solo non era letto, ma, se trovato, veniva bruciato. L'ignoranza di Agostino non gli consentiva di sapere che ciò non era possibile, sia nell'ambiente culturale dell'epoca(16), sia nella condizione di Maria, ormai fidanzata e prossima a iniziare la sua vita matrimoniale con Giuseppe. Per rispondere a questa obiezione, si è in passato supposto che Giuseppe fosse ormai vecchio e fosse stato scelto come sposo di Maria solo per custodirne la verginità; ma anche questa supposizione non ha nessun fondamento nel testo ed andrebbe comunque contro la cultura e le tradizioni religiose dell'epoca(17).

 

b) interpretazione legata all'immediatezza dell'azione: l'angelo annunzia un evento che si realizza non nel futuro bensì nel presente: proprio ora Maria sta per concepire un figlio. Anche questa interpretazione è priva di fondamento perchè le parole dell'angelo riguardano un evento futuro («concepirai... darai alla luce... chiamerai...»). Inoltre in tutti i racconti di nascite miracolose presenti nell'AT è chiaro che il concepimento annunziato avviene in un secondo tempo, in seguito a un regolare rapporto della donna con il legittimo marito.

 

c) interpretazione a seguito di critica letteraria: la domanda di Maria non esprime una sua reale difficoltà, ma è un espediente letterario per fornire una serie di notizie ai lettori; nel qual caso ogni suo elemento deve essere interpretato tenendo conto del risultato teologico che il narratore vuole conseguire.

 

Questa terza interpretazione è la più convincente. Ed in effetti in risposta alla domanda di Maria l'angelo dà i chiarimenti di cui i lettori, secondo il narratore, avevano bisogno: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio». Dopo aver indicato nel nascituro il Figlio dell'Altissimo, egli spiega che questo appellativo è dovuto al fatto che lo Spirito santo interverrà in modo speciale nel momento stesso del suo concepimento. Le espressioni usate qui ricordano una delle prime confessioni di fede citate da Paolo: «Costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo spirito di santificazione» (Rm 1,4). Lo Spirito Santo che scenderà su Maria richiama lo Spirito creatore (cfr. Gen 1,2; Sal 140,30). Esso corrisponde alla «forza» di Dio che la «coprirà con la sua ombra»: questo verbo si ritrova nella Scrittura con il significato di «proteggere» (cfr. Sal 140 [LXX 139],8): infatti in Es 40,35 viene detto che la nube divina «copre con la sua ombra» la tenda del convegno al fine di proteggerla.

"…Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch'essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio". Al termine del suo annunzio l'angelo rivela a Maria la gravidanza di Elisabetta, sua parente. Questo evento diventa il segno visibile che conferma l'autenticità della rivelazione dell'angelo. Esso infatti mostra nel modo più convincente che «nulla è impossibile a Dio» (cfr. Gen 18,14). Con l'accenno a questo segno s'intrecciano nuovamente i due racconti di annunciazione, quello di Elisabetta e quello di Maria; d'altro canto la parola dell'angelo prepara direttamente il racconto seguente della visita di Maria a Elisabetta.

"Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l'angelo si allontanò da lei." Alle parole dell'angelo Maria risponde riprendendo le parole di due eroine dell'AT, Rut (Rt 3,9) e Abigail (1Sam 25,41): «Ecco la schiava del Signore». Questa espressione si situa nel contesto matrimoniale della «schiava-sposa» tipico della cultura ebraica; con essa Maria si rende disponibile al progetto di Dio e ne diventa partecipe fino in fondo. Ella apre così la via all'intervento dello Spirito santo e rende possibile la nascita del Figlio di Dio. Nel seguito del vangelo di Luca Gesù stesso metterà il suo rapporto con Maria sullo stesso piano di quello che ha con i suoi discepoli (cfr. Lc 8,19-21; 11,27-28).

 

