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Le esegesi riportate in questo blog non sono frutto delle mie capacità, in realtà molto modeste. Le ricavo leggendo diversi testi dei più importanti specialisti a livello mondiale, generalmente cattolici, ma non disdegno di verificare anche l’operato di esegeti protestanti, in particolare anglicani. Se si escludono alcuni miei approfondimenti specifici, per la parte tecnica dell’analisi critica il mio testo di riferimento è questo:

- Giovanni Leonardi
, Per saper fare esegesi nella Chiesa, 2007 Ed. Elledici (testo promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale). Questo testo è molto semplice, veramente alla portata di tutti; per migliorare la capacità di analisi deve essere affiancato da altri due testi per la parte linguistica, anch’essi a livello divulgativo:

- Filippo Serafini,
Corso di greco del nuovo testamento, 2003 Ed. San Paolo.
- Luciana Pepi, Filippo Serafini,
Corso di ebraico biblico, 2006 Ed. San Paolo (da usare solo nel caso si voglia approfondire l’etimologia semitica sottesa ai vocaboli greci).

I testi della Bibbia in lingua originale sono pubblicati da varie case editrici; in particolare per i Vangeli segnalo l'ottimo testo della Edizioni Enaudi e quello sinottico della Edizioni Messagero in quanto hanno i testi greco ed italiano a fronte. Si trovano anche in vari siti in rete, ma non sempre sono testi aggiornati con le ultime scoperte a livello archeologico o paleografico.
Per la parte sostanziale normalmente faccio riferimento a documenti prodotti dalle fonti seguenti, che riporto in ordine decrescente di frequenza di utilizzo:

- École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), retto dai Domenicani e dove ha lavorato anche il Card. Martini.
- Centro Studi Biblici “G. Vannucci” – Montefano (An), retto dall’Ordine dei Servi di Maria.
- Sito www.Nicodemo.net gestito da P. Alessandro Sacchi.
- Università degli studi di Torino – Corso di Letteratura cristiana antica – Prof.essa Clementina Mazzucco.
- Fr. Dante Androli, OSM, docente di esegesi alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum – Roma
- Università degli studi La Sapienza di Roma – Corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Prof.essa Emanuela Prinzivalli.
- Biblia, Associazione laica di cultura biblica – Settimello (Fi)


