Contenuti del blog

Le esegesi riportate in questo blog non sono frutto delle mie capacità, in realtà molto modeste. Le ricavo leggendo diversi testi dei più importanti specialisti a livello mondiale, generalmente cattolici, ma non disdegno di verificare anche l’operato di esegeti protestanti, in particolare anglicani. Se si escludono alcuni miei approfondimenti specifici, per la parte tecnica dell’analisi critica il mio testo di riferimento è questo:

- Giovanni Leonardi
, Per saper fare esegesi nella Chiesa, 2007 Ed. Elledici (testo promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale). Questo testo è molto semplice, veramente alla portata di tutti; per migliorare la capacità di analisi deve essere affiancato da altri due testi per la parte linguistica, anch’essi a livello divulgativo:

- Filippo Serafini,
Corso di greco del nuovo testamento, 2003 Ed. San Paolo.
- Luciana Pepi, Filippo Serafini,
Corso di ebraico biblico, 2006 Ed. San Paolo (da usare solo nel caso si voglia approfondire l’etimologia semitica sottesa ai vocaboli greci).

I testi della Bibbia in lingua originale sono pubblicati da varie case editrici; in particolare per i Vangeli segnalo l'ottimo testo della Edizioni Enaudi e quello sinottico della Edizioni Messagero in quanto hanno i testi greco ed italiano a fronte. Si trovano anche in vari siti in rete, ma non sempre sono testi aggiornati con le ultime scoperte a livello archeologico o paleografico.
Per la parte sostanziale normalmente faccio riferimento a documenti prodotti dalle fonti seguenti, che riporto in ordine decrescente di frequenza di utilizzo:

- École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), retto dai Domenicani e dove ha lavorato anche il Card. Martini.
- Centro Studi Biblici “G. Vannucci” – Montefano (An), retto dall’Ordine dei Servi di Maria.
- Sito www.Nicodemo.net gestito da P. Alessandro Sacchi.
- Università degli studi di Torino – Corso di Letteratura cristiana antica – Prof.essa Clementina Mazzucco.
- Fr. Dante Androli, OSM, docente di esegesi alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum – Roma
- Università degli studi La Sapienza di Roma – Corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Prof.essa Emanuela Prinzivalli.
- Biblia, Associazione laica di cultura biblica – Settimello (Fi)


lunedì 6 aprile 2015

Seconda Domenica di Pasqua



II Domenica di Pasqua - Gv 20,19-31

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Povero Tommaso! Con questo brano Giovanni lo ha additato per l’eternità come il capostipite di tutti coloro che non credono se non fanno un’esperienza diretta di un fatto. E dire che era chiamato Didimo, gemello, perchè la pensava sempre come Gesù al punto da essere disposto a pagare di persona questo fatto(1). O, forse, Giovanni lo ha scelto proprio per questo.
La presenza di Tommaso vi è solo nel testo giovanneo(2) per cui viene spontaneo chiederci prima di tutto quale scopo ha questo racconto: il racconto è stato scritto presumibilmente verso l’anno 100 d.C. dalla scuola giovannea probabilmente in Efeso; questo già ci fa capire quale era l’ambiente nel quale si era sviluppato e quali erano le problematiche che investivano la giovane chiesa cristiana in quegli anni. Prima fra tutte l’influenza della filosofia greca: è vero che la scuola giovannea aveva già assorbito al suo interno parti della filosofia gnostica come dimostrano le contrapposizioni luce/tenebre, bene/male oppure la descrizione “sui generis” della eucaristia (“…chi mangia la mia carne…” Gv 6,54-56) proprie del vangelo di Giovanni. Ma ora l’attacco veniva da un colosso della filosofia che minacciava alla base il cristianesimo: la dottrina di Platone(3) con la sua divisione della persona in corpo e anima che cozzava contro il concetto unitario di individuo proprio del messaggio di Gesù e di conseguenza contro il concetto stesso di risurrezione così come era stato enunciato da Paolo nella lettera agli abitanti di Corinto(4) cinquant’anni prima.
Bisognava quindi contrapporre all’immagine di un Cristo solo spirito proposta dal platonismo un’altra immagine che riproponesse con evidenza il concetto di ri-creazione, di nova creazione connesso all’evento risurrezione. L’idea di far svolgere tale funzione a Tommaso, visto il rilievo che tale figura ha avuto nei secoli, è stata sicuramente vincente.

