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Le esegesi riportate in questo blog non sono frutto delle mie capacità, in realtà molto modeste. Le ricavo leggendo diversi testi dei più importanti specialisti a livello mondiale, generalmente cattolici, ma non disdegno di verificare anche l’operato di esegeti protestanti, in particolare anglicani. Se si escludono alcuni miei approfondimenti specifici, per la parte tecnica dell’analisi critica il mio testo di riferimento è questo:

- Giovanni Leonardi
, Per saper fare esegesi nella Chiesa, 2007 Ed. Elledici (testo promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale). Questo testo è molto semplice, veramente alla portata di tutti; per migliorare la capacità di analisi deve essere affiancato da altri due testi per la parte linguistica, anch’essi a livello divulgativo:

- Filippo Serafini,
Corso di greco del nuovo testamento, 2003 Ed. San Paolo.
- Luciana Pepi, Filippo Serafini,
Corso di ebraico biblico, 2006 Ed. San Paolo (da usare solo nel caso si voglia approfondire l’etimologia semitica sottesa ai vocaboli greci).

I testi della Bibbia in lingua originale sono pubblicati da varie case editrici; in particolare per i Vangeli segnalo l'ottimo testo della Edizioni Enaudi e quello sinottico della Edizioni Messagero in quanto hanno i testi greco ed italiano a fronte. Si trovano anche in vari siti in rete, ma non sempre sono testi aggiornati con le ultime scoperte a livello archeologico o paleografico.
Per la parte sostanziale normalmente faccio riferimento a documenti prodotti dalle fonti seguenti, che riporto in ordine decrescente di frequenza di utilizzo:

- École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), retto dai Domenicani e dove ha lavorato anche il Card. Martini.
- Centro Studi Biblici “G. Vannucci” – Montefano (An), retto dall’Ordine dei Servi di Maria.
- Sito www.Nicodemo.net gestito da P. Alessandro Sacchi.
- Università degli studi di Torino – Corso di Letteratura cristiana antica – Prof.essa Clementina Mazzucco.
- Fr. Dante Androli, OSM, docente di esegesi alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum – Roma
- Università degli studi La Sapienza di Roma – Corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Prof.essa Emanuela Prinzivalli.
- Biblia, Associazione laica di cultura biblica – Settimello (Fi)


lunedì 1 aprile 2013

Domenica 7 aprile 2013 – II Domenica di Pasqua

Gv 20,19-31

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.

Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».

Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».

Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».

Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

 

Povero Tommaso! Con questo brano Giovanni lo ha additato per l'eternità come il capostipite di tutti coloro che non credono se non fanno un'esperienza diretta di un fatto. E dire che era chiamato Didimo, gemello, perchè la pensava sempre come Gesù al punto da essere disposto a pagare di persona questo fatto(1). O, forse, Giovanni lo ha scelto proprio per questo.

La presenza di Tommaso vi è solo nel testo giovanneo(2) per cui viene spontaneo chiederci prima di tutto quale scopo ha questo racconto: il racconto è stato scritto presumibilmente verso l'anno 100 d.C. dalla scuola giovannea probabilmente in Efeso; questo già ci fa capire quale era l'ambiente nel quale si era sviluppato e quali erano le problematiche che investivano la giovane chiesa cristiana in quegli anni. Prima fra tutte l'influenza della filosofia greca: è vero che la scuola giovannea aveva già assorbito al suo interno parti della filosofia gnostica come dimostrano le contrapposizioni luce/tenebre, bene/male oppure la descrizione "sui generis" della eucaristia ("…chi mangia la mia carne…" Gv 6,54-56) proprie del vangelo di Giovanni. Ma ora l'attacco veniva da un colosso della filosofia che minacciava alla base il cristianesimo: la dottrina di Platone(3) con la sua divisione della persona in corpo e anima che cozzava contro il concetto unitario di individuo proprio del messaggio di Gesù e di conseguenza contro il concetto stesso di risurrezione così come era stato enunciato da Paolo nella lettera agli abitanti di Corinto(4) cinquant'anni prima.