giovedì 13 agosto 2015

Ventesima Domenica del Tempo Ordinario



XX Domenica del Tempo Ordinario – Gv 6,51-58

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Il brano di questa domenica è la conclusione del lungo discorso di Gesù che, secondo Giovanni, segue l’episodio della moltiplicazione dei pani.
E’, in buona sostanza, una ripresentazione dei temi già formulati, secondo una consuetudine che gli scrittori del tempo avevano per sottolineare concetti di grande importanza: ripeterli in modo quasi ossessivo.
“Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».”
In quest’ultima affermazione(1) il pensiero fa un passo in avanti: il pane che Gesù darà non solo si identifica con la sua persona, ma è la sua stessa carne che deve essere mangiata perché possa comunicare la vita(2).
In questa parte finale del discorso viene approfondita la dimensione eucaristica dell’incontro con Gesù. In primo piano c’è sempre il rapporto interpersonale con lui, attraverso il quale il credente entra in comunione con Dio. Ma qui si sottolinea come questo rapporto è conseguito non più attraverso uno scambio diretto con lui, come avviene tra persone viventi, ma mediante un gesto simbolico, che è quello del mangiare un cibo e nel bere una bevanda che significano la sua presenza viva nella comunità. Il fatto che i due elementi siano identificati con la sua carne e il suo sangue presuppone che i credenti vedano in essi la sua persona, con le sue scelte concrete e i suoi progetti, espressi in modo pieno proprio nel momento in cui carne e sangue si sono separati, cioè nella sua morte.
È chiaro che il discorso tende a mostrare come gli stessi rapporti che i discepoli avevano con Gesù durante la sua vita terrena possono essere mantenuti anche dopo la sua morte mediante la partecipazione al rito comunitario della cena.
Nel linguaggio biblico la carne non è altro che la persona umana, vista però in tutta la sua limitatezza e fragilità. In questa frase il verbo dare e la particella per (in greco hyper, in favore di) richiamano il dono di sé che il Servo di Jahwè fa per riportare il suo popolo a Dio (cfr. Is 53,10-11 nella traduzione dei LXX); di conseguenza, nel linguaggio della chiesa primitiva (cfr. Gal 1,4) e dello stesso Giovanni (cfr. Gv 3,16), questi termini indicano la morte di Gesù in croce, il cui scopo è quello di mettere la vita eterna a disposizione del mondo, cioè di tutta l’umanità. L’identificazione del pane della vita con la “carne”(3) di Gesù orienta l’attenzione del lettore al pane che nell’ultima cena Gesù darà ai suoi discepoli come segno del suo corpo. Giovanni però preferisce usare il termine “carne” che per lui indica l’essere umano vivente, mentre parla di “corpo” soltanto in riferimento al cadavere di Gesù (cfr. Gv 19,38.40;20,12).
“Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».”
I giudei esprimono nuovamente la loro incredulità, ma Gesù non risponde alla loro domanda, ma prosegue: “Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita.”
Con queste parole Gesù, invece di attenuare il senso dell’affermazione precedente, ne accentua il carattere realistico sottolineando come per avere la vita sia necessario non solo mangiare la sua carne ma anche bere il suo sangue. Nel linguaggio biblico l’espressione “carne e sangue” designa la persona umana nella sua totalità (cfr. Gv 1,13). Il fatto che la carne sia disgiunta dal sangue rimanda alle parole della cena e più a monte allude da una parte ai sacrifici del tempio, nei quali carne e sangue venivano separati, e dall’altra alla morte di Gesù in croce, interpretata in chiave sacrificale(4). La disgiunzione della carne da mangiare dal sangue da bere comporta una grave provocazione nei confronti del mondo giudaico, per il quale il sangue non poteva essere bevuto (cfr. Gen 9,4: Lv 3,17; Dt 12,16.23-25).
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.”
Con queste espressioni egli non fa altro che ribadire quanto affermato precedentemente, sottolineando che la sua carne è vero cibo e il suo sangue è vera bevanda: il verismo del mangiare, accentuato mediante l’uso del verbo greco trôgein, “masticare”, non elimina però il significato simbolico dell’affermazione. L’effetto di questo mangiare e bere è la vita eterna che appare come una realtà già presente e al tempo stesso futura, in quanto coincide con la risurrezione.
Il significato della vita promessa a chi mangia la sua carne e beve il suo sangue viene ulteriormente specificato da Gesù con queste parole: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per [per mezzo del] il Padre, così anche colui che mangia me vivrà [per mezzo di] per me.” (Tra parentesi quadre le traduzioni secondo me più opportune).
Tra Gesù e colui che mangia il suo corpo e beve il suo sangue, si instaura dunque un’intima comunione di vita, che si modella su quella che unisce Gesù al Padre, anzi ne è la conseguenza e lo sviluppo logico: come il Figlio, che è stato mandato dal Padre, attinge da lui tutta la sua vita, così chi mangia il Figlio attinge da lui quella stessa vita che egli ha ricevuto dal Padre.
Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».”
Con queste parole Gesù, riprendendo espressioni già usate precedentemente, afferma di essere lui il pane disceso dal cielo, perché, diversamente dalla manna, dà una vita che dura eternamente.
In questo brano appare chiaro che nel mangiare la sua carne e nel bere il suo sangue si attua l’incontro con Gesù, che ha lo scopo di stabilire un’intima comunione con Dio, modellata su quella che Gesù ha con il Padre. Dio è la fonte unica della vita che dal Figlio si trasmette ai credenti. Meno sottolineato è invece l’impatto di questa comunione sui rapporti dei credenti tra di loro. Su questo aspetto l’evangelista ritornerà con grande insistenza nei discorsi attribuiti a Gesù nel contesto dell’ultima cena.

Note: 1. L’esegesi di questo brano è stata liberamente presa da un articolo di P. Alessandro Sacchi pubblicato su www.NICODEMO.net  – 2.  Nelle concezioni filosofiche esistenti nell’oriente alla fine del primo secolo aveva un’importanza notevole la concezione gnostica (parola derivata da un verbo greco che significa “conoscere”). Per lo gnostico acquisire il pensiero di un altro, comprenderne le ragioni profonde di quello che afferma è un po’ come cibarsi di lui: il messaggio che questa persona trasmette è come un cibo, come il “pane”. – 3.  E’ opportuno sottolineare che l’uso di questo vocabolo in Giovanni ha significati del tutto diversi che in Paolo. La carne in Paolo è la parte egoistica dell’uomo (non la parte sessuale come un tempo si riteneva), mentre in Giovanni rappresenta l’intero essere umano. – 4. Questa interpretazione indica con chiarezza l’anno di compilazione di questo vangelo (fine I secolo d.C., inizio II secolo) perché denota l’evoluzione che ha avuto in ambito giudaico-cristiano l’interpretazione della morte di Gesù, da conseguenza dello scontro con i capi della religione ufficiale, ad atto sacrificale ed infine ad atto redentivo.