L’apparizione di Gesù a Maria Maddalena(5) aveva avuto un carattere personale ed era finalizzata a preparare i discepoli all’incontro con lui. Prima di vederlo essi dovevano sapere che egli era ormai salito al Padre per prendere possesso in modo pieno e definitivo delle sue prerogative di mediatore finale della salvezza. In questa veste egli si presenta ora ai discepoli per conferire loro, insieme al mandato missionario, anche il dono dello Spirito che li guiderà nel loro cammino.
L’evento ha luogo nello stesso giorno della risurrezione, cioè il primo dopo il sabato: si tratta dunque del primo giorno della settimana, che, come l’inizio della creazione, segna la nascita di un mondo nuovo. È anche il giorno dell’assemblea cristiana.
I «discepoli» non sono semplicemente i Dodici (ora ridotti a undici), ma tutti i seguaci di Gesù, sia attuali che futuri: infatti Giovanni sa distinguere, quando lo ritiene opportuno, i Dodici da tutti gli altri (cfr. Gv 6,66-67).
Sebbene le porte del luogo in cui si trovano i discepoli siano chiuse per timore dei giudei, Gesù non ha difficoltà a entrare: egli “si ferma” (estê, stette in piedi) in mezzo a loro, inizio questo di un nuovo modo di stare con loro diverso da quello precedente la sua morte in croce. Presentandosi in mezzo ai discepoli, egli dice loro: “Pace a voi” (shalôm). Questo saluto è tipico del costume ebraico(6); ma fra poco apparirà che con esso egli intende esprimere qualcosa di più di un semplice saluto.
Dopo essersi presentato ai discepoli, Gesù mostra loro le mani e il costato. Con questo gesto egli intende non soltanto dimostrare la realtà della sua presenza, ma anche ricordare come sia proprio in forza della sua morte in croce che egli si presenta a loro nella sua nuova realtà. In questo momento, in cui Gesù sta per dare lo Spirito ai suoi discepoli, l’evangelista non può non ricordare che dal fianco squarciato del crocifisso erano usciti sangue ed acqua, simbolo dello Spirito (cfr. Gv 19,34-37).
L’apparizione di Gesù provoca nei discepoli una reazione di profonda gioia: non si tratta semplicemente della soddisfazione di rivedere in vita una persona cara, ma piuttosto della gioia escatologica, strettamente collegata con la pace, che la presenza di Gesù porta con sé, in quanto significa l’adempimento della salvezza.
L’evangelista non dà altri dettagli circa l’apparizione del Risorto, ma si limita a riferire il messaggio da lui rivolto ai discepoli. Anzitutto Gesù ripete il saluto: “Pace a voi”. L’usuale formula di saluto diventa qui espressione di un dono che ha per oggetto la pace, promessa da Gesù durante l’ultima cena (cfr. Gv 14,27) e attuata in forza della sua morte: si ricordi che la pace in senso biblico implica la piena riconciliazione degli uomini con Dio e tra di loro.
Egli poi prosegue: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Il dono della pace non riguarda solo i discepoli, ma deve essere esteso a tutta l’umanità. Perciò si giustifica il loro invio, che è chiaramente universale: esso infatti non è solo modellato su quello che era stato l’invio di Gesù da parte del Padre, ma ne è anche e soprattutto la conseguenza e il prolungamento. Si attuano così le parole con cui Gesù, nell’ultima cena, ha affidato ai discepoli il compito di continuare nel mondo l’opera da lui attuata nella sua morte (cfr. Gv 13,20; 17,17-19).
Gesù poi, alitando sui discepoli, conferisce loro lo Spirito. Anch’esso era stato promesso nei discorsi della cena (cfr. Gv 14,16-17.26; 15,26; 16,13): il gesto di alitare (emphysaô), che è suggerito dal termine «Spirito» (pneuma, soffio), richiama il racconto della creazione del primo uomo, che è diventato un essere vivente solo in forza del soffio divino (Gen 2,7), suggerendo così nuovamente che la venuta dello Spirito rappresenta una nuova creazione. Lo Spirito viene direttamente da Gesù, rappresenta quindi la potenza di Dio che promana dalla sua persona, dalla sua opera e dalla sua morte in croce, dove egli «ha dato lo Spirito» (Gv 19,30). Solo lo Spirito è in grado di assimilare profondamente i discepoli al Maestro, mettendoli in piena sintonia con le sue aspirazioni e i suoi progetti.
Come conseguenza di questo dono egli dà ai discepoli il potere di rimettere i peccati: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi».
Giovanni fa uso a modo suo di questo antico detto per delineare il compito che i discepoli, guidati e animati dallo Spirito, dovranno portare a termine in questo mondo: in sintesi essi dovranno rendere presente la salvezza operata da Cristo, significata nel termine “pace”, che comporta l’eliminazione del peccato e la riconciliazione di tutti gli uomini con Dio e tra di loro.
Non si dice in che modo dovranno attuare il mandato di Gesù, ma si suppone che essi dovranno farlo secondo le modalità da lui adottate, cioè mediante l’annunzio, l’insegnamento, l’esempio, impegnandosi per la formazione di comunità vive in cui tutti fanno l’esperienza dei nuovi rapporti instaurati da Gesù(7). Solo in seguito, il brano sarà letto, come spesso hanno fatto i padri e i teologi nei secoli successivi, in riferimento ai sacramenti che significano e attuano il perdono (battesimo e confessione8).
L’ultimo degli eventi connessi con la risurrezione di Gesù consiste in una sua seconda apparizione ai discepoli. L’evangelista racconta che al momento della prima era assente uno dei dodici, Tommaso detto Didimo. Egli apparteneva al gruppo dei Dodici, anche se in questo momento essi sono rimasti solo in undici.
Sentendo che gli altri “avevano visto il Signore”, egli, invece di unirsi a loro nella fede, afferma: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» Questa frase rispecchia stranamente le parole alquanto critiche dette da Gesù al funzionario regio: «Se non vedete segni e prodigi, non credete» (Gv 4,48).
Per Tommaso, però, il desiderio di fare un’esperienza personale e diretta del Risorto, come l’avevano fatta gli altri discepoli, è legittimo, in quanto anche lui, insieme con loro, dovrà testimoniare quello che ha visto. Esso è criticabile solo nella misura in cui diventa una pretesa, a cui per di più si unisce la richiesta non solo di vedere, ma anche di toccare le ferite dei chiodi e della lancia. Il suo comportamento si contrappone a quello dei primi due discepoli che, andati al sepolcro, avevano creduto, pur senza aver visto il Signore in carne ed ossa (cfr. Gv 20,8). 
Esattamente otto giorni dopo la Pasqua, quindi nuovamente in giorno di domenica, Gesù, come la prima volta, riappare ai discepoli e li saluta nello stesso modo: “Pace a voi”. Questa volta è presente tra loro anche Tommaso. È a lui che Gesù si rivolge direttamente con queste parole: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente!» Con queste parole Gesù dimostra di conoscere, come aveva fatto con Natanaele (cfr. Gv 1,47-51), che cosa il discepolo desiderava fare. Egli non critica Tommaso per la sua richiesta, anzi si dichiara disponibile a soddisfarla. Per l’evangelista il fatto che Tommaso, incredulo com’era, abbia potuto vedere e toccare il corpo di Gesù risorto è chiaramente una conferma della sua realtà.
Alle parole di Gesù Tommaso risponde: «Mio Signore e mio Dio». Quando Gesù gli appare, egli non sente più il bisogno di toccare le sue ferite, ma subito, come gli altri, passa dall’incredulità alla fede più piena. Anzi la confessione di fede, con cui attribuisce a Gesù i due nomi divini per eccellenza di Signore (dal greco kyrios, traduzione dell’ebraico adonai) e di Dio (greco: theos, ebraico: ’elohîi) (cfr. Sal 35,23), è in certo modo la sintesi di tutto ciò che l’evangelista ha voluto dire della persona di Gesù, a cominciare dalle prime parole del prologo (Gv 1,1: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio”) fino all’affermazione secondo cui chi vede Gesù vede il Padre (Gv 14,9).
Gesù allora conclude: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!».
Tommaso è dunque entrato nel gruppo di coloro che, avendo visto, hanno creduto. Le parole di Gesù non rappresentano certo una critica nei confronti di coloro che appartengono a questa categoria, ma piuttosto esprimono un grande apprezzamento per tutti quelli che, pur non avendo avuto un’esperienza diretta di Gesù, hanno creduto sulla parola dei testimoni oculari (cfr. Gv 17,20).
L’evangelista pensa qui ai suoi lettori, i quali, essendo privi dell’esperienza diretta di Gesù, possono pensare di essere cristiani di seconda categoria: ad essi egli, con le parole del Risorto, dice di non temere, perché non sono inferiori a quelli che l’hanno visto e toccato, anzi li superano, in quanto dimostrano di avere una fede più grande della loro. 
Negli ultimi due versetti del capitolo l’evangelista dice in sintesi i motivi che l’hanno spinto a scrivere il suo vangelo: “Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi poi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 30-31). Questa frase si ricollega sia alla conclusione del “Libro dei segni” (cfr. Gv 12,37), sia alle ultime parole rivolte da Gesù a Tommaso: se è vero che si può giungere alla fede senza aver visto, è necessario però che, perché ciò avvenga, qualcuno riferisca i segni mediante i quali Gesù ha chiamato alla fede i primi discepoli.
La fede a cui l’evangelista vuole condurre i suoi lettori ha per oggetto Gesù, in quanto Cristo e Figlio di Dio. Attraverso i suoi segni, ognuno è chiamato dunque a riconoscere in lui, come avevano fatto i primi discepoli (cfr. Gv 1,41.49), il Messia inviato da Dio e a lui unito mediante un rapporto unico e filiale. Unendo così i due titoli l’evangelista collega la speranza messianica di Israele con la comprensione che i cristiani hanno avuto di Gesù in quanto Figlio unico e trascendente, nel quale il Padre si è manifestato pienamente. Questa fede ha lo scopo di conferire a chi ne è dotato il dono salvifico della vita eterna: essa non consiste dunque in una adesione puramente intellettuale, ma implica un coinvolgimento di tutta la persona nel rapporto strettissimo che unisce il Figlio con il Padre.
Nel racconto dell’apparizione di Gesù ai discepoli, Giovanni collega strettamente il mandato missionario con l’infusione dello Spirito, che Luca riserva al giorno di Pentecoste. È chiaro che non si tratta di due eventi diversi, ma di diverse formulazioni della stessa realtà. Quella giovannea mette più chiaramente in luce il significato cristologico dello Spirito, sottolineando come esso provenga da Dio per mezzo del Risorto e tenda a rendere vivo e operante nell’intimo dei discepoli il suo progetto di salvezza. Mediante la venuta dello Spirito si attua così quanto era stato preannunziato dalle grandi profezie dell’AT, prima tra tutte quella di Ez 36,27, collegata con Ez 37,1-14.
La missione che Gesù conferisce ai discepoli viene chiaramente delineata nel quarto vangelo come eliminazione del peccato e instaurazione della pace non solo in Israele ma in tutta l’umanità. Pace e perdono sono due temi strettamente collegati in tutto l’AT, dove rappresentano la rimozione delle barriere che separano gli uomini tra loro e nei confronti di Dio.
Il compito di attuare il perdono si concretizza nella comunità cristiana, formata da persone che, mediante i profondi legami interpersonali che si realizzano tra loro mediante la fede, fanno l’esperienza della riconciliazione e la attestano al mondo. In questa prospettiva è chiaro che il potere di perdonare viene affidato non solo agli undici discepoli rimasti fedeli a Gesù, ma anche a tutti coloro che aderiranno a lui mediante la fede. L’idea di una funzione riservata agli apostoli e da loro trasmessa ai loro successori è chiaramente legato a una concezione elaborata in un periodo posteriore(9), che non deve essere letta anacronisticamente nel testo giovanneo.
Il perdono dei peccati presuppone la fede in Gesù, accettato e proclamato come Cristo e come Figlio di Dio. Questa fede però non consiste nella semplice accettazione di due titoli cristologici, ma nel riconoscere ciò che essi significano, e cioè la centralità della proposta cristiana nel progetto di Dio. A questa fede conduce l’esperienza fatta dai primi testimoni a contatto diretto di Gesù e il racconto che ne hanno fatto mediante la loro predicazione e mediante il vangelo giovanneo. Tuttavia questo annunzio non nasce dal nulla, ma è già presente e radicato nel cuore umano, al punto tale che non sono necessarie delle prove per credere in lui. La sua parola, riferita dai discepoli, si attesta da sola, in quanto risveglia esigenze e attese presenti nel cuore di ogni persona. La centralità dell’opera di Gesù per i cristiani non esclude, anzi esige, la presenza universale del suo messaggio, attestata chiaramente nel prologo del vangelo.