Note: 1. I primi due capitoli di Matteo e i primi due capitoli di Luca non vanno d'accordo: non è possibile conciliare la nascita di Gesù come è scritta da Matteo e la nascita di Gesù come è descritta da Luca perché sono due realtà differenti. Quella di Matteo è drammatica: Gesù nasce ed Erode decide di ammazzare il bambino e la sua famiglia fugge in Egitto; questo fatto pone la nascita di Gesù prima del 4 a.C., anno della morte di Erode; Matteo inoltre pone la nascita di Gesù a Betlemme senza spiegarne il motivo. Invece secondo Luca Gesù nasce a Betlemme a causa del censimento il che pone il tempo della nascita dopo il 6 d.C., quindi almeno dieci anni dopo, cosa che lo mette al sicuro dalle reazioni di Erode. Inoltre Matteo fa di tutto per escludere ogni responsabilità di Giuseppe nel concepimento (cfr Mt 1,25) mentre Luca non sembra escluderla (anche se la Chiesa l'ha poi esclusa a partire dal VI secolo d.C. nel Concilio di Costantinopoli). In effetti gli Evangelisti non fanno una cronistoria esatta di quello che è successo, come oggi si usa nel giornalismo, ma vogliono trasmettere ai credenti di tutti i tempi la profonda verità di questo messaggio, cioè che in Gesù si realizza la nuova, vera, definitiva creazione. – 2. L'esegesi che segue è stata liberamente tratta da un articolo di P. Alessandro Sacchi pubblicato in Nicodemo.net. – 3. Nel V secolo Agostino restrinse questo tempo a 46 giorni (cfr. Sul matrimonio e la concupiscenza). Un'altra interpretazione è basata sul fatto che il numero 6, nella simbolica ebraica, è il numero che ricorda la creazione dell'uomo. – 4. Il nome Gabriele in ebraico significa "potenza di Dio". – 5. In ebraico Miryam o Mariam, nome dell'intrigante e pettegola sorella di Mosè, punita da Dio per la sua insaziabile ambizione (Es 15,20); passata alla storia come "lingua malvagia" (Num 12, 1-10), il suo nome non comparirà più nella Bibbia, prima di essere ripreso nei vangeli, in quanto considerato evocatore di maledizione da parte di Dio. Il fatto che avessero scelto questo nome fa immaginare che i genitori di Maria non fossero particolarmente contenti per aver generato una femmina. – 6. Raffrontata ai giorni nostri, non è del tutto sbagliato fare un paragone con Al Qā'ida, data l'efferatezza delle azioni terroristiche di questa setta. Del resto Roma era l'America di 2000 anni fa. – 7. Talmud, 'Erubim B. 53a, 53b. – 8. Talmud, Nidda M. 6,11. – 9. Questo modo di concepire il matrimonio si è trasmesso sin quasi ai nostri giorni. Soltanto nel 1215 (Concilio Lateranense IV) il matrimonio inizia ad essere considerato un sacramento al fine di impedire una serie di abusi (lo diventerà solennemente e con propria liturgia, nel 1555 nel Concilio di Trento), ma la potestà delle famiglie è rimasta fino ai primi decenni del XX secolo. Soltanto con il Concilio Vaticano II si è finalmente elevata la dignità del matrimonio cristiano dandogli una finalità che va al di là della semplice procreazione (Gaudium et Spes, n. 48 e 49). – 10. È errato chiamare questa cerimonia "fidanzamento" perché non ha i caratteri della provvisorietà del fidanzamento occidentale; esso infatti è indissolubile da parte della donna e può essere rotto dall'uomo solo con un atto di ripudio, esattamente nello stesso modo con cui l'uomo può sciogliere la successiva convivenza. – 11. L'idea di Giuseppe povero, proletario, si deve forse ad un inciso di Giustino (II secolo) che era di Neapolis (Nablus): nel "Dialogo a Trifone" (n. 88) pensava che Giuseppe fosse stato, più di un secolo prima, un povero falegname, costruttore di povere cose (sedie, aratri di legno, ecc.), come i tekton dei paesi poveri che aveva conosciuto dopo due tremende rivoluzioni (66-70; 131-134 d.C.), ma questa non era la situazione del tempo di Gesù dove il benessere era diffuso perché abbondava il lavoro. – 12. "Fino a vent'anni il Santo, che benedetto sia, vigila a che l'uomo si sposi, e lo maledice se manca di farlo entro quell'età" –Talmud, Qid. B , 29b. Nelle parole dei vangeli si intuiscono le grandi difficoltà che ha incontrato Gesù per la sua scelta celibataria. – 13. Epifanio; Andrea vescovo di Creta; Eusebio; alcuni midrash giudaici riportano la stessa notizia. Per Giovanni Damasceno (VII secolo), Joseph ben Panther sarebbe invece il nonno di Maria. – 14. Mt 1,19. Il termine giusto indica colui che tiene un atteggiamento conforme alla religione e ne osserva tutti i doveri (cfr Fil 3, 6). – 15. In aperto e totale contrasto con la tradizione ebraica che affidava questo compito esclusivamente al padre. – 16. Come già citato, la verginità sia femminile che maschile, nella cultura ebraica non era un valore, ma era considerata un grave peccato di disubbidienza a Dio (cfr. Gen 1,26) . – 17. La verginità era considerata un elemento fortemente negativo e quindi non poteva essere oggetto di voto, ammesso e non concesso che nella tradizione ebraica esistesse una tale forma devozionale che, per quanto è noto allo scrivente, è di origine occidentale ed è nata nel medio evo