domenica 9 agosto 2015

Assunzione della Beata Vergine Maria

Assunzione della Beata Vergine Maria (Messa del Giorno) - Lc 1,39-56

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Allora Maria disse:
«L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre».
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Il brano che ci accingiamo a leggere più che descrivere un fatto, produce delle affermazioni teologiche. Per comprenderne il significato dobbiamo ricordarci che Maria è una ragazza di circa 13 anni (forse meno)1, che è incinta di Gesù e che è solo fidanzata e non sposata con Giuseppe2. Sono particolari che a quell’epoca contavano molto.
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.” Quindi Maria, dal nord, dalla Galilea, si mette in viaggio, in fretta verso una città di Giuda, nel sud. Sono all’incirca 150 chilometri se si passa attraverso la Samaria; un po’ di più se si segue la valle del Giordano; ovviamente da fare a piedi3.
In entrambi i casi il percorso è pericoloso; in Samaria i galilei ed i giudei non erano ben visti ed era molto facile rimediare una coltellata. La valle del Giordano è abitata da pastori, gente brutale, abituata a vivere più con le bestie che con gli uomini: uno stupro era il minimo da preventivare. A tutto questo occorre aggiungere che Maria non può contare su nessuno: non può essere accompagnata dal padre o da uno della famiglia perché è in attesa di un figlio senza essere sposata; non può essere accompagnata da Giuseppe perché non sono sposati. Fare un viaggio del genere da sola camminando per quattro giorni e dormendo dove capita è veramente inconcepibile. Forse nemmeno una prostituta si azzarderebbe a compiere un viaggio simile. 
E’ sconcertante quello che Luca sta narrando, è evidente che il racconto, più che descrivere un fatto storico, vuole affermare una verità teologica: il collegamento, nel piano di Dio, tra Giovanni (il Battista, il precursore, l’Elia atteso) e Gesù.
Inoltre Maria è spinta dalla fretta: l’evangelista non ci dice quale sia il motivo di questa fretta, probabilmente è una licenza letteraria per sottolineare l’importanza del fatto; comunque Maria, che è stata dichiarata piena di Spirito Santo, inizia una attività all’insegna della fretta e questa attività la mette di fronte a pericoli consistenti.
Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”. Ci saremmo aspettati che all’ingresso nella casa del sacerdote Zaccaria, Maria salutasse il sacerdote. Nella cultura ebraica era l’atto principale, anzi, era l’unico atto che avrebbe consentito a Maria di entrare e rimanere nella casa. Invece anche qui c’è qualcosa che sconcerta: “…salutò Elisabetta”.
E il povero Zaccaria? Il povero Zaccaria è escluso: è stato sordo alla voce di Dio (cfr. Lc 1,18), refrattario allo Spirito; Maria, piena di Spirito Santo, con la vita che trabocca in lei, può dirigere il suo saluto solamente alla parente nella quale ugualmente palpita la vita. “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo…”. L’attività di Gesù sarà definita proprio da questo bambino, da questo personaggio, da Giovanni chiamato il Battista, colui che battezzerà in Spirito Santo, cioè immergerà le persone nello spirito.
Luca quasi anticipa questa attività nella figura di Maria: Maria, piena di Spirito Santo (noi non abbiamo più questa sensibilità, ma il saluto non è soltanto una espressione verbale, è una trasmissione di vita, una messa in comune di vita), con il saluto trasmette lo Spirito Santo ad Elisabetta, ed Elisabetta potremmo dire che è battezzata nello Spirito Santo, cioè è permeata da questo amore di Dio, tanto che il bambino le sussulta, le salta nel grembo.
Elisabetta inaugura, con Maria, la serie delle donne profetesse: essere piena di Spirito Santo significa essere in piena sintonia con Dio e ricordo, per far comprendere il clamore di questa affermazione, che Dio, che nell’AT non si rivolge mai alle donne, qui comunica invece anche alle donne la sua stessa forza e le donne profetizzano.
“…ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto»”.
Quello che dice Elisabetta non è soltanto ammirazione per Maria, ma suona anche disapprovazione per il marito; qui Luca presenta due contrasti: Maria ha creduto a qualcosa che non era mai accaduto nella storia di Israele e si è fidata; Zaccaria, il sacerdote, invece non ha creduto a qualcosa che era già accaduto nella storia di Israele.
Questa beatitudine che si rivolge a Maria suona perciò come un rimprovero al marito. La prima beatitudine che compare nei Vangeli, nel Vangelo di Luca, è rivolta a Maria.
L’ultima beatitudine che compare nei Vangeli, non in Luca, ma nel Vangelo di Giovanni, è probabile possa essere attribuita anche a Maria, anche se non ci sono prove e quindi si è soltanto a livello di ipotesi.
La prima beatitudine è quella che abbiamo appena letto: “beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, qualcosa di nuovo, qualcosa di incredibile.
L’ultima beatitudine che chiude i Vangeli è, in Giovanni, “beati quelli che crederanno senza aver bisogno di vedere”. In Maria potrebbero essere racchiuse queste due beatitudini. E’ beata colei che ha creduto alle parole del Signore e questa fede non le ha creato la necessità di vedere.
