Domenica delle Palme
Vangelo
(Mt 21,1-11) - Passione e morte di Gesù (Mt 26,14-27,66)
(si omette il testo della Passione a causa
della sua lunghezza)
Quando furono vicini
a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò
due discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito
troverete un’asina, legata, e con essa un puledro. Slegateli e conduceteli da
me. E se qualcuno vi dirà qualcosa, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma
li rimanderà indietro subito”». Ora questo avvenne perché si compisse ciò che
era stato detto per mezzo del profeta: «Dite alla figlia di Sion: “Ecco, a te
viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia
da soma”».
I discepoli andarono
e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù: condussero l’asina e il puledro,
misero su di essi i mantelli ed egli vi si pose a sedere. La folla,
numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri tagliavano
rami dagli alberi e li stendevano sulla strada. La folla che lo precedeva e
quella che lo seguiva, gridava: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui
che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!».
Mentre egli entrava
in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è
costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di
Galilea».
Analisi
delle cause e delle conseguenze della condanna e della morte di Gesù.
Il
verbo obbedire(1), o il termine obbedienza, non ha diritto di
cittadinanza nei Vangeli. In effetti il verbo obbedire nei Vangeli è citato 5
volte, ma sempre riferito a elementi contrari all’uomo: il vento, il mare, gli
spiriti impuri.
Gesù
non ha mai chiesto ai suoi discepoli di obbedirgli, come mai Gesù ha chiesto ai
discepoli di obbedire a Dio. L’obbedienza non fa parte del lessico evangelico,
ma al posto dell’obbedienza Gesù inaugura la somiglianza: nel Vangelo troviamo
sempre l’invito “siate come il Padre vostro”.
Nell’ebraismo
il credente è colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi. Nel
cristianesimo il credente in Gesù non è spinto a obbedire a nessuno, neanche a Dio,
perché Dio non chiede obbedienza, ma chiede di assomigliargli.
Per
togliere ogni dubbio, partiamo dalla lettera di Paolo ai Filippesi; vi si legge
quest’espressione:
Fil 2,8: umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla
morte e alla morte di croce.
Paolo
vuol dire che Gesù, pur essendo nella condizione di uno che, legittimamente,
può far valere la sua natura di Figlio di Dio, per essere solidale con tutti
gli uomini e per essere “fedele” (questa è la traduzione corretta in luogo di
obbedire, come si vedrà più avanti) al messaggio del Padre, ha scelto di stare
dalla parte degli ultimi, fino all’estrema miseria, all’infamia della morte di
croce, che era il patibolo riservato alla feccia della società.
Il
verbo che è tradotto in italiano con “ubbidire”, nella lingua greca significa:
“rispondere ad un qualcosa che si ascolta”.
Per
esempio, negli Atti degli apostoli, quando Pietro bussò in casa di Maria, una
serva di nome Rode si avvicinò per “sentire” chi era che bussava: il verbo è
tradotto nelle nostre Bibbie con “sentire”, ed è lo stesso verbo che nella
lettera ai Filippesi è stato reso con ubbidire. La frase “essere ubbidiente
fino alla morte”, dovrebbe essere preferibilmente tradotta con “per essere
fedele (per avere risposto al Padre), fino alla morte”.
Ricordo
che, fino a pochi decenni fa, la morte in croce di Gesù era presentata come il
supremo atto di obbedienza di Gesù al Padre. Dio era presentato come una
persona adirata per i peccati compiuti dagli uomini che richiedeva, per
perdonarli, il sangue di una vittima, suo figlio.
Il
Padre era quindi presentato come sede di sentimenti prettamente umani: l’ira,
l’offesa, il desiderio di vendetta, il piacere di vedere soffrire un uomo per
appagare il proprio sentimento di rivalsa.
