(segue dalla domenica precedente)
4.
La resurrezione
Per
comprendere come sia stato possibile, nella cultura ebraica, costruire il
concetto di resurrezione è necessario partire da lontano, dalla loro concezione
della retribuzione data da Dio a
fronte degli atti compiuti in vita.
Mancando
la concezione della “vita post mortem”, la teologia ebraica prevedeva che la
retribuzione (premiante o punitiva) fosse comminata da Dio ovviamente durante
la vita; nel caso del giusto, con un andamento della vita serena come descritto
dal Sal 128:
Beato chi teme il
Signore
e cammina nelle sue vie.
e cammina nelle sue vie.
Della fatica delle
tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.
sarai felice e avrai ogni bene.
La tua sposa come
vite feconda
nell'intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d'ulivo
intorno alla tua mensa.
nell'intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d'ulivo
intorno alla tua mensa.
Ecco com'è benedetto
l'uomo che teme il Signore.
l'uomo che teme il Signore.
Ti benedica il
Signore da Sion.
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
tutti i giorni della tua vita!
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
tutti i giorni della tua vita!
Possa tu vedere i
figli dei tuoi figli!
Pace su Israele!
Pace su Israele!
Altrove lo scrittore sacro aggiunge l’augurio: “possa tu morire sazio di anni”.
Nel caso di colui
che operava in contrasto con la Legge, Dio gli inviava delle malattie, la cui
gravità era proporzionale alle azioni compiute.
Il problema sorse
quando fu evidente che fra la linea teologica che
sosteneva che Dio dispensava il bene e il male su questa terra secondo
giustizia e la realtà c’era una considerevole differenza.
Per cercare di giustificare questa differenza, viene introdotto il concetto
che Dio non si limitava a punire la colpa delle persone, ma era un Dio vendicativo
che, come dice il libro del Deuteronomio, "punisce la colpa dei padri
nei figli fino alla terza e alla quarta generazione" (Dt 5,9). Ne consegue che anche se io
cerco di comportarmi secondo le regole della religione, e quindi sono una
persona pia, una persona che prega, devo scontare un qualcosa che magari ha
commesso mio padre, ha commesso mio nonno o il mio bisnonno, perché Dio vendica
la colpa fino alla terza e alla quarta generazione.
Ci fu un profeta nel VI secolo a.C., il profeta Ezechiele, che cercò di
contestare questa visione dicendo che no, ognuno è responsabile della propria
colpa, quindi Dio non punisce i figli o i nipoti per la colpa dei padri, ma
ognuno il suo; ma anche questo non era riscontrabile nella realtà, perché si
vedevano delle persone dall’ottima condotta, che soffrivano tutte le pene che
capitavano.
Ancora cento anni, siamo nel V secolo e ci stiamo avvicinando all’epoca di
Gesù, in questo secolo ci fu un autore che scrisse quella che può essere
chiamata una stupenda opera teatrale, il libro di Giobbe. Questo libro fu
scritto proprio per contestare questa teologia molto semplice dove il buono
veniva premiato e il malvagio veniva castigato. Ma nemmeno il libro di Giobbe
riesce a risolvere il problema perché fa fare al Padreterno una figuraccia
tremenda; rispondendo a Giobbe che protesta Egli afferma che non deve
protestare in quanto: “io sono Dio e tu sei un nulla”.
A tirare fuori dal vicolo cieco in cui si erano cacciate le dispute
teologiche, ci fu, nel II secolo a.C., una persecuzione da parte del re Antioco
Epifane, che voleva "grecizzare", cioè "paganizzare" il
mondo di Israele; una persecuzione contro coloro che resistevano creando così
dei martiri: fu proprio a causa di questi martiri, che risultavano impossibili
da premiare secondo la teologia tradizionale, che venne poco a poco a formarsi
l’idea di una resurrezione dopo la morte, inizialmente riservata ai martiri e ai
giusti.
Nel libro di Daniele si può leggere: "molti di quelli che dormono
nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli
altri alla vergogna e per l’infamia eterna" (Dn 12,2). È importante tenere presente che ci sarà una resurrezione
per i martiri e per i giusti; i malvagi non resuscitano ma rimangono nella
vergogna eterna.
Nel I secolo sorsero dei testi, fuori dalla Bibbia ebraica, che gli ebrei
non accettarono come ispirati, ma che poi la Chiesa Cattolica ha accolto
nell’elenco dei libri canonici con atto del Concilio di Trento per giustificare
la “nascita” del Purgatorio(1). Si tratta dei Libri dei Maccabei; nel
secondo libro dei Maccabei si ritrova, appunto a causa delle persecuzioni di
Antioco Epifane, l’idea di una vita nuova ed eterna: il quarto dei sette
fratelli martiri dice al re che "…è bello morire a causa degli uomini,
per attendere da Dio l’adempimento delle speranze di essere da lui di nuovo
risuscitati; ma per te la risurrezione non sarà per la vita" (2Mac 7,14).