Bisognava quindi contrapporre all'immagine di un Cristo solo spirito proposta dal platonismo un'altra immagine che riproponesse con evidenza il concetto di ri-creazione, di nova creazione connesso all'evento risurrezione. L'idea di far svolgere tale funzione a Tommaso, visto il rilievo che tale figura ha avuto nei secoli, è stata sicuramente vincente.

 

L'apparizione di Gesù a Maria Maddalena(5) aveva avuto un carattere personale ed era finalizzata a preparare i discepoli all'incontro con lui. Prima di vederlo essi dovevano sapere che egli era ormai salito al Padre per prendere possesso in modo pieno e definitivo delle sue prerogative di mediatore finale della salvezza. In questa veste egli si presenta ora ai discepoli per conferire loro, insieme al mandato missionario, anche il dono dello Spirito che li guiderà nel loro cammino.

L'evento ha luogo nello stesso giorno della risurrezione, cioè il primo dopo il sabato: si tratta dunque del primo giorno della settimana, che, come l'inizio della creazione, segna la nascita di un mondo nuovo. È anche il giorno dell'assemblea cristiana.

I «discepoli» non sono semplicemente i Dodici (ora ridotti a undici), ma tutti i seguaci di Gesù, sia attuali che futuri: infatti Giovanni sa distinguere, quando lo ritiene opportuno, i Dodici da tutti gli altri (cfr. Gv 6,66-67).

Sebbene le porte del luogo in cui si trovano i discepoli siano chiuse per timore dei giudei, Gesù non ha difficoltà a entrare: egli "si ferma" (estê, stette in piedi) in mezzo a loro, inizio questo di un nuovo modo di stare con loro diverso da quello precedente la sua morte in croce. Presentandosi in mezzo ai discepoli, egli dice loro: "Pace a voi" (shalôm). Questo saluto è tipico del costume ebraico(6); ma fra poco apparirà che con esso egli intende esprimere qualcosa di più di un semplice saluto.

Dopo essersi presentato ai discepoli, Gesù mostra loro le mani e il costato. Con questo gesto egli intende non soltanto dimostrare la realtà della sua presenza, ma anche ricordare come sia proprio in forza della sua morte in croce che egli si presenta a loro nella sua nuova realtà. In questo momento, in cui Gesù sta per dare lo Spirito ai suoi discepoli, l'evangelista non può non ricordare che dal fianco squarciato del crocifisso erano usciti sangue ed acqua, simbolo dello Spirito (cfr. Gv 19,34-37).

L'apparizione di Gesù provoca nei discepoli una reazione di profonda gioia: non si tratta semplicemente della soddisfazione di rivedere in vita una persona cara, ma piuttosto della gioia escatologica, strettamente collegata con la pace, che la presenza di Gesù porta con sé, in quanto significa l'adempimento della salvezza.

L'evangelista non dà altri dettagli circa l'apparizione del Risorto, ma si limita a riferire il messaggio da lui rivolto ai discepoli. Anzitutto Gesù ripete il saluto: "Pace a voi". L'usuale formula di saluto diventa qui espressione di un dono che ha per oggetto la pace, promessa da Gesù durante l'ultima cena (cfr. Gv 14,27) e attuata in forza della sua morte: si ricordi che la pace in senso biblico implica la piena riconciliazione degli uomini con Dio e tra di loro.

Egli poi prosegue: "Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi". Il dono della pace non riguarda solo i discepoli, ma deve essere esteso a tutta l'umanità. Perciò si giustifica il loro invio, che è chiaramente universale: esso infatti non è solo modellato su quello che era stato l'invio di Gesù da parte del Padre, ma ne è anche e soprattutto la conseguenza e il prolungamento. Si attuano così le parole con cui Gesù, nell'ultima cena, ha affidato ai discepoli il compito di continuare nel mondo l'opera da lui attuata nella sua morte (cfr. Gv 13,20; 17,17-19).