Sentite
cosa ne pensava un predicatore del 1600:
«In effetti,
non appartiene che a Dio di vendicare le ingiurie: fin tanto che la sua mano non si coinvolge, i peccati non sono puniti che
debolmente: a lui solo appartiene di far giustizia, come si conviene, ai
peccatori; lui solo ha il braccio abbastanza
potente per trattarli secondo il loro merito. A me, a me la vendetta: sì io so ben render loro il dovuto: Mihi vindicta et ego retribuarrì (Rm 12,19). Era necessario, dunque, fratelli miei, che Egli stesso venisse
con tutti i suoi fulmini contro il suo
Figlio; e poiché Egli aveva messo in Lui i nostri peccati, egli doveva porvi anche
la sua giusta vendetta. L'ha fatto, cristiani, non dubitiamone. Per questo il
profeta ci insegna che, non contento di
averlo consegnato alla volontà dei suoi nemici, lui stesso, volendo fare la sua
parte, l’ha colpito e lacerato con i colpi della sua mano potente: Et Dominus voluit conterere eum in infirmitate (Is 53,10). L'ha
fatto, dice, l'ha voluto fare, voluit
conterere: con un disegno premeditato. Giudicate, signori, fin dove arriva il supplizio; né gli uomini
né gli angeli lo possono concepire»
(J. BOSSUET, Per il Venerdì Santo. 26
marzo 1660, Oeuvres oratoires, T. 3, 385).
Scritti
similari se ne possono trovare in ogni epoca.
Ammettiamo
che il desiderio di vendetta di Dio fosse vero e che abbia obbligato Gesù ad
accettare la sua morte nella mostruosa sofferenza della croce; questo fatto
sarebbe in netto contrasto con la figura di Dio amore, di quel Dio che Gesù in
tutta la sua predicazione ha presentato come talmente innamorato dell’uomo da
perdonarlo ancor prima che lui lo chieda. Se il Padre ha chiesto a Gesù di
obbedire e lasciarsi uccidere, tutti i Vangeli sono un falso, un enorme ammasso
di menzogne.
Ciò nonostante bisogna convenire che quanto sopra detto(2)
“…esprime bene l'immaginario dei credenti e il modo di pensare ancor oggi il
senso della morte di Gesù, come un atto dell'ira vendicativa di Dio che
vuoi riparare la sua giustizia offesa dal peccato. Gesù, allora, diventa il sostituto o il sacrificio espiatorio
dell'ira di Dio che noi ci siamo meritati. Egli si assoggetta
spontaneamente a portare la pena per riparare la giustizia divina, perché noi siamo risparmiati, a motivo della
comune partecipazione alla umana natura, dalla misericordia del medesimo Dio.
Così in Dio la giustizia e la
misericordia sono egualmente soddisfatte …”.
Ma
anche esaminata da questo punto di vista, rimane la visione di un Dio
sanguinario, più un dio pagano, che il Dio di Gesù.
Chiariamo
immediatamente una cosa: Gesù è stato ucciso perché il gruppo dirigente dello
stato ebraico di allora ha ritenuto indispensabile eliminarlo per conservare il
proprio potere(4) e i propri introiti economici. La morte di Gesù
non era nelle intenzioni originarie di Dio anche se è stata, come vedremo, una
scelta cosciente di Gesù.
L’azione di Gesù, durante gli ultimi tre anni della sua vita, è
stata caratterizzata da un ripetuto scontro con le autorità religioso-politiche
ebraiche(4). Con i suoi atti ha ripetutamente messo in discussione
tutto l’insieme dei precetti rituali che erano la base della vita, religiosa e
civile, della società israelita. Ha soprattutto liberato i credenti
dall’obbligo della mediazione sacerdotale; Cristo ha indicato come al credente è
possibile rivolgersi al Padre senza l’intermediazione del Tempio e quindi dei
sacerdoti.