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lunedì 5 dicembre 2011

Domenica 11 dicembre 2011 – Terza Domenica di Avvento

Gv 1,6-8.19-28

Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia». Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell'acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

Il brano in esame è tratto dallo stupendo inno con il quale inizia il vangelo di Giovanni a cui è stato aggiunto un altro brano che consente di identificare la figura di Giovanni il Battista. "Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni". Caliamoci nell'ambiente culturale dell'epoca: appare un inviato da Dio. Un inviato da Dio deve essere senz'altro un personaggio importante, un sacerdote, un santo: e invece niente di tutto questo! La parola di Dio è stata inviata a un uomo, un semplice uomo di nome Giovanni (Giovanni in ebraico significa "misericordia di Dio") e "Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui". Questo è il compito di Giovanni; non è quello di essere la luce, ma di risvegliare in tutti il desiderio di pienezza di vita. L'invito al risveglio è rivolto a tutti, perché la tenebra - che rappresenta i poteri che impediscono all'uomo la libertà - ha coperto tutta l'umanità(1). Ma, sottolinea l'evangelista (lo farà tante volte), "Non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce". Giovanni, al suo apparire, venne accolto come il Messia, ed ancora due secoli dopo la morte di Gesù esistevano discepoli di Giovanni che credevano che fosse lui il Messia e non Gesù. Questo era successo perché Gesù appariva una persona comune, vestiva come una persona comune, mangiava, beveva, si comportava normalmente; non aveva nessuno di quegli aspetti che contraddistinguevano, secondo la loro mentalità, un uomo di Dio. Secondo il pensiero di allora, (ma anche secondo il pensiero odierno di molti componenti della Chiesa), un uomo di Dio si doveva riconoscere dalla sua vita ascetica; Gesù vita ascetica non ne ha mai fatta, anzi andava pure a pranzo nei giorni di digiuno. Gesù rivoluziona il concetto di "uomo di Dio". Lui, che era l'uomo di Dio per eccellenza, lo manifesta non attraverso atteggiamenti esteriori di ascetismo o di spiritualismo(2), ma trasmettendo una qualità d'amore che assomiglia a quella di Dio. Ed ecco la seconda parte: senza che alcuna cosa lo lasci prevedere, arriva una delegazione di sacerdoti e leviti inviati dai farisei(3); la presenza di Giovanni con le sue invettive è disturbante per il quieto vivere degli uomini di potere che temono un risveglio del popolo. Il dialogo tra gli inviati e il Battista avviene in tre momenti. Anzitutto essi gli chiedono in modo diretto: «Tu chi sei?». L'evangelista sottolinea con questa rudezza l'arroganza del potere. Il Battista risponde esplicitando quello che, contrariamente alle attese dei suoi connazionali, egli aveva coscienza di non essere: anzitutto nega di essere il Messia, cioè il re davidico molto atteso in quei tempi; poi rifiuta l'altra ipotesi secondo la quale egli sarebbe Elia o il profeta che avrebbe dovuto precedere il Messia. Questa dichiarazione posta dall'evangelista sulla bocca del Battista potrebbe sorprendere, poichè nella tradizione sinottica Giovanni è presentato come il profeta precursore del Messia (cfr. Mc 1,1-8; Lc 7,26-28; Mt 11,9-11); evidentemente l'evangelista vuole inserirsi, segnando un punto a suo favore, nella polemica con i discepoli del Battista, che consideravano lui, e non Gesù, come l'annunciatore della salvezza di Dio. Ma l'interrogatorio non finisce qui: il Sinedrio non si accontenterà di queste semplici ed evasive affermazioni. I Giudei(4) gli ripropongono la domanda chiedendo una risposta esauriente. Egli risponde loro semplicemente applicando a sé il detto di Is 40,3 (cfr. anche Mc 1,3 e ss): "Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete dritta la via del Signore". Secondo l'evangelista, il Battista riconosce a se stesso la funzione dell'araldo, analoga a quella degli ignoti messaggeri che nel Deuteroisaia(5) dovevano annunziare a Gerusalemme la fine dell'esilio e il ritorno degli esuli. Egli nega qualsiasi importanza alla sua persona: ciò che conta è esclusivamente la sua missione. In questa risposta risuona la fede della comunità dell'evangelista che riconosce in Gesù l'unico mediatore della salvezza. Gli inviati di Gerusalemme non sono soddisfatti e pongono un'ultima domanda che riguarda l'autorità con cui il Battista battezza. Da queste parole sembra scontato che amministrare il battesimo sia un gesto di grande autorità, nonostante che non si hanno indizi che esso fosse tale per i giudei; è probabile che lo fosse invece per l'evangelista, secondo il quale il battezzare era una prerogativa del Messia. Giovanni risponde affermando che la sua autorità deriva da un altro che si trova ormai in mezzo a loro, sebbene essi non lo conoscano. Egli lo presenta come uno che viene «dopo» di lui: questa espressione lascerebbe intendere che Gesù sia stato per qualche tempo discepolo di Giovanni: e di fatti in seguito apparirà che Gesù ha svolto per un certo tempo un'attività parallela a quella del Battista, forse all'interno del movimento da lui iniziato (cfr. Gv 3,22-30). Nonostante venga dopo di lui, colui che Giovanni annunzia è più importante di lui: per indicare ciò egli usa la stessa metafora a lui attribuita dai sinottici (cfr. Mc 1,7-8 e Lc 3,16, mentre in Mt 3,11 parla di «portare» i sandali) che si rifà alla legge del Levirato(7). Il brano termina con una indicazione geografica, che situa gli avvenimenti narrati in una località sconosciuta(8), al di là del Giordano, che porta lo stesso nome del noto villaggio di Betania, dove risiedevano Lazzaro, Marta e Maria (Gv 11,1; cfr. Lc 10,38-42).