Dico questo perché molti autori, credendo di esaltare il ruolo di Maria (specialmente qui in Italia, o nella zona mediterranea, dove tutti sono dei cocchi di mamma) pensano che Gesù, una volta resuscitato, la prima cosa che ha fatto è stata quella di andare dalla mamma4.
Questo è tipicamente italiano, la mamma al di sopra di tutto!
Quindi Gesù resuscitato, secondo questi autori, la prima persona alla quale si faceva vedere era la mamma: dai Vangeli però, le apparizioni di Gesù sono sempre per le persone tarde e dure di testa, di comprendonio. Le apparizioni sono sempre accompagnate da un rimprovero: perché non avete creduto, gente di poca fede?
Credo quindi che far apparire Gesù resuscitato a Maria non significa esaltare il ruolo di Maria, ma diminuirlo o perlomeno escludere Maria dall’ultima beatitudine, beati quelli che credono senza aver bisogno di vedere; questa, ripeto, è una ipotesi, una proposta di studio.
La visita di Maria a Elisabetta è l’occasione della prima manifestazione dello Spirito su Giovanni e l’inizio della sua missione già nel grembo di sua madre; è anche il momento della manifestazione dello Spirito su Maria, la quale viene proclamata beata a motivo della sua fede ed esprimerà nel Magnificat il suo animo ricolmo di gioia.
Per quanto riguarda il Magnificat sono particolarmente interessanti le somiglianze con il cantico di Anna (1Sam 2,1-10). Numerosi sono anche i paralleli con brani della letteratura intertestamentaria: nel IV libro di Esdra, ad esempio, il popolo di Dio è personificato in una donna desolata che, dopo la prova, esprime così la sua riconoscenza: «Dio ha esaudito la sua schiava, ha visto la mia vergogna (la mia umiliazione)... e mi ha dato un figlio» (4Esd 9,45; cfr. 1Sam 1,11). La preghiera di Maria5 si divide in tre strofe ritmate, riguardanti rispettivamente il privilegio concesso a Maria stessa (vv. 46-50), il modo di agire di Dio nella storia (vv. 51-53) e la sua fedeltà a Israele (vv. 54-55).
Nella prima strofa Maria si rivolge a Dio come suo «salvatore» e gli esprime la sua esultanza e la sua lode per i benefici di cui l’ha colmata. Il primo motivo di questa esultanza consiste nel fatto che egli «ha rivolto il suo sguardo» su di lei, cioè ha operato una scelta privilegiando proprio a favore di colei che, per la sua «bassezza» (tapeinôsis), può essere paragonata a una schiava: il motivo della schiava che si apre alla chiamata di Dio era già apparso nella risposta di Maria all’angelo (cfr. 1,38).
Maria fa poi una considerazione generale circa il suo futuro destino affermando che, in forza della chiamata divina, d’ora in poi tutte le generazioni la diranno beata: l’esaltazione di Maria si estenderà dunque senza limiti di tempo e di spazio. Il testo gioca sulla contrapposizione tra la bassezza della schiava e la grandezza che il Signore le ha conferito. Da questa constatazione Maria passa poi di nuovo ad esaltare l’iniziativa divina a suo riguardo: il Potente ha fatto per lei grandi cose; con ciò ha dimostrato che il suo nome è santo e che la sua misericordia si estende «a generazioni e generazioni» in favore di quelli che lo temono. La santità del nome divino si manifesta appunto nelle opere che egli compie per la liberazione del suo popolo (cfr Ez 36,20-23), le stesse con le quali rivela la sua misericordia per coloro che sono aperti alla sua azione (cfr. Es 20,6).
Nella seconda strofa il canto di lode si allarga: «Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi». Con queste parole Maria mostra che quanto Dio ha fatto in suo favore non è altro che un esempio di come egli guida le vicende del mondo. Anzitutto Maria esalta la potenza che ha dimostrato stendendo il suo braccio (cfr. per es. Es 6,6) e disperdendo i superbi nei «pensieri» (dianoia) del loro cuore, cioè nei loro progetti di grandezza. Poi prosegue con due parallelismi antitetici in forma chiastica (ab-ba): ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili (tapeinous), cioè quelli privi di potere (cfr. v. 48a); ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato a mani vuote i ricchi.
La terza strofa contiene un’esaltazione dell’opera di salvezza che Dio ha attuato in favore del suo popolo: Maria ricorda l’aiuto dato da Dio ad Israele suo servo come manifestazione della sua misericordia e come adempimento delle promesse fatte ai padri: in questa strofa la mente va ancora una volta al tema del servo, che accomuna Maria e Israele; l’accenno alla «discendenza» (sperma) di Abramo non poteva non ricordare al lettore cristiano la figura di Gesù, in funzione del quale erano state fatte le promesse (cfr. Gal 3,16).
Al termine del Magnificat Luca annota: «Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua» (v. 56): in questo modo termina il racconto della visita ad Elisabetta e con esso il dittico degli annunzi. Anche alla fine del secondo dittico si dirà che Giuseppe e Maria sono ritornati a casa loro (2,39). I tre mesi in cui Maria si ferma da Elisabetta, aggiunti ai sei mesi che precedono, fanno supporre che ella fosse presente al momento del parto. Il testo però non dice niente in proposito. L’evangelista non è interessato ai dettagli, ma vuole semplicemente concludere il suo primo dittico prima di iniziare il secondo. Così in 3,19-20 egli ricorda l’incarcerazione di Giovanni e la fine della sua attività di battezzatore prima di affrontare il racconto del ministero di Gesù, che tuttavia comincia proprio con il battesimo di Giovanni. 