Note: 1. Di lui Giovanni aveva già parlato quando, in seguito alla morte di Lazzaro, aveva commentato la decisione di Gesù di recarsi a Betania dicendo: «Andiamo anche noi a morire con lui» (Gv11,16). – 2. Il resoconto giovanneo si avvicina a quello della tradizione sinottica, specialmente come è riportata da Luca (24,36-49), con il quale ha in comune alcuni elementi specifici: l’aspetto corporeo di Gesù, la gioia, la missione, la remissione dei peccati, il dono dello Spirito. Il testo di Luca, di pochi anni più giovane, dimostra che l’influenza platonica stava facendo breccia da tempo. – 3. La Chiesa cristiana (e cattolica in particolare) ha sempre duettato con la filosofia platonica: si ricorda qui l’influenza di Plotino nel III secolo con l’introduzione del concetto che il corpo è la parte immonda dell’individuo (con buona pace dell’incarnazione di Gesù) generando così un movimento sessuofobo, mai presente nei vangeli, che ancora oggi crea profondi disagi ai fedeli. Ma si ricorda anche il movimento neo platonico del XIX secolo che ha portato non solo ad una diversa interpretazione dei comandamenti, ma addirittura alla modifica del testo di alcuni per adeguarli al pensiero del movimento. Ne è esempio il VI comandamento che da “Non commettere adulterio”, nel catechismo di Pio X divenne “Non commettere atti impuri” stravolgendone il significato originale. Infatti L’ebraico na’af ha un senso più ampio che non il tradimento della fedeltà cui gli sposi sono tenuti; na’af non è solo l’adulterio ma qualsiasi adulterazione del comportamento dell’uomo o della donna, nei loro rapporti con gli altri o con se stessi. Il nef è perciò un adultero, un corrotto, un corruttore, un truffatore, un traviato, un dissoluto portato a ogni comportamento indebito o sleale (A. Chouraqui, Il mio testamento.Il fuoco dell’alleanza, Queriniana, Brescia 2003, p. 126). – 4. 1Cor 15, 35.53: “Ecco io vi annunzio un mistero: non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità”. – 5. Quanto segue è liberamente tratto da una esegesi pubblicata su NICODEMO.NET. – 6. Il significato di questo saluto nella cultura ebraica va al di là di quello che è il significato etimologico della parola pace; con questa parola si augura all’oggetto del saluto la prosperità materiale, figli maschi numerosi, una moglie operosa e una morte “sazio di anni”, quindi una vita in accordo con Dio e con gli uomini. – 7. La Celebrazione Comunitaria del sacramento della Riconciliazione tramite la lettura ed il commento di un brano di vangelo, in sostituzione della formula tridentina (vedi Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1482), parte esattamente da questa constatazione teologicamente molto importante. Sottolineo il rammarico che questa modalità celebrativa sia quasi mai applicata nelle parrocchie italiane in contrapposizione a quanto fatto in quelle estere (ho avuto esperienze dirette in Francia, Svizzera, Olanda, Germania ed in USA) ove spesso è affiancata anche dalla assoluzione dall’altare, visto l’esiguo numero di sacerdoti esistente. E la partecipazione dei fedeli è imponente, specie se paragonata a quanto accade in Italia. – 8. Penso sia opportuno ricordare che la frase: “a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” non va intesa come una facoltà dei discepoli (che, del resto, sarebbe in contrasto con altre parole di Cristo e con il Padre Nostro) ma un avvertimento che sottolinea una responsabilità che tutti noi abbiamo nei confronti degli altri in caso di un nostro rifiuto al perdono. – 9. Nei primi secoli, quando un fedele peccava in modo scandaloso o addirittura pubblico (generalmente si trattava di omicidio, adulterio e abiura), veniva messo "fuori comunione" dalla comunità cristiana. Qualora egli avesse voluto "tornare in comunione", doveva umiliarsi e confessare pubblicamente davanti a tutta la comunità la sua colpa e chiederne il perdono. Dopo le grandi persecuzioni molti fedeli che, per paura delle sofferenze, avevano "abiurato" (cioè avevano rinnegato la fede), domandarono di essere riammessi nella chiesa: fu a questo punto che si chiese loro di fare una confessione pubblica, che con l'andar del tempo, si modificò comprendendo non solo il peccato di abiura, ma anche altri peccati. Di questo è rimasta traccia nel “confiteor” presente nella liturgia della messa. Nel 450 d.C. papa Leone Magno proibì la confessione pubblica e la sostituì con quella privata al sacerdote; in merito S. Agostino (354-430 d.C.) aveva già espresso parere negativo: “perché esporre agli uomini le piaghe della mia anima? E' Lo Spirito Santo che rimette i peccati; l'uomo non lo può fare, perché ha bisogno del "medico" al pari di chi cerca in lui il "rimedio"…E se mi dici: "come si adempie la promessa di Cristo fatta agli Apostoli "tutto quello che scioglierete in terra sarà sciolto nel cielo", rispondo che il Signore prometteva di mandare il suo Spirito dal quale dovevano essere rimessi i peccati. Or e' o Spirito di Dio, dunque, che rimette i peccati e non voi uomini!” (Serm. 99 de Verb. Evang. Luca 7). C’è da aggiungere che sulla base degli studi sui modi di dire ebraici sviluppati nel XX secolo, si è scoperto che la frase "tutto quello che scioglierete in terra sarà sciolto nel cielo" era la formula con la quale il Sommo Sacerdote ebraico conferiva l’autorizzazione ad uno scriba di interpretare la Bibbia e quindi Gesù, pronunciandola, autorizzava i propri discepoli a spiegare la Parola di Dio ai fedeli e nulla aveva a che fare con il Sacramento della Riconciliazione. Nel 1215 il IV Concilio Lateranense, regnante papa Innocenzo III, decretò la confessione un sacramento obbligatorio per tutti, cosa che sollevò l'opposizione violenta della maggioranza dei cattolici del tempo, clero e laici (vedi H. C. Lea, Storia della confessione auricolare e delle indulgenze nella Chiesa latina, 1911, p. 211).