Per comprendere la
gravità di questo messaggio occorre comprendere com'era l'istituzione religiosa
giudaica, che si basava tutta sul concetto di un Dio che continuamente
chiedeva, un Dio mai sazio. Naturalmente, le offerte non andavano a Dio, ma
andavano a riempire la tasca e la pancia dei sacerdoti.
Le persone per essere
gradite a Dio dovevano, tre volte all'anno, fare un pellegrinaggio a
Gerusalemme, portare in offerta alimenti, specialmente offerte di bestiame; con
il tempo questo era diventato un grande affare commerciale.
Pensate, a titolo di
esempio, ad un abitante di Nazareth che doveva andare a Gerusalemme: data la
distanza non si portava dietro l'agnello o la capra da sacrificare al Tempio,
ma lo comperava a Gerusalemme.
L'appalto per la
vendita degli animali per i sacrifici, che tra l’altro dovevano essere degli
animali perfetti, secondo quanto indicato dalla Legge, l'aveva la famiglia del
sommo sacerdote. L'uomo arrivava, comperava l'animale sul monte degli Ulivi,
dove c'era un accampamento col bestiame da vendere, lo portava al Tempio dove
veniva sacrificato; con questo atto la persona riceveva, o almeno credeva di
ricevere, il perdono delle sue colpe, dei suoi peccati(5).
Nel sacrificio
normale si donava a Dio il sangue e gli organi interni della vittima che
venivano bruciati sull’altare. La parte rimanente dell'animale veniva spartito
fra i sacerdoti. Siccome c'era un esubero di produzione, la carne che avanzava
veniva venduta nelle macellerie di Gerusalemme, tutte appartenenti alla
famiglia del sommo sacerdote. Perciò, il poveretto che andava al pellegrinaggio
si trovava a pagare praticamente tre volte lo stesso agnello se voleva poi
mangiare.
Proviamo ad
immaginare la ripercussione nel Tempio della novità assoluta di un Dio che non
chiede più sacrifici. È il crollo dell'istituzione, è il crollo dell'economia
di Gerusalemme. Ecco perché, all'inizio del Vangelo di Matteo, quando viene
dato l'annuncio della nascita di Gesù si legge che tutta Gerusalemme tremò (Mt2,3). Perché se veramente Dio non sta
più nel Tempio, se Dio non chiede più sacrifici, crolla tutta l'istituzione,
crolla tutto quanto.
A questa
spina nel fianco della classe dirigente ebraica, si deve aggiungere l’invito di
Gesù, rivolto al popolo, a ragionare con la propria testa, cosa mai gradita da
qualsiasi governo(6).
Il
Sinedrio(7) aveva condannato Gesù molto tempo prima di catturarlo,
come si legge sul Talmud(8), e per quaranta giorni il banditore
aveva percorso le strade di Gerusalemme annunciando la sua condanna. Gesù
sapeva sicuramente di questa condanna, ma non fugge, anzi, compie un atto
clamoroso: fa il suo ingresso in Gerusalemme tra due ali di folla esultante.
Perché? Per capirlo andiamo a leggere il Vangelo di Giovanni (12,20-36):
Tra
quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c’erano anche alcuni
Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli
chiesero: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo
andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose: «È giunta l’ora che sia glorificato il
Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in
terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la
sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la
vita eterna.
Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà
anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà. Ora l’anima mia è
turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono
giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal
cielo: «L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!».
La folla che era presente e aveva udito diceva che era
stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Rispose Gesù:
«Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo
mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io, quando sarò
elevato da terra, attirerò tutti a me». Questo diceva per indicare di qual
morte doveva morire. Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla
Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio
dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?». Gesù allora
disse loro: «Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la
luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa
dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce».
Gesù disse queste cose, poi se ne andò e si nascose da
loro.
Gesù è
solo; è al termine della sua predicazione, della sua vita in mezzo alle folle e
si rende conto della sua sconfitta: tutta la sua opera non è servita a nulla.