Note: 1. Maria, come tutte le donne ebree del suo tempo, è divenuta maggiorenne a undici anni e, a dodici anni al più tardi, ha l’obbligo di sposarsi (Talmud, Nidda M. 6,11). Obbligo, non possibilità: nel mondo ebraico e orientale non è concepibile la figura della donna indipendente e la verginità è una maledizione; senza un marito od un figlio maggiorenne, la donna ebraica è considerata un essere senza testa (cfr. Ef 5, 23). – 2. Ricordo che il matrimonio giudaico non è un atto religioso e nemmeno sociale, ma un contratto tra privati. Lo sposalizio si tiene in casa della donna; raggiunto l’accordo sul prezzo, lo sposo copre con il proprio mantello la sposa e pronuncia la formula “Tu sei mia moglie” e la sposa risponde “Tu sei mio marito”. Con questa semplice cerimonia Maria è divenuta “promessa sposa di Giuseppe”. Dopo un anno, quando la maturità sessuale di Maria lo permetterà, avrà luogo la seconda fase del matrimonio, la convivenza. Ma in questo anno accade il concepimento di Gesù, qualcosa di imprevedibile. – 3. Secondo le usanze ebraiche, alla donna non era concesso l’uso di animali da soma, riservati ai lavori dei campi e quindi agli uomini. Se si pensa di fare riferimento a certe illustrazioni rappresentanti la fuga in Egitto con Maria sull’asino, Gesù in braccio e Giuseppe a piedi che guida l’asimo, si ha una visione edulcorata del mondo ebraico. La rappresentazione reale prevede Giuseppe sull’asino e Maria con Gesù in braccio e sulla testa i bagagli, racchiusi in un grande telo annodato, che segue a piedi. – 4.  Ammesso e non concesso che fosse ancora viva: Maria al momento della crocifissione di Gesù avrebbe dovuto avere circa 42 o 43 anni e la vita media delle donne in Israele a quell’epoca raramente superava i 25 anni. – 5. Molto probabilmente quella che viene dalla Chiesa indicata come preghiera di Maria è, in realtà, la preghiera di ringraziamento di Elisabetta per aver concepito un figlio, lei che era umiliata dall’essere sterile.