Note: 1. Se esaminiamo, anche superficialmente, un libro di storia possiamo renderci conto che in ogni periodo buio è sorto qualcuno che ha invitato al risveglio i popoli. Solo poche volte queste persone sono state ascoltate, alcune sono state barbaramente uccise, altre semplicemente ignorate e le loro tracce si leggono ancora grazie all'opera di storici attenti ed equidistanti da ideologismi opposti. Due esmpi per tutti: S. Francesco e il vescovo Romero (il cui abbandono è stata la più grande colpa di Giovanni Paolo II). – 2. E' cosa estremamente rara che atteggiamenti di questo tipo indichino una reale vicinanza a Dio. – 3. Persone cioè che appartengono al gruppo dirigente della città santa e quindi sono considerate dal Sinedrio totalmente affidabili. Non è facile, però, capire come mai i farisei mandassero una delegazione di sacerdoti e leviti, con i quali non correva certo buon sangue. Sapendo però che gli scribi di estrazione farisaica sedevano nel Sinedrio con i sacerdoti e gli anziani, è ipotizzabile una collaborazione eccezionale contro un pericolo comune. – 4. Nel vangelo di Giovanni vengono chiamati Giudei non gli abitanti del regno di Giuda, ma coloro che detengono il potere in Giuda: sacerdoti, scribi, farisei e componenti del Sinedrio. – 5. Cioè il secondo dei tre profeti che hanno composto il libro detto di Isaia tra l'VIII ed il V secolo a.C. – 6. La parola greca opisô significa sia dopo che sequela. – 7. Il levirato è un'antica usanza praticata dagli ebrei, dagli arabi e dagli antichi indiani secondo la quale, se un uomo sposato moriva senza figli, suo fratello o il suo parente più prossimo doveva sposarne la vedova, e il loro figlio primogenito sarebbe stato considerato legalmente figlio del defunto (Dt 25,5-10). Il vocabolo levirato deriva dalla parola latina levir, che significa cognato. La motivazione addotta per questa legge era quella di assicurare al defunto una discendenza, cosa che era ed è tuttora ritenuta di grande importanza tra i popoli semitici; ma la motivazione più profonda, benché non esplicita e non del tutto comprensibile, è di tipo sociale e patrimoniale: evitare l'alienazione delle terre, in accordo con analoghe preoccupazioni espresse nel Lv 25 e in Nm 36,2-9. La norma del levirato aveva anche un'altra importante funzione sociale, quella di garantire un marito alla vedova, in una società in cui le donne non potevano lavorare e quindi avevano bisogno di un uomo che provvedesse al loro sostentamento. Se il fratello non provvedeva (cosa possibile se la prima moglie protestava rendendogli un inferno la vita) un altro fratello si avvicinava, gli slacciava i sandali, ci sputava dentro e glieli rimetteva. Con questo voleva significare: se tu non vuoi dare una discendenza a nostro fratello, ci penso io. Tu non ne sei degno. Nel caso in questione Giovanni in sostanza sta dicendo: "Sarà Gesù a fecondare Israele, non toccherà a me perchè lui non si tirerà indietro". – 8. Alcuni studiosi ipotizzano questa località posizionandola nei pressi di Makhadat-al-hagia nell'attuale Giordania, ma è assai più probabile che la concordanza dei nomi non sia una indicazione geografica, ma teologica; l'evangelista avrebbe così voluto indicare il legame tra il battesimo con il quale si inizia la vita nella comunità cristiana e la morte e risurrezione (significata dall'episodio simbolo di Lazzaro) a coronamento della vita dell'uomo.

lunedì 28 novembre 2011

Domenica 4 dicembre 2011 – Seconda Domenica di Avvento

Mc 1,1-8

Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.