Domenica di Pasqua



Resurrezione del Signore
Vangelo della notte del Sabato. Mc 16, 1-7
Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a ungerlo. Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole. Dicevano tra loro: «Chi ci farà rotolare via la pietra dall'ingresso del sepolcro?». Alzando lo sguardo, osservarono che la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande. Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d'una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l'avevano posto. Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro: «Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto»».

Il brano in questione è uno dei tanti esempi del modo complesso ed affascinante di scrivere di Marco: ogni frase, ogni parola, racchiudono significati teologici profondi e talora sorpendenti che si possono cogliere appieno solo esaminando il testo greco originale.
Scrive(1) l’evangelista: “Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a ungerlo”. Marco nomina le tre donne che formavano il gruppo che aveva assistito alla morte di Gesù (Mc 15,40-41); di queste Maria di Magdala  aveva visto dove Gesù era stato deposto (Mc 15,47).
Marco inizia il racconto della risurrezione con un atto di accusa “passato il sabato”: la comunità di Gesù non ha ancora accolto la novità che lui ha portato. Gesù ha sempre ignorato, o meglio ridimensionato, la legge del sabato (Mc 2,27-28)(2), e con questo si è procurato l’odio mortale da parte dei dirigenti religiosi e civili. Già al capitolo 3 del vangelo di Marco Gesù trasgredisce la legge del sabato curando l’uomo col braccio atrofizzato (Mc 3,1-6).
Nel pensiero ebraico del I secolo, il riposo del sabato non era un comandamento uguale agli altri, ma era il comandamento per eccellenza, era il comandamento che anche Dio osservava, per cui l’osservanza del sabato equivaleva all’osservanza di tutta la legge, la trasgressione del sabato equivaleva alla trasgressione di tutta la legge e per questo era prevista la pena di morte.
Gesù ha ignorato sempre il sabato perché Gesù ignora la legge. Nei vangeli la legge viene sempre invocata dalle autorità religiose a difesa dei propri privilegi e del proprio prestigio; è strano, ma non è citata una sola volta in cui la legge è invocata a favore del popolo, segno evidente che c’è qualcosa che non va.
Per questo Gesù ha preso le distanze dalla legge: lui inaugura un nuovo rapporto con Dio che non è più basato sulla legge, ma sull’amore, perché il Dio di Gesù è amore e l’amore non può essere imposto attraverso delle leggi, l’amore può essere espresso soltanto attraverso opere che comunicano vita.
Purtroppo non è facile liberarsi dalla legge: quando per tutta la vita si è stati educati a rispettare, venerare e osservare la legge, chi ha il coraggio di trasgredirla? Morto Gesù, la comunità si sente ancora sotto la dipendenza della legge e per questo le donne, invece di andare subito al sepolcro, hanno aspettato che passasse il sabato e per colpa loro noi oggi celebriamo la Pasqua con circa due giorni di ritardo(3).
L’accusa dell’evangelista fa capire quanto è difficile liberarsi dalla religione, anche perché questa religione non è stata offerta, ma è stata imposta con la paura del castigo.
L’azione delle donne comunque è inutile, perché Gesù è già stato unto per la sua sepoltura: poco prima della sua cattura, a Betania una donna anonima aveva unto il capo di Gesù con un profumo di grande valore. E Gesù aveva detto “Essa ha fatto ciò ch’era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura.” (Mc 14,3-9): era il profumo della vita più forte della morte.
Mentre l’effetto della morte è il fetore della putrefazione, l’effetto della vita è il profumo che inonda tutta la casa. Questa è l’unica azione che Gesù chiede espressamente che venga fatta conoscere a tutti: “In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto».” (Mc 14,9).
L’annunzio del vangelo, della buona notizia, è che la vita è più forte della morte, che la morte non interrompe la vita. Questa è la Buona Notizia che gli uomini attendono perché la morte fisica l’abbiamo tutti nel nostro orizzonte, con essa Gesù non libera dalla paura della morte, Gesù libera dalla morte stessa.
Di buon mattino, il primo giorno della settimana…”; nel testo greco c’è l’espressione “l’uno dopo il sabato”. Marco non scrive “il primo della settimana‟, ma si rifà al libro della Genesi (Gen 1,5), al racconto della creazione dove, appena creata la luce, scrive l’autore, “e fu sera e fu mattina, giorno uno”.
Quindi l’evangelista indica nel momento della scoperta della risurrezione di Gesù, il giorno uno, quello della nuova e definitiva creazione. Marco vuole dire: questa è la creazione realizzata da Dio, non un uomo che finisce la sua esistenza con la morte, ma un uomo che, come Dio, ha una vita capace di superare la morte.
“…vennero al sepolcro al levare del sole”: “levato il sole‟ è l’espressione che Marco ha adoperato nella parabola dei quattro terreni (Mc 4,1-9). E’ la parabola nella quale Gesù indica quali saranno gli effetti del suo messaggio: il seminatore semina, una parte del seme finisce sulla strada e vengono gli uccelli che la portano via; Gesù, spiegando lui stesso la parabola, dice che questo accade a quanti sono vittime del satana, che nei vangeli rappresenta il potere, ormai completamente refrattari al messaggio di Gesù. Quanti aspirano al potere e quanti ne sono sottomessi, vedono nel messaggio di Gesù un attentato al loro potere o alla loro ambizione o alla loro sicurezza.
Altri hanno colto il messaggio di Gesù; sono quelli per i quali il seme cade, cerca di mettere radici ma, essendo il terreno roccioso, “appena levato il sole” (quindi la stessa espressione), la pianta secca. Il sole, pur essendo fonte di vita per la pianta, in questo caso invece ha un effetto micidiale: secca la pianta. La colpa non è del sole, la colpa è della pianta che non ha messo radici profonde.
Questa è la situazione delle donne; Gesù ha sempre ignorato il sabato, Gesù ha sempre detto che il rapporto con Dio non è basato sull’obbedienza alla sua legge, ma sull’accoglienza del suo amore, ma le donne non sono riuscite a tramutare questo insegnamento in azione: il messaggio di Gesù non ha messo radici in loro.
Dicevano tra loro: «Chi ci farà rotolare via la pietra dall'ingresso del sepolcro?»”. La preoccupazione delle donne è questa pietra che impedisce la comunicazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
C’è una espressione popolare che deriva dagli usi funerari antichi e che adoperiamo nel nostro linguaggio comune, quando diciamo “mettiamoci una pietra sopra”. Si rifà proprio alle usanze funerarie ebraiche; i morti venivano seppelliti in una grotta, in una caverna, e sopra veniva posta una pietra. La pietra interrompeva radicalmente e definitivamente il rapporto con il defunto che ormai apparteneva al regno dei morti e quindi stava dall’altra parte. Significava qualcosa che definitivamente e in maniera irrimediabile si era conclusa.