Gesù poi, alitando sui discepoli, conferisce loro lo Spirito. Anch'esso era stato promesso nei discorsi della cena (cfr. Gv 14,16-17.26; 15,26; 16,13): il gesto di alitare (emphysaô), che è suggerito dal termine «Spirito» (pneuma, soffio), richiama il racconto della creazione del primo uomo, che è diventato un essere vivente solo in forza del soffio divino (Gen 2,7), suggerendo così nuovamente che la venuta dello Spirito rappresenta una nuova creazione. Lo Spirito viene direttamente da Gesù, rappresenta quindi la potenza di Dio che promana dalla sua persona, dalla sua opera e dalla sua morte in croce, dove egli «ha dato lo Spirito» (Gv 19,30). Solo lo Spirito è in grado di assimilare profondamente i discepoli al Maestro, mettendoli in piena sintonia con le sue aspirazioni e i suoi progetti.

Come conseguenza di questo dono egli dà ai discepoli il potere di rimettere i peccati: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi».

Giovanni fa uso a modo suo di questo antico detto per delineare il compito che i discepoli, guidati e animati dallo Spirito, dovranno portare a termine in questo mondo: in sintesi essi dovranno rendere presente la salvezza operata da Cristo, significata nel termine "pace", che comporta l'eliminazione del peccato e la riconciliazione di tutti gli uomini con Dio e tra di loro.

Non si dice in che modo dovranno attuare il mandato di Gesù, ma si suppone che essi dovranno farlo secondo le modalità da lui adottate, cioè mediante l'annunzio, l'insegnamento, l'esempio, impegnandosi per la formazione di comunità vive in cui tutti fanno l'esperienza dei nuovi rapporti instaurati da Gesù(7). Solo in seguito, il brano sarà letto, come spesso hanno fatto i padri e i teologi nei secoli successivi, in riferimento ai sacramenti che significano e attuano il perdono (battesimo e confessione8).

L'ultimo degli eventi connessi con la risurrezione di Gesù consiste in una sua seconda apparizione ai discepoli. L'evangelista racconta che al momento della prima era assente uno dei dodici, Tommaso detto Didimo. Egli apparteneva al gruppo dei Dodici, anche se in questo momento essi sono rimasti solo in undici.

Sentendo che gli altri "avevano visto il Signore", egli, invece di unirsi a loro nella fede, afferma: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò» Questa frase rispecchia stranamente le parole alquanto critiche dette da Gesù al funzionario regio: «Se non vedete segni e prodigi, non credete» (Gv 4,48).

Per Tommaso, però, il desiderio di fare un'esperienza personale e diretta del Risorto, come l'avevano fatta gli altri discepoli, è legittimo, in quanto anche lui, insieme con loro, dovrà testimoniare quello che ha visto. Esso è criticabile solo nella misura in cui diventa una pretesa, a cui per di più si unisce la richiesta non solo di vedere, ma anche di toccare le ferite dei chiodi e della lancia. Il suo comportamento si contrappone a quello dei primi due discepoli che, andati al sepolcro, avevano creduto, pur senza aver visto il Signore in carne ed ossa (cfr. Gv 20,8). 

Esattamente otto giorni dopo la Pasqua, quindi nuovamente in giorno di domenica, Gesù, come la prima volta, riappare ai discepoli e li saluta nello stesso modo: "Pace a voi". Questa volta è presente tra loro anche Tommaso. È a lui che Gesù si rivolge direttamente con queste parole: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente!» Con queste parole Gesù dimostra di conoscere, come aveva fatto con Natanaele (cfr. Gv 1,47-51), che cosa il discepolo desiderava fare. Egli non critica Tommaso per la sua richiesta, anzi si dichiara disponibile a soddisfarla. Per l'evangelista il fatto che Tommaso, incredulo com'era, abbia potuto vedere e toccare il corpo di Gesù risorto è chiaramente una conferma della sua realtà.