Gli unici che lo seguono, che vogliono conoscerlo, sono greci. Il suo popolo,
Israele, non solo non lo vuole seguire, ma nemmeno ascoltare(9) da
quando si è accorto che Gesù non vuole riconquistare il regno di Israele, ma
vuole insegnare loro a vivere senza la Legge, accogliendo l’amore di Dio.
Gesù è un
fallito, le sue parole si disperdono al vento; in quel momento comprende che
esiste una sola cosa che convincerà i suoi compatrioti della verità racchiusa
nelle sue parole, se egli accetterà di morire a causa delle sue parole.
Finora
era fuggito “per paura dei Giudei”,
si era rifugiato prima in Galilea, poi nel territorio di Tiro e Sidone, ed
infine dai samaritani. Ora non più, ora
entrerà in Gerusalemme sfidando il Sinedrio che lo ha condannato: “È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo.
In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore,
rimane solo; se invece muore, produce molto frutto ….Io, quando sarò elevato da
terra, attirerò tutti a me”.
E’ il
momento della grande decisione, del suo atto di coraggio; ricorda le parole del
profeta Zaccaria (Zac9,9) e vi si
adegua (Mt11,1-10):
“Quando furono vicini
a Gerusalemme e giunsero presso Betfage, verso il monte degli ulivi, disse ai
suoi discepoli: andate nel villaggio davanti a voi e subito troverete un’asina
legata e con essa un puledro: scioglieteli e conduceteli a me …”
Qui si vede più
chiaro che mai che il Vangelo non è cronaca ma teologia, cioè non riguarda la
storia ma la fede. L’evangelista ci sta dando dei precisi segnali: andate
nel villaggio… Quando nei vangeli troviamo l’espressione il villaggio con
l’articolo determinativo ma senza il nome del villaggio indica che la
situazione è di incomprensione del messaggio di Gesù. Il villaggio è il
simbolo della tradizione, il villaggio è nemico delle novità, è il luogo dove
il nuovo viene visto con sospetto, perché vige l’imperativo: Si è sempre
fatto così, perché cambiare?
L’evangelista ha,
inoltre, una ricchezza di particolari riguardo all’asina e al puledro; in
questo caso si rifà al libro della Genesi quando Giacobbe benedice i dodici
figli, i Patriarchi, i capostipiti delle 12 tribù di Israele, e parlando del
più importante, Giuda, che era rappresentato dall’immagine del leone, si dice: “la
benedizione non sarà tolta dallo scettro di Giuda né dal bastone di comando dei
suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e al quale è dovuta
l’obbedienza dei popoli. Egli lega alla vite il suo asinello e alla stessa vite
il figlio della sua asina (Gn49,10-11)”.
L’evangelista ci sta
dicendo che è Gesù il proprietario di questa asina e del suo asinello e questo atto è in riferimento alla profezia
della benedizione di Giacobbe: è giunto il proprietario dell’asina, è giunto
colui che aveva lo scettro del popolo di Israele. L’invito a sciogliere le due bestie significa che si realizza
questa profezia.
“E se qualcuno vi
dirà poi qualcosa rispondete: il Signore ne ha bisogno ma lo rimanderà subito”.
E’ la prima volta che
Gesù riferisce a se stesso il titolo di Signore, Adonai, che era un modo di appellare Dio. Gesù rivendica per sé il
nome di Dio, colui che libera il suo popolo. L’evangelista vede in questo gesto
la conferma di una profezia che era stata censurata dalla tradizione religiosa,
perché era una profezia che non era accettata dai teologi dell’epoca in quanto
parlava di benedizione e non di vendetta.
“Questo avvenne
perché si adempisse la parola del profeta; dite
alla figlia di Sion: ecco il tuo re viene a te, mite, seduto su un’asina con un
puledro, figlio di giumenta”.