Come sta scritto nel profeta Isaia:

Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri,

vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

Premetto subito che il vangelo di Marco, nonostante sia il più corto dei vangeli e, apparentemente, il meno impegnato teologicamente, è in realtà il più complesso da spiegare in quanto è estremamente "denso": spesso una parola racchiude due o più significati, fa riferimento a più situazioni e sottintende collegamenti ad altre parti del vangelo o a brani dell'AT. Talvolta nelle sue frasi parlano anche i vuoti, le assenze di fatti che ci saremmo aspettati e che invece Marco non ha riportato. Ne è un chiaro esempio il brano in esame che inizia a parlare di Gesù senza accennare alla sua nascita, come invece fanno Matteo e Luca. E' una chiara dimostrazione del fatto che il vangelo di Marco è stato scritto, almeno come prima stesura (il così detto protovangelo di Marco), a ridosso della morte di Gesù e non era trascorso abbastanza tempo perché la tradizione della sua nascita si formasse e si consolidasse; analogo ragionamento si può fare sulle apparizioni del Risorto che in Marco non sono riportate(1).

Verrebbe da dire, e forse si è nel giusto, che alla comunità a cui si rivolgeva Marco non inressava come Gesù era nato, ma ciò che aveva detto e fatto.

Il brano in esame(2) è la prima parte della breve sezione con cui Marco apre il vangelo (Mc 1,1-13). In questi primi versetti Marco intende trasmettere alcune informazioni circa l'identità di Gesù e alcuni fatti che hanno caratterizzato l'inizio del suo ministero: ciò è tanto più necessario in quanto nel seguito egli narrerà soprattutto le sue opere, mentre la sua personalità sarà coperta dal velo del "segreto messianico" fino al momento della passione.

"Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio". Quante cose dette in un'unica breve frase! E', prima di tutto il titolo di tutta l'opera; il termine «inizio» (in greco archê) è lo stesso con cui si aprono la traduzione greca(3) della Bibbia (Gen 1,1) e il vangelo di Giovanni (Gv 1,1): esso è stato forse scelto di proposito per presentare l'annunzio evangelico come una nuova creazione.

Il termine "vangelo" (dal greco euanghelion) è usato raramente nel greco classico, dove indica la lieta notizia della nascita o dell'intronizzazione di un nuovo imperatore. Qui invece è ricavato dal verbo "evangelizzare", di cui i traduttori greci si sono serviti per indicare il lieto annunzio della liberazione fatto ai giudei esuli in Babilonia (cfr. Is 40,9; 52,7) e ai rimpatriati che si erano ristabiliti a Gerusalemme (cfr. Is 61,1). I primi cristiani hanno adottato questo termine per designare la proclamazione pubblica della salvezza portata da Gesù (cfr. 1Ts 2,9; Gal 2,2; Rm 2,1.16). Marco lo usa con lo stesso senso qui e in altri sei passi della sua opera (Mc 1,14.15; 8,35; 10,29; 13,10; 14,9). Si può dunque supporre che non si indichi con esso direttamente il libro che sta iniziando, ma piuttosto l'annunzio della salvezza, di cui si vuole dare il resoconto scritto.

L'espressione "vangelo di Gesù" non significa tanto che la buona novella ha Gesù come oggetto, ma piuttosto che essa, come apparirà da tutto il seguito dell'opera, è stata proclamata da lui.

A Gesù l'evangelista attribuisce l'appellativo di «Cristo» (Messia, Unto) senza una particolare enfasi, quasi fosse il suo nome proprio: ciò significa che da tempo la sua comunità era abituata a chiamarlo con questo nome. Esso riapparirà altre sei volte (in Mc 1,34 è incerto), di cui due sono particolarmente significative: quella in cui Pietro attribuisce questo titolo a Gesù, ma è messo da lui a tacere (Mc 8,29), e quella in cui il sommo sacerdote chiede a Gesù se è il Cristo, il figlio del Benedetto, ricevendone invece una risposta affermativa (Mc 14,61).