Alle parole di Gesù Tommaso risponde: «Mio Signore e mio Dio». Quando Gesù gli appare, egli non sente più il bisogno di toccare le sue ferite, ma subito, come gli altri, passa dall'incredulità alla fede più piena. Anzi la confessione di fede, con cui attribuisce a Gesù i due nomi divini per eccellenza di Signore (dal greco kyrios, traduzione dell'ebraico adonai) e di Dio (greco: theos, ebraico: 'elohîi) (cfr. Sal 35,23), è in certo modo la sintesi di tutto ciò che l'evangelista ha voluto dire della persona di Gesù, a cominciare dalle prime parole del prologo (Gv 1,1: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio") fino all'affermazione secondo cui chi vede Gesù vede il Padre (Gv 14,9).

Gesù allora conclude: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!».

Tommaso è dunque entrato nel gruppo di coloro che, avendo visto, hanno creduto. Le parole di Gesù non rappresentano certo una critica nei confronti di coloro che appartengono a questa categoria, ma piuttosto esprimono un grande apprezzamento per tutti quelli che, pur non avendo avuto un'esperienza diretta di Gesù, hanno creduto sulla parola dei testimoni oculari (cfr. Gv 17,20).

L'evangelista pensa qui ai suoi lettori, i quali, essendo privi dell'esperienza diretta di Gesù, possono pensare di essere cristiani di seconda categoria: ad essi egli, con le parole del Risorto, dice di non temere, perché non sono inferiori a quelli che l'hanno visto e toccato, anzi li superano, in quanto dimostrano di avere una fede più grande della loro. 

Negli ultimi due versetti del capitolo l'evangelista dice in sintesi i motivi che l'hanno spinto a scrivere il suo vangelo: "Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi poi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome" (Gv 30-31). Questa frase si ricollega sia alla conclusione del "Libro dei segni" (cfr. Gv 12,37), sia alle ultime parole rivolte da Gesù a Tommaso: se è vero che si può giungere alla fede senza aver visto, è necessario però che, perché ciò avvenga, qualcuno riferisca i segni mediante i quali Gesù ha chiamato alla fede i primi discepoli.

La fede a cui l'evangelista vuole condurre i suoi lettori ha per oggetto Gesù, in quanto Cristo e Figlio di Dio. Attraverso i suoi segni, ognuno è chiamato dunque a riconoscere in lui, come avevano fatto i primi discepoli (cfr. Gv 1,41.49), il Messia inviato da Dio e a lui unito mediante un rapporto unico e filiale. Unendo così i due titoli l'evangelista collega la speranza messianica di Israele con la comprensione che i cristiani hanno avuto di Gesù in quanto Figlio unico e trascendente, nel quale il Padre si è manifestato pienamente. Questa fede ha lo scopo di conferire a chi ne è dotato il dono salvifico della vita eterna: essa non consiste dunque in una adesione puramente intellettuale, ma implica un coinvolgimento di tutta la persona nel rapporto strettissimo che unisce il Figlio con il Padre.

Nel racconto dell'apparizione di Gesù ai discepoli, Giovanni collega strettamente il mandato missionario con l'infusione dello Spirito, che Luca riserva al giorno di Pentecoste. È chiaro che non si tratta di due eventi diversi, ma di diverse formulazioni della stessa realtà. Quella giovannea mette più chiaramente in luce il significato cristologico dello Spirito, sottolineando come esso provenga da Dio per mezzo del Risorto e tenda a rendere vivo e operante nell'intimo dei discepoli il suo progetto di salvezza. Mediante la venuta dello Spirito si attua così quanto era stato preannunziato dalle grandi profezie dell'AT, prima tra tutte quella di Ez 36,27, collegata con Ez 37,1-14.

La missione che Gesù conferisce ai discepoli viene chiaramente delineata nel quarto vangelo come eliminazione del peccato e instaurazione della pace non solo in Israele ma in tutta l'umanità. Pace e perdono sono due temi strettamente collegati in tutto l'AT, dove rappresentano la rimozione delle barriere che separano gli uomini tra loro e nei confronti di Dio.