L’evangelista qui
riprende liberamente la profezia di Zaccaria, modificando gli aspetti di questa
profezia, che non sono confacenti alla figura di Gesù. Nella profezia si
diceva: esulta grandemente figlia di Sion… l’evangelista scrive
semplicemente: dite alla figlia di Sion… La figlia di Sion è Gerusalemme
e non deve esultare. Gerusalemme, nel Vangelo di Matteo, fin dall’inizio appare
sotto una luce tetra, sinistra.
L’evangelista toglie
il termine esulta perché Gerusalemme ha poco da esultare. Toglie anche il
termine vittorioso perché Gesù non è vittorioso. Quello che invece
prende da Zaccaria è: ecco a te viene il re seduto su un’asina. Gesù ha
scelto per entrare a Gerusalemme non la cavalcatura regale che era la mula o
quella dei principi e condottieri che era il destriero, il cavallo, ma la
cavalcatura normale delle persone comuni. Non è entrato in modo eclatante, ma
su un’asina con un puledro. Un’immagine di una dolcezza e mitezza
straordinarie: un’asina che ha appena partorito il suo puledro.
Gesù con questo gesto
vuole sciogliere questa profezia di un messia che non viene con le armi ma
portando pace, che non viene come conquistatore, ma come un’offerta di vita.
“I discepoli andarono
e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù. Condussero l’asina e il puledro e
misero su di essi i mantelli. E Gesù si sedette sopra. Ma la folla
numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada”.
Qui c’è tutta una
serie di azioni simboliche che vanno comprese riferendoci alla cultura
dell’epoca. Il fatto di condurre significa che sono d’accordo con Gesù:
hanno accettato che Gesù sia il Messia di pace e non il messia violento e
conquistatore: l’espressione di adesione è l’aver messo sugli animali i
mantelli. Il mantello è la parte esterna dell’abbigliamento della persona e
indicava l’individuo stesso.
Quindi Gesù entra in
Gerusalemme nella maniera più semplice, con dei discepoli che hanno accolto
questa sua modalità.
Ma la reazione della
gente non è dello stesso tipo.
La folla vuole un
Messia violento al quale è pronta a sottomettersi. Per questo prendono i
mantelli e li mettono sulla strada. Porre il mantello, che indica la persona
stessa, sulla strada e farlo calpestare dal re e dal suo cavallo significava
accettare di essere sottomessi dal re. Era un atto tipico dell’intronizzazione
di un nuovo re.
Il popolo non vuole
la libertà. Il popolo vuole essere dominato, sottomesso, in cambio della
sicurezza. Mentre i discepoli hanno capito, la folla stende i mantelli sulla
strada “… mentre altri tagliavano i rami degli alberi e li stendevano sulla
strada”.
La tradizione diceva
che il Messia, che nessuno conosceva, si sarebbe rivelato durante una festa
talmente importante che non aveva bisogno di essere nominata, la festa delle
Capanne.
La festa si svolgeva
tra settembre e ottobre. Tutti gli ebrei erano invitati a dimorare per una
settimana sotto delle frasche, in ricordo della liberazione dall’Egitto quando
il popolo dimorò per 40 anni sotto le tende. La folla è questo che vuole. Si
sottomette a lui dimostrando l’attaccamento ad un Messia potente, accettando il
dominio sulle proprie vite; vogliono che Gesù si manifesti come il Messia delle
Capanne. Ecco il perché del taglio delle frasche.
Gesù, così, viene
preso in ostaggio. Non è Gesù che determina il cammino; infatti: “E le folle
che lo precedevano e quelle che lo seguivano gridavano: Osanna al Figlio di
Davide. Benedetto colui che viene nel nome del Signore, osanna nel più alto dei
cieli”.
Gesù è incastrato, è
in mezzo: un gruppo davanti determina la strada che deve percorrere e un altro
dietro lo segue in modo che Gesù non abbia altra scelta. Ecco l’equivoco che
costerà caro a Gesù, o forse era proprio quello che voleva.
Cantano a Gesù, per
il quale ormai le ore sono contate, il salmo 118, il salmo che si cantava per
la