Gesù è presentato non solo come Cristo, ma anche come "Figlio di Dio(4)": non tutti i manoscritti del testo però riportano questo titolo, con il quale egli era comunemente designato dai primi cristiani (cfr. Rm 1,3-4). In Marco Gesù è proclamato "Figlio di Dio" tre volte, due dal Padre, rispettivamente nel battesimo (cfr. Mc 1,11) e nella trasfigurazione (cfr. Mc 9,7), e la terza, dopo la sua morte, da un centurione romano (Mc 15,39). Altre due volte questo titolo gli è attribuito dai demòni, i quali però sono da lui messi a tacere (Mc 3,11; 5,7), e una dal sommo sacerdote (Mc14,61). Secondo Marco quindi Gesù non si è arrogato questi due titoli, ma ha accettato che gli fossero attribuiti nel contesto della passione: ciò corrisponde al progetto letterario di Marco, per il quale la piena rivelazione di Gesù ha avuto luogo solo nella passione.

Marco entra subito nel vivo del racconto presentando, come avveniva nel kerygma(5) primitivo (cfr. At 10,37), la predicazione di Giovanni il Battista. Egli introduce la sua figura in un modo piuttosto brusco e maldestro mediante una citazione biblica non esatta: Come sta scritto nel profeta Isaia:

Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri,

In realtà l'evangelista ha accostato due brani diversi: nel primo, ricavato dal profeta Malachia, Jhaweh stesso annunzia che sta per venire nel suo tempio per purificarlo e manda davanti a sé un messaggero(6) che gli prepari la via (Ml 3,1); Marco riprende questo brano sostituendo, alla luce di un altro testo biblico (Es 23,20), l'espressione «davanti a me» con «davanti a te»: dal contesto risulta che il pronome di seconda persona si riferisce non più a Dio, ma a Gesù, di cui Giovanni il Battista, qui non ancora nominato, è stato inviato a preparare la venuta.

Il secondo è ricavato dall'inizio del Secondo Isaia (Deuteroisaia) (Is 40,3), dove si dice che un anonimo messaggero (una «voce») annunzia agli abitanti di Gerusalemme la venuta di Jhaweh alla testa degli esuli che ritornano da Babilonia, e li invita a preparargli la strada nel deserto. Anche questo testo è riletto da Marco in funzione della situazione che sta descrivendo: il deserto non è più il luogo in cui la via deve essere preparata, ma quello in cui si fa sentire la «voce», che dal contesto si comprende è quella di Giovanni; egli dice al popolo, come l'anonimo messaggero di Isaia, di preparare la via del Signore; ma subito dopo questo Signore non è più identificato con «il nostro Dio», come nel testo di Isaia, ma è designato con il pronome possessivo: "i suoi sentieri". In questo modo ancora una volta l'evangelista dimostra di avere in mente Gesù, di cui Giovanni annunzia la venuta. Sullo sfondo delle attese messianiche, evocate in modo sintetico mediante queste due citazioni della Scrittura, l'evangelista delinea ora l'attività di Giovanni:

"…vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati".

Prima di tutto chi era Giovanni? Secondo Luca era figlio del sacerdote Zaccaria e di Elisabetta (Lc 1,24), quest'ultima probabilmente della stessa tribù di Maria, la madre di Gesù(7). La storia della nascita di Giovanni come dono di Dio è riportata in Lc 1,5-25.

Giovanni era un nazireo(8), cioè un uomo che trascorreva una piccola parte della sua vita consacrato a Dio secondo quanto previsto in Nm 6,1-21; aveva scelto un particolare modo di predicare attraverso il battesimo(9); del resto in quel periodo in Israele vi erano diversi movimenti battisti che invitavano a cambiare la propria vita in attesa del Messia(10).

Rispetto agli altri movimenti battisti, l'invito di Giovanni assume una forma nuova; egli invita a "convertirsi". In greco, ci sono due maniere per esprimere il concetto di conversione: uno, che ha un significato teologico, è il ritorno a Dio, ma tutti gli evangelisti evitano accuratamente questo termine; l'altro è "metanoia", significa un cambio di mentalità che incide nel comportamento della persona. La parola significa letteralmente "cambiamento di sentimenti", e potremmo tradurlo in cambiamento di vita.

"Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati".

Da Giovanni si recavano gli abitanti della Giudea e di Gerusalemme. Non viene ricordata la presenza di pellegrini provenienti dalla Galilea, dalla quale fra poco Gesù giungerà a farsi battezzare, o da altri territori: l'annunzio di Giovanni è dunque confinato, diversamente da quello di Gesù, al popolo dell'alleanza.