 Alzando lo sguardo, osservarono che la pietra era già stata fatta rotolare, benché fosse molto grande.”. Abbiamo detto che era al mattino presto, al levar del sole; è la luce del nuovo giorno, il nuovo e definitivo giorno in cui è stata ricreata la luce che incomincia ad illuminare le donne che, finalmente, “osservarono” – l’evangelista non dice che vedono, dice che osservano, cominciano ad accorgersi alzando lo sguardo – che la pietra non chiudeva più il sepolcro. La costruzione della frase da parte di Marco fa capire che la pietra non aveva potuto trattenere Gesù che aveva continuato la sua vita immediatamente dopo la morte fisica, senza soluzione di continuità.
Notate la finezza dell’evangelista, cosa importante perché ne va anche della nostra situazione personale, del nostro rapporto con la persona cara che è passata attraverso la morte: fintanto che le donne erano preoccupate per la pietra, che, come abbiamo visto, era molto grande, non sapevano come fare; ma quando cominciano ad alzare lo sguardo, e quindi non guardare più a sé stessi, ma ad ampliare il proprio orizzonte, si accorgono che il motivo della preoccupazione era inesistente.
La finezza psicologica di Marco è straordinaria. Fintanto che guardano alle proprie preoccupazioni, non si accorgono della realtà. Alzando lo sguardo, si accorgono che il motivo che tanto le preoccupava non esisteva. E’ una finezza psicologica incredibile: fintanto che siamo centrati sui nostri problemi, sulle nostre preoccupazioni e sulle nostre angosce, e non alziamo lo sguardo, non vediamo che questo problema, questa preoccupazione, quest’angoscia era inesistente.
La pietra, per quanto grande – e l’evangelista sottolinea che la pietra era molto grande – non può impedire alla potenza della vita di manifestarsi. La morte non è una condizione definitiva e non interrompe la vita.
Entrate nel sepolcro…” ecco finalmente cominciano a vedere e trovano “…un giovane”,    lo stesso personaggio presente all’arresto di Gesù (Mc 14,51-52). Da notare che il termine greco per indicare questo giovanetto appare nel vangelo di Marco unicamente in questi due episodi, e non a caso(4).
“…seduto sulla destra…” di cosa? Marco non lo dice perché si rifà alle parole di Gesù quando, di fronte al sommo sacerdote, aveva detto (Mc 14,62): “vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra della Potenza venire sulle nubi del cielo”, che era una citazione di Sal 110,1, nel quale Dio si rivolgeva al Messia dicendo “siedi alla mia destra”.
L’evangelista si rifà al cerimoniale dell’epoca in cui, accanto all’imperatore o al re, alla loro destra, sedeva colui che deteneva il suo stesso potere cioè il vicerè oppure l’erede designato. Allora questo “seduto alla destra”, che appare al momento della risurrezione, è una denuncia che l’evangelista fa alle autorità religiose: quell’uomo che voi avete accusato come criminale e avete assassinato come un bestemmiatore, in realtà aveva la condizione divina. Questo giovane che siede alla destra, rappresenta Gesù nel pieno della sua condizione divina.
All’arresto di Gesù questo giovane era rivestito di un telo funerario; dopo la cattura lascia il telo funerario, simbolo della sua morte in mano ai catturatori, e fugge nudo, ma non rimane a lungo nudo: “vestito d'una veste bianca…”; nel testo originale greco il verbo usato è “rivestire” e tale verbo appare al momento della cattura e qui. L’evangelista vuole dirci: “attenzione che è lo stesso personaggio!”.
La veste bianca è l’abito dei risorti; attraverso questo giovanetto, l’evangelista vuol far comprendere l’esperienza del Cristo risuscitato fatta della comunità cristiana di Marco.
“…ed ebbero paura”: le donne però si stupiscono e sono sconvolte(5).
Le donne entrano nel sepolcro ma non trovano un morto, trovano un vivente e lo trovano nel massimo dello splendore della condizione divina, cioè seduto alla destra e rivestito perchè la morte non lascia nudi. La morte permette di essere rivestiti della tunica bianca che è il colore della risurrezione, lo stesso colore che era apparso al momento della trasfigurazione. Quindi la morte non lascia l’uomo nella situazione di prima, ma lo riveste di una condizione e di una situazione nuova immensamente più grande di quella conosciuta.
Ma egli disse loro: «Non abbiate paura!...”. Non è un invito, ma un ordine. “…Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l'avevano posto.”.
Le donne si erano sbagliate, cercavano il cadavere del Nazareno, e invece trovano un vivo. Cercavano il cadavere del crocifisso e invece trovano un vivo.
Ma guardiamo l’accusa che fa questo giovanetto: “Voi cercate Gesù Nazareno”, cioè voi cercate il terrorista, il rivoltoso. “Nazareno‟ indica il luogo dì origine di Gesù, Nazaret in Galilea; la Galilea era la regione a nord, abitata dai poveri ed era in continua sommossa, e Nazaret in particolare era uno dei principali covi di questi nazionalisti. Dire che Gesù era un galileo significa che era un rivoltoso; dire che Gesù era un Nazareno, significa che era un ribelle. Allora la frase diviene “voi cercate il ribelle giustiziato?” Ed ecco ancora l’accusa “cercate il crocifisso?”
Secondo la legislazione giudaica Gesù doveva essere lapidato; secondo il diritto romano, Gesù doveva essere decapitato. Per ucciderlo non hanno scelto il modo tradizionale di eseguire le condanne capitali, ma la croce che era una tortura lenta, atroce, riservata alla feccia della società. Gesù non è stato lapidato e non è stato decapitato perché questa morte sarebbe stata troppo facile. Non bastava lapidarlo, ne avrebbero creato un martire; non bastava decapitarlo, avrebbero suscitato un eroe contro i romani. I sommi sacerdoti, gli scribi (loro sì che se ne intendono, che conoscono la scrittura!) hanno cercato per Gesù una morte talmente infamante che mettesse fine ad ogni dubbio: quest’uomo non solo non viene da Dio, ma è un maledetto da Dio (Dt 22,23). Come avete potuto credere a quest’uomo? Un uomo che ha detto che era sbagliata la legge di Dio! Ma questo è un pazzo, un bestemmiatore! Ma come potete aver seguito quest’uomo che dice di essere Figlio di Dio? Questo è il figlio di Beelzebub, è uno stregone. Hanno scelto, in maniera perfida, veramente diabolica, la pena, la tortura, che era riservata, secondo il libro del Deuteronomio, a quelli che Dio ha rifiutato, ha maledetto.
Ecco, ecco che fine ha fatto il vostro Gesù! Guardate che fine ha fatto, è crocifisso, maledetto da Dio! Quindi non è vero quello che diceva. Mica oserete mettere in dubbio la Bibbia! La Bibbia dice che chiunque è appeso al legno è un maledetto. Vedete che non era vero che quest’uomo era Figlio di Dio, ma era maledetto da Dio!
Questo giovanetto, che è Gesù, li rimprovera: “chi cercate, il ribelle? Chi cercate, il crocifisso?” “È risorto, non è qui”. Il sepolcro non è il luogo per i risorti. Questo nei vangeli è talmente chiaro, in tutti i vangeli, che non si capisce come poi con lo sviluppo del  cristianesimo, sia venuto il culto dei morti, il culto dei cimiteri, che è completamente estraneo all’annuncio del Vangelo. Nel vangelo di Luca, addirittura, quando le donne cercano di andare al sepolcro, si trovano la strada sbarrata da due individui che dicono “cosa fate? Perché cercate tra i morti chi è vivo?”. Decidetevi, o è morto, e allora accomodatevi al sepolcro. O è vivo, allora dietro-front; andate, continuate sempre con lui.
Gesù lo dice molto chiaramente, “Dio non è il Dio dei morti, è il Dio dei vivi”. Il Dio di Gesù non risuscita i morti, il Dio di Gesù comunica ai vivi la vita di una qualità che è la sua, e che è capace di superare la morte. I nostri cari non hanno fatto esperienza della morte, ma continuano la loro esistenza.