Il compito di attuare il perdono si concretizza nella comunità cristiana, formata da persone che, mediante i profondi legami interpersonali che si realizzano tra loro mediante la fede, fanno l'esperienza della riconciliazione e la attestano al mondo. In questa prospettiva è chiaro che il potere di perdonare viene affidato non solo agli undici discepoli rimasti fedeli a Gesù, ma anche a tutti coloro che aderiranno a lui mediante la fede. L'idea di una funzione riservata agli apostoli e da loro trasmessa ai loro successori è chiaramente legato a una concezione elaborata in un periodo posteriore(9), che non deve essere letta anacronisticamente nel testo giovanneo.

Il perdono dei peccati presuppone la fede in Gesù, accettato e proclamato come Cristo e come Figlio di Dio. Questa fede però non consiste nella semplice accettazione di due titoli cristologici, ma nel riconoscere ciò che essi significano, e cioè la centralità della proposta cristiana nel progetto di Dio. A questa fede conduce l'esperienza fatta dai primi testimoni a contatto diretto di Gesù e il racconto che ne hanno fatto mediante la loro predicazione e mediante il vangelo giovanneo. Tuttavia questo annunzio non nasce dal nulla, ma è già presente e radicato nel cuore umano, al punto tale che non sono necessarie delle prove per credere in lui. La sua parola, riferita dai discepoli, si attesta da sola, in quanto risveglia esigenze e attese presenti nel cuore di ogni persona. La centralità dell'opera di Gesù per i cristiani non esclude, anzi esige, la presenza universale del suo messaggio, attestata chiaramente nel prologo del vangelo.

 