I battezzandi confessavano non solo i peccati che tutto il popolo aveva commesso nel corso della sua storia (cfr. Esd 9,6-15; Dn 9,4-19; 1Qs I,22-II,111) come normalmente accadeva negli altri movimenti battisti, ma anche i loro peccati personali.

"Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico". Giovanni è presentato come il redivivo Elia, come lui veste di peli di cammello con una cintura di pelle ai fianchi(12). Inoltre è presentato come un uomo puro, di quella purità rituale descritta nei libri del Deuteronomio e del Levitico che nulla ha a che vedere con il nostro concetto di purezza.

L'evangelista, per sottolineare questa purezza, specifica il cibo che usava Giovanni, locuste e miele selvatico, cibi sicuramente consentiti(13), oltre ogni ombra di dubbio, dalla legge ebraica(14); per questo Giovanni può battezzare, cioè purificare gli altri.

Marco passa ora a dare una sintesi della predicazione di Giovanni, mettendo l'accento esclusivamente sull'annunzio di un personaggio che deve venire:

"«Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali". Giovanni parla di uno che viene «dopo» (in greco opisô) di lui: ciò significa che questi apparirà dopo che egli aveva già iniziato la sua predicazione; ma siccome questa preposizione indica anche la sequela, non è escluso che in questa espressione si nasconda il ricordo di un periodo in cui il personaggio annunziato è stato suo discepolo (cfr. Gv 3,22). Pur essendo venuto dopo, egli è «più forte» di lui, perché dotato di un ruolo più importante e decisivo del suo.

Giovanni aveva una visione strettamente legata all' A.T., lo si vede anche da una frase che, nell'ultima traduzione del 2008 ha perso molto del suo significato originale: "io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali". Questa traduzione è frutto di una strana reticenza di tipo "moralistico" nel senso negativo del termine. Il testo originale greco si riferisce alla legge del levirato(15) per la quale il cognato doveva prendere con se (come prima moglie, oppure come seconda moglie, più spesso come concubina) la vedova del fratello per dare una discendenza al fratello morto. Se il fratello non provvedeva (cosa possibile se la prima moglie protestava rendendogli un inferno la vita) un altro fratello si avvicinava, gli slacciava i sandali, ci sputava dentro e glieli rimetteva. Con questo voleva significare: se tu non vuoi dare una discendenza a nostro fratello, ci penso io. Tu non ne sei degno.

Nel caso in questione Giovanni in sostanza sta dicendo: "Sarà Gesù a fecondare(16) Israele, non toccherà a me perchè lui non si tirerà indietro".

E' priva di significato l'interpretazione, in uso fino a una quarantina di anni fa, secondo cui la frase metterebbe in risalto l'umiltà di Giovanni e la sua volontà di mortificarsi; essa contrasta apertamente con il suo carattere così come lo si ricava dai vangeli, carattere profondamente duro e battagliero, al limite della presunzione, sullo stile dei profeti dell'AT.

L'opera del Battista ha valore unicamente in quanto annunziava la venuta di Gesù: la possibilità stessa che egli abbia predicato anche su altri argomenti (cfr. Mt 3,7-10; Lc 3,7-14) viene ignorata da Marco.

"…Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

Sia Giovanni che Gesù sono chiamati a battezzare, ma mentre il primo battezza con l'acqua, il secondo battezzerà con lo Spirito. In questa espressione appare chiaramente la fede cristiana della comunità di Marco, che considera il battesimo del precursore come una pratica che appartiene ormai al passato, mentre ora è in uso il battesimo amministrato nello Spirito (cfr. 1Cor 12,13; At 19,1-6).

Sulla bocca di Giovanni la distinzione tra i due battesimi è piuttosto strana, poiché in Ez 36,25-27 l'acqua e lo Spirito sono due simboli paralleli con i quali si descrive il rinnovamento finale del popolo di Dio. Secondo un'altra tradizione cristiana il battesimo nello Spirito è stato annunziato non da Giovanni, ma da Gesù, e ha avuto luogo nel giorno di Pentecoste (At 1,5; cfr. 2,1-13).