Questo è l’annuncio che ci dà l’evangelista. Il loro omaggio, gli aromi con cui volevano ungere Gesù, è completamente inutile. Erano oli per un morto, ma Gesù non è nel sepolcro. Il luogo della morte non può trattenere colui che è vivente.
Ma andate,…” Quindi Gesù stesso, il giovanetto, invita ad un dietro-front. L’orientamento della comunità cristiana non è il sepolcro, ma è il mondo, dove c’è la vita.
“…dite ai suoi discepoli e a Pietro...” è strano, come mai Simone è separato dai discepoli e viene chiamato Pietro (unica volta in cui Gesù si riferisce a Simone con il suo soprannome negativo)? Perché è il discepolo che ha rinnegato completamente il suo maestro e non fa più parte dei suoi discepoli.
Gesù può essere abbandonato dai discepoli, può essere tradito da Pietro, ma non abbandona nessuno. Gesù è l’amore fedele che può essere tradito, ma mai tradisce i suoi. Quindi recupera anche il traditore che ha detto di non avere nulla a che fare con lui.
…«Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto»”. Il giovane, che è Gesù, incarica le donne di andare dai discepoli e da Pietro, ma non le incarica di annunciare quello che hanno visto. E’ strano. Avrebbe potuto dire: “andate a dire loro che il sepolcro è vuoto”. Non è questo l’incarico.
La fede nella risurrezione non ha come fondamento un sepolcro vuoto, oppure un annuncio o una proclamazione, ma solo ed esclusivamente l’esperienza dell’incontro con il Cristo risuscitato. Non si può credere che Cristo è risuscitato perché il sepolcro è vuoto; che il Cristo è risuscitato lo si può credere soltanto per un incontro personale. Ecco perché dice “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete”. E per vedere Gesù, per prima cosa bisogna abbandonare Gerusalemme. Chi rimane all’interno dell’istituzione religiosa, che è il mondo delle tenebre, non può scorgere la luce. Chi rimane sottomesso a un mondo dominato dalla morte, non può fare l’esperienza della vita, per cui se si vuol fare l’esperienza del Cristo risorto bisogna, senza indugio, abbandonare Gerusalemme, il luogo della morte.
Egli vi precede in Galilea”. La Galilea è il luogo dove Gesù ha iniziato la sua attività, dove Gesù ha proclamato il suo messaggio. Nel testo greco questo andare in Galilea è un verbo dinamico di movimento e non significa naturalmente “andare fisicamente‟ in questa regione del nord, ma “vivete il suo messaggio‟.
Là lo vedrete”. Il verbo greco “vedere‟ che ha adoperato l’evangelista non indica una vista fisica, ma una profonda esperienza interiore. Non sono visioni quelle che Gesù annuncia e garantisce, ma una profonda esperienza interiore. E questo è valido per sempre. Non si può credere che Gesù è risuscitato fintanto che non lo si sperimenta nella propria esistenza.
Quando si accoglie il messaggio di Gesù, interiormente, e lo si traduce in comportamenti d’amore e di servizio, di condivisione verso gli altri, si sperimenta dentro di sé una potenza infinita, crescente, si sperimenta dentro di sé un’energia vitale che ci fa percepire in maniera inconfondibile che il Cristo è vivo, perché noi siamo vivi.
Quando noi innalziamo la soglia del nostro amore, mettiamo la nostra vita in sintonia con quella di Dio, la nostra vita e quella di Dio si legano, e da quel momento non ci sono più dubbi, da quel momento non si crede in un avvenimento, lo si sperimenta! E la vita cambia completamente.
Quindi l’annuncio del giovane, che rappresenta Gesù, dice “Egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete”. La morte di Gesù non ha posto fine alla sua missione, al contrario: Gesù iniziò in Galilea la sua attività e in Galilea i discepoli devono continuare la loro. E’ come se Gesù dicesse: “Allontanatevi dall‟istituzione religiosa, non andate a dare il messaggio ai sommi sacerdoti, agli scribi, ai farisei!”.
Dirà Gesù in un altro vangelo “non date le cose sante ai cani”. Alle persone religiose questo messaggio non solo non interessa, ma li disturba. “Andate in Galilea”, la Galilea era la regione degli esclusi da Dio, era la regione della gente semi-pagana. E’ a loro che bisogna portare la Buona Notizia, a quelli che la religione ha considerato esclusi, è là che bisogna seminare. E non fra quelli che si ritengono al primo posto nel regno dei cieli!
Quindi l’ordine, il mandato è chiaro. Andate e annunziate là in Galilea, ciò che Gesù aveva detto e che qui conferma, “quando sarò morto vi precederò in Galilea”, e quindi là hanno la possibilità di fare questa esperienza.
Ma ecco la finale stupefacente, drammatica, di questo Vangelo, incredibilmente(6) non compresa nel brano liturgico: “E, uscite, fuggirono dal sepolcro tremanti e fuori di sé e non dissero nulla a nessuno, perché avevano paura”.
Questo è la descrizione di un fallimento, perché neanche i seguaci di Gesù fino all’ultimo hanno creduto in lui; anzi, la comunità di Gesù addirittura lo boicotta, boicotta il suo messaggio, tanta è la delusione della sua morte. Quindi fuggono dal sepolcro, non vanno dai discepoli, non vanno da Pietro, non recano l’annuncio di andare in Galilea e non dicono nulla a nessuno. Perché l’incontro con il giovanetto, che è la figura del Cristo risorto, è una grandissima delusione. E’ il crollo di ogni speranza, è il crollo di ogni sogno. Nel vangelo di Luca, quando Gesù incontra i due discepoli a Emmaus, vi è il racconto accorato della loro delusione: “noi speravamo che fosse lui, e invece è morto” (Lc 24,21) perché se Gesù è morto, si vede che non era il Messia.
Per la tradizione ebraica il Messia non poteva morire, quindi, paradossalmente, i discepoli erano più contenti che Gesù fosse morto, che ritrovarselo vivo. Perché se era morto, significa “vabbè, pazienza, ma adesso Dio susciterà senz’altro un altro Messia che finalmente restaurerà il regno di Davide, finalmente imporrà la legge, finalmente dominerà i pagani”; perché era questo che loro attendevano.
Se Gesù è vivo, è la fine dei sogni di restaurazione della monarchia di Davide, è la fine dei sogni illusori di Israele di essere il popolo eletto; ma soprattutto, caspita, Gesù è vivo, ma attraverso cos’è passato! Che razza di morte, che razza di condanna!
Le donne erano andate a rendere omaggio a un Messia sconfitto, come hanno detto i discepoli di Emmaus “noi speravamo che fosse lui a liberare Israele”. Gesù era morto, ma Dio avrebbe suscitato senz’altro un Messia più potente a liberare Israele. Invece Gesù è vivo. Il fatto che Gesù è vivo non produce gioia, ma produce una grande delusione. La sua risurrezione significa che non c’è da aspettarsi un altro Messia.
I sogni di gloria sono definitivamente scomparsi. Non ci sarà la restaurazione della monarchia, né la vendetta sui romani, né il dominio sugli altri popoli. Nulla di tutto questo. Troppo duro da accettare, meglio non dire niente a nessuno. Questa è la finale drammatica, sconvolgente del vangelo di Marco. Ecco perché questa finale scandalizzava, e per questo nel II secolo sono state aggiunge ben tre finali diverse.
Quella che attualmente abbiamo non appartiene al vangelo di Marco, quindi non ha la sua levatura letteraria né la sua ricchezza spirituale, però è il frutto dell’esperienza della comunità cristiana che, vuoi o non vuoi, ha fatto i conti con questo Gesù risorto e lo ha finalmente accettato.