Note: 1. Di lui Giovanni aveva già parlato quando, in seguito alla morte di Lazzaro, aveva commentato la decisione di Gesù di recarsi a Betania dicendo: «Andiamo anche noi a morire con lui» (Gv11,16). – 2. Il resoconto giovanneo si avvicina a quello della tradizione sinottica, specialmente come è riportata da Luca (24,36-49), con il quale ha in comune alcuni elementi specifici: l'aspetto corporeo di Gesù, la gioia, la missione, la remissione dei peccati, il dono dello Spirito. Il testo di Luca, di pochi anni più giovane, dimostra che l'influenza platonica stava facendo breccia da tempo. – 3. La Chiesa cristiana (e cattolica in particolare) ha sempre duettato con la filosofia platonica: si ricorda qui l'influenza di Plotino nel III secolo con l'introduzione del concetto che il corpo è la parte immonda dell'individuo (con buona pace dell'incarnazione di Gesù) generando così un movimento sessuofobo, mai presente nei vangeli, che ancora oggi crea profondi disagi ai fedeli. Ma si ricorda anche il movimento neo platonico del XIX secolo che ha portato non solo ad una diversa interpretazione dei comandamenti, ma addirittura alla modifica del testo di alcuni per adeguarli al pensiero del movimento. Ne è esempio il VI comandamento che da "Non commettere adulterio", nel catechismo di Pio X divenne "Non commettere atti impuri" stravolgendone il significato originale. Infatti L'ebraico na'af ha un senso più ampio che non il tradimento della fedeltà cui gli sposi sono tenuti; na'af non è solo l'adulterio ma qualsiasi adulterazione del comportamento dell'uomo o della donna, nei loro rapporti con gli altri o con se stessi. Il nef è perciò un adultero, un corrotto, un corruttore, un truffatore, un traviato, un dissoluto portato a ogni comportamento indebito o sleale (A. Chouraqui, Il mio testamento.Il fuoco dell'alleanza, Queriniana, Brescia 2003, p. 126). – 4. 1Cor 15, 35.53: "Ecco io vi annunzio un mistero: non tutti, certo, moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati. È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità". – 5. Quanto segue è liberamente tratto da una esegesi pubblicata su NICODEMO.NET. – 6. Il significato di questo saluto nella cultura ebraica va al di là di quello che è il significato etimologico della parola pace; con questa parola si augura all'oggetto del saluto la prosperità materiale, figli maschi numerosi, una moglie operosa e una morte "sazio di anni", quindi una vita in accordo con Dio e con gli uomini. – 7. La Celebrazione Comunitaria del sacramento della Riconciliazione tramite la lettura ed il commento di un brano di vangelo, in sostituzione della formula tridentina (vedi Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1482), parte esattamente da questa constatazione teologicamente molto importante. Sottolineo il rammarico che questa modalità celebrativa sia quasi mai applicata nelle parrocchie italiane in contrapposizione a quanto fatto in quelle estere (ho avuto esperienze dirette in Francia, Svizzera, Olanda, Germania ed in USA) ove spesso è affiancata anche dalla assoluzione dall'altare, visto l'esiguo numero di sacerdoti esistente. E la partecipazione dei fedeli è imponente, specie se paragonata a quanto accade in Italia. – 8. Penso sia opportuno ricordare che la frase: "a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati" non va intesa come una facoltà dei discepoli (che, del resto, sarebbe in contrasto con altre parole di Cristo e con il Padre Nostro) ma un avvertimento che sottolinea una responsabilità che tutti noi abbiamo nei confronti degli altri in caso di un nostro rifiuto al perdono. – 9. Nei primi secoli, quando un fedele peccava in modo scandaloso o addirittura pubblico (generalmente si trattava di omicidio, adulterio e abiura), veniva messo "fuori comunione" dalla comunità cristiana. Qualora egli avesse voluto "tornare in comunione", doveva umiliarsi e confessare pubblicamente davanti a tutta la comunità la sua colpa e chiederne il perdono. Dopo le grandi persecuzioni molti fedeli che, per paura delle sofferenze, avevano "abiurato" (cioè avevano rinnegato la fede), domandarono di essere riammessi nella chiesa: fu a questo punto che si chiese loro di fare una confessione pubblica, che con l'andar del tempo, si modificò comprendendo non solo il peccato di abiura, ma anche altri peccati. Di questo è rimasta traccia nel "confiteor" presente nella liturgia della messa. Nel 450 d.C. papa Leone Magno proibì la confessione pubblica e la sostituì con quella privata al sacerdote; in merito S. Agostino (354-430 d.C.) aveva già espresso parere negativo: "perché esporre agli uomini le piaghe della mia anima? E' Lo Spirito Santo che rimette i peccati; l'uomo non lo può fare, perché ha bisogno del "medico" al pari di chi cerca in lui il "rimedio"…E se mi dici: "come si adempie la promessa di Cristo fatta agli Apostoli "tutto quello che scioglierete in terra sarà sciolto nel cielo", rispondo che il Signore prometteva di mandare il suo Spirito dal quale dovevano essere rimessi i peccati. Or e' o Spirito di Dio, dunque, che rimette i peccati e non voi uomini!" (Serm. 99 de Verb. Evang. Luca 7). C'è da aggiungere che sulla base degli studi sui modi di dire ebraici sviluppati nel XX secolo, si è scoperto che la frase "tutto quello che scioglierete in terra sarà sciolto nel cielo" era la formula con la quale il Sommo Sacerdote ebraico conferiva l'autorizzazione ad uno scriba di interpretare la Bibbia e quindi Gesù, pronunciandola, autorizzava i propri discepoli a spiegare la Parola di Dio ai fedeli e nulla aveva a che fare con il Sacramento della Riconciliazione. Nel 1215 il IV Concilio Lateranense, regnante papa Innocenzo III, decretò la confessione un sacramento obbligatorio per tutti, cosa che sollevò l'opposizione violenta della maggioranza dei cattolici del tempo, clero e laici (vedi H. C. Lea, Storia della confessione auricolare e delle indulgenze nella Chiesa latina, 1911, p. 211).