Note: 1. I versetti di Mc 16,9 e seguenti riportati nel testo CEI non sono di Marco, ma sono stati aggiunti in seguito (presumibilmente nel II secolo) da un autore che ha cercato così di riempire quello che sembrava un vuoto. In realtà l'assenza della descrizione delle apparizioni del Risorto testimoniano l'antichità del testo in quanto negli anni 40 – 50 ancora non si era formata e sedimentata la tradizione relativa alle apparizioni stesse. – 2. Parte di questa spiegazione è stata liberamente tratta da un articolo di P. Alessandro Sacchi pubblicato su Nicodemo.net. – 3. La traduzione dall'ebraico in greco della Bibbia detta "dei Settanta" (circa II sec a.C.) era l'unica che gli evangelisti sapessero leggere perché conoscevano il greco (che svolgeva la stessa funzione che ha l'inglese oggi, cioè una lingua universale che conoscono tutti) ma non conscevano più l'ebraico, lingua che era rimasta solo nella liturgia (come il latino in Italia fino al 1973). Gesù, i discepoli e gli evangelisti (escluso Luca) parlavano normalmente in aramaico, una lingua semitica vicina all'ebraico usata nell'impero persiano come lingua amministrativa comune. – 4. A mio avviso è importante imparare a distinguere il corretto significato di questo termine: nella cultura ebraica il termine "Figlio di Dio" indicava generalmente il re di Israele che beneficiava di una particolare assistenza divina per adempiere ai suoi compiti. Il senso che oggi noi gli diamo, cioè di figliolanza divina diretta, è un significato che è iniziato ad essere compreso, con grande difficoltà e spesso con diverse interpretazioni, nelle comunità cristiane primitive dopo la risurrezione. La definizione attuale risale al Concilio di Nicea del 325 d.C. – 5. Si intende con questa parola la "proclamazione" della buona novella da parte dei primi cristiani. – 6. Questo messaggero, al versetto 23, sarà identificato con il profeta Elia. – 7. In nessun vangelo si dichiara Elisabetta cugina di Maria, solo in Lc 1,36 si parla di "parente" che, in ambiente semitico, va inteso in senso esteso ai componenti di una tribù che viene chiamata "famiglia"; la definizione di "cugina" è stata frutto della pietà popolare del medioevo. – 8. Vedi Lc 1,15 – 9. Il rito di immersione, simbolo di purificazione rituale e di rinnovamento era conosciuto dalle religioni antiche e dal giudaismo post-esilico e veniva applicato ai proseliti (non ebrei che volevano seguire la religione ebraica) e ai componenti del movimento monastico di Qumran. Con Giovanni il battesimo perde il suo significato rituale ed assume quello morale di purificazione dai peccati. – 10. A cavallo tra il I sec. a.C. ed il I sec. d.C., l'attesa del Messia da parte di Israele diviene spasmodica. Secondo gli scribi del I secolo il Messia tardava a venire e a manifestarsi a causa della presenza in terra di Israele di grandi peccatori quali i pubblicani (esattori delle imposte in favore dei romani) e le prostitute. I movimenti battisti miravano ed eliminare questo impedimento. Giovanni estenderà la categoria dei peccatori anche ai farisei e ai sadducei provocando scandalo. – 11. Quest'ultima sigla non è relativa ad un libro della Bibbia, ma al catalogo dei rotoli di Qumran. – 12. Vedere 2Re 1,8 e seguenti. – 13. Vedere Lv 11, 22. – 14. Da notare che le locuste erano consentite, ma, ad esmpio, la lepre no. Il fatto che Marco indichi nelle locuste il cibo normalmente usato da Giovanni è una forzatura letteraria che gli consente di rimarcare la stretta osservanza della Legge da parte del personaggio. – 15. Il levirato è un'antica usanza praticata dagli ebrei, dagli arabi e dagli antichi indiani secondo la quale, se un uomo sposato moriva senza figli, suo fratello o il suo parente più prossimo doveva sposare la vedova, e il loro figlio primogenito sarebbe stato considerato legalmente figlio del defunto (Dt 25,5-10). Il vocabolo levirato deriva dalla parola latina levir, che significa cognato. La motivazione addotta per questa legge era quella di assicurare al defunto una discendenza, cosa che era ed è tuttora ritenuta di grande importanza tra i popoli semitici; ma la motivazione più profonda, benché non esplicita e non del tutto comprensibile, è di tipo sociale e patrimoniale: evitare l'alienazione delle terre, in accordo con analoghe preoccupazioni espresse nel Lv 25 e in Nm 36,2-9. La norma del levirato aveva anche un'altra importante funzione sociale, quella di garantire un marito alla vedova, in una società in cui le donne non potevano lavorare e quindi avevano bisogno di un uomo che provvedesse al loro sostentamento. – 16. Il senso della parola fecondare in questo pensiero deriva dal concetto che, in tutto l'A.T., il rapporto tra Dio e il popolo di Israele veniva sempre rappresentato come un rapporto sponsale.