Note: 1. L’esegesi che segue è stata liberamente tratta dalla conferenza “Alberi che camminano” tenuta da padre Alberto Maggi  presso la Cittadella di Assisi dal 4 al 6 settembre 2009. – 2. “E diceva loro: «Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato»”.  – 3. Vi siete mai chiesti per quale motivo Gesù ha mangiato la Pasqua il giovedì sera invece che il venerdì sera come era la norma dettata dal Tempio? Il motivo più probabile è che Gesù non seguiva il calendario lunare del Tempio, ma quello misto lunare-solare di origine babilionese in uso durante la dominazione persiana. Da notare che i romani usavano il calendario solare cesareo, per cui non doveva essere semplice dare un appuntamento nel I secolo in Palestina. Negli ultimi anni si è fatta strada negli studiosi la convinzione che l’ultima cena è stata fatta il marted’ e non il giovedì (vedi gli studi di Annie Jaubert (1912-1980) francese, esegeta, assistente alla Sorbona in storia delle religioni). – 4. Gli evangelisti sono dei grandi letterati e scrivono secondo le regole letterarie dell’epoca indicate dal grande Rabbi Hillel, le Tredici Regole per la Scrittura. Una di queste regole dice: quando vuoi mettere in relazione due episodi, due verità, devi adoperare uno stesso termine soltanto in questi due episodi. E’ quello che gli evangelisti fanno. Nei vangeli certi episodi sono collegati dalla presenza, soltanto in questi episodi, di un termine che non compare più negli altri capitoli. E’ il caso del termine “giovinetto‟: in entrambi gli episodi presi in considerazione si trova lo stesso identico giovanetto, quello che era fuggito nudo.  – 5. Il fatto che Gesù continui ad essere vivo, come si vedrà più avanti, non sarà un annunzio piacevole, ma anzi getterà nel panico e nella delusione la sua comunità. – 6. Forse, ripensandoci bene, la cosa non è poi così incredibile: il liturgista non ha inserito nel brano liturgico questa parte per non costringere il celebrante a spiegare nell’omelia il rifiuto della risurrezione da parte dei seguaci di Gesù o, peggio ancora, a tacerlo. Evidentemente la Chiesa considera ancora oggi i fedeli come bambini da non scandalizzare, come persone da proteggere dalla verità dell’evento Gesù.

Vangelo del giorno di Pasqua. Gv 20,1-9
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

Il brano del vangelo di Giovanni ha analoga impostazione di quello del vangelo di Marco, ma risente del fatto che è stato scritto circa 40-50 anni dopo: nella concezione giovannea la morte di Gesù in croce rappresenta già la sua piena glorificazione e il compimento della sua opera salvifica, che continua ora nel mondo mediante la comunità dei suoi discepoli.
Non dovremmo quindi attenderci più un racconto della sua risurrezione, che in questa ottica diventa completamente superfluo. Ma Giovanni non può sacrificare un dato così importante della tradizione a una sua concezione teologica.
Egli perciò riporta la notizia tradizionale secondo cui il mattino di Pasqua la tomba è stata trovata vuota; ad essa fa seguire il racconto di un’apparizione del Risorto a Maria Maddalena, poi due volte ai discepoli, la seconda delle quali è diretta specialmente all’incredulo Tommaso. 
Spinti dalle parole di Maria di Magdala, due discepoli, Pietro che rappresenta la parte di Israele ancora ancorata alla Legge e alla tradizione antica e un altro discepolo, “quello che Gesù amava”(1), corrono al sepolcro. La corsa, come abbiamo già visto, fa perdere onore e dignità a chi la effettua, ma la cosa è così importante, così urgente da far ignorare le conseguenze ai due discepoli.
L’evolversi della corsa è il simbolo dell’evolversi della fede tra i discepoli: chi raggiunge la fede per primo è chi abbandona la tradizione e si affida a Cristo e sono questi che devono aiutare quelli che sono ancora radicati alla tradizione; per questo Pietro viene atteso e gli si consente di entrare per primo nel sepolcro(2).
La scoperta del sepolcro vuoto e della fede dei primi discepoli ha un significato molto importante nel quarto vangelo. Essa vuol dire che la fede nel Risorto non si basa su prove oggettive, quali le sue apparizioni, e neppure la scomparsa del cadavere dalla tomba. I due discepoli infatti credono perché finalmente, stimolati da un fatto di per sé privo di qualsiasi forza dimostrativa, improvvisamente colgono il significato delle Scritture, secondo le quali egli doveva risorgere.
In realtà le Scritture non parlano esplicitamente della risurrezione del Messia: sarà a partire da questo evento che i primi cristiani rileggeranno le Scritture, ritrovando in esse quello che era diventato il punto centrale della loro fede. Tuttavia sono proprio le Scritture che, mettendo in luce il piano salvifico di Dio, mostrano che il suo inviato non poteva subire la sconfitta cocente della croce, anzi proprio questa doveva essere il segno più luminoso della sua gloria. Così viene affermato in modo fortissimo che la gloria di Dio si distacca radicalmente dalla gloria umana: mentre questa consiste nella sopraffazione dell’uomo sull’uomo, la gloria di Dio significa identificarsi con gli ultimi per portarli a una vita piena che non verrà mai meno.

Note: 1. Quando nei vangeli viene citato un personaggio senza darne il nome, questo va inteso come un rappresentante di una categoria e mai come un’unica persona. In questo caso il discepolo è lo stesso presente sotto la croce e rappresenta l’insieme di tutti i discepoli di Gesù, passati e soprattutto futuri. Ricordo che sotto la croce Giovanni pone anche Maria, la madre di Gesù che simboleggia quella parte di Israele che ha accettato le parole di Gesù e lo ha seguito; è solo un simbolo perché si considera assai difficile che Maria sia sopravvissuta al figlio: avrebbe avuto più di 49 anni quando la vita media della donna in quel periodo raramente superava i 25. La tradizione cattolica ha erroneamente identificato “il discepolo che Gesù amava” con la stesso evangelista Giovanni; questo è stato possibile a causa della macroscopica mancanza di conoscenze sulla cultura ebraica da parte della Chiesa cattolica fino alla seconda metà del XX secolo.  – 2. Questa situazione non era tipica solo della chiesa primitiva, ma si è perpetuata per secoli appesantendo la Chiesa cattolica e impedendole quel salto in avanti che la fede in Cristo avrebbe potuto consentirgli. Rimanere ancorati alla tradizione, anche se questa è legata a concetti e modi di pensiero estranei al momento attuale, impedisce infatti di mantenere i vangeli come unica e somma luce per illuminare il cammino del credente.