Queste idee, all’epoca di Gesù, verranno rifiutate dai sadducei che erano
una componente importante della casta religiosa; il rifiuto era giustificato
dal fatto che tali idee non erano contenute nei primi cinque libri della
Bibbia, quella che viene chiamata la "Torah", la Legge; le autorità
religiose dell’epoca di Gesù considerarono eretiche le dottrine riguardo alla
resurrezione.
È importante
sottolineare, ed è importante per comprendere il pensiero di Gesù, che il
concetto di resurrezione riguarda soltanto i giusti; per i malvagi c’è la morte
per sempre.
Questa dottrina della
resurrezione, rifiutata dai sadducei, venne invece portata avanti dai farisei.
I farisei erano dei pii laici che vivevano tutti i dettami della legge e che
stavano elaborando una dottrina importante per la religione, come per ogni religione:
la dottrina del merito. Gesù, invece, insegnerà che l’amore di Dio non va
meritato con gli sforzi dell’uomo, ma va accolto come dono gratuito da parte di
Dio. Solo a cavallo tra il V e VI secolo d.C., con la costruzione teologica
dell’inferno, la Chiesa abbandona il pensiero di Gesù e riesuma la dottrina
farisaica del merito. Le motivazioni di questa riesumazione erano
fondamentalmente dovute alla necessità di una conversione forzata dei pagani
attraverso la paura.
Gesù si appropria dell’idea
della resurrezione, ma la usa solo per parlare agli ebrei. È interessante vedere
che Gesù usa sempre nei Vangeli due linguaggi: quando Gesù parla agli ebrei,
parla secondo categorie religiose che loro potevano comprendere anche se poi
lui ne cambiava il contenuto; quando Gesù parla ai pagani, oggi direi ai non
credenti, Gesù non adopera mai categorie religiose, ma categorie prese in
prestito dalla vita. Se agli ebrei Gesù parla di resurrezione, ai i pagani o ai
non credenti dell’epoca, parla di una vita che è capace di superare la morte.
Gesù dice "chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in
questo mondo, la conserverà per la vita eterna" (Gv 12,25): la novità che porta Gesù, che forse ancora i
cristiani non hanno ben capito, è che mentre nella religione ebraica, o in ogni
altra religione, la vita eterna era un premio futuro per il buon comportamento
tenuto nel presente, per Gesù la vita eterna non risiede nel futuro (tu ti
comporti bene e dopo la morte come premio hai la vita eterna) ma è una
condizione nel presente. Gesù lo dirà più volte: "chi crede ha la vita
eterna" (Gv 3,15; 3,16; 3,36;
5,24; 6,40; 6,47). Non dice "credi e poi avrai la vita eterna”.
"I vivi non
muoiono, i morti non risorgono". Questa è un’espressione presa dal
Vangelo di Filippo, un testo apocrifo dove c’è scritto: "se non si resuscita prima mentre si è ancora
in vita, morendo non si resuscita più". Cioè la vita eterna o comincia
già in questa esistenza o non c’è più; ecco perché Paolo in alcuni testi che possono
sembrare molto strani, non parla dei credenti come di coloro che
resusciteranno, ma come di coloro che sono già resuscitati. Ad esempio, nella
lettera agli Efesini, Paolo scrive "con lui ci ha anche risuscitati e
ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù" (Ef 2,6): "ci ha anche",
non dice "ci risusciterà". Paolo è convinto che il credente già vive
la condizione dei resuscitati: per Paolo la resurrezione non avviene dopo la
morte, o si risorge quando si è in vita o non si risorge più.
Ancora Paolo dice:
"con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui
anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo
ha risuscitato dai morti" (Col
2,12), oppure "se dunque siete risorti con Cristo" (Col 3,1): quindi la vita eterna non è un
premio nell’aldilà, ma una condizione nel presente. Già adesso, in questa
esistenza, il credente ha una vita di una qualità tale - è la qualità divina -
che è indistruttibile e capace di superare la morte: il termine
"eterna" non si riferisce tanto alla durata ma alla qualità, è una
vita che provenendo da Dio è di una qualità tale che neanche la morte riuscirà
a distruggerla.
Note: 1. In nessuna parte
dell’AT o del NT si parla di Purgatorio (come non si parla di Inferno o di
Paradiso, per quest’ultimo almeno nel senso che gli viene attribuito
attualmente). L’idea di pena temporanea per l’accesso al Paradiso sorse nel
pensiero popolare dell’XI secolo come conseguenza delle morti avvenute prima di
aver finito le lunghe penitenze che, in quel periodo, era tradizione imporre
dopo la confessione: se il penitente moriva prima di aver finito la penitenza,
da qualche parte doveva portarla a termine, da qui la necessità del Purgatorio.
(segue la prossima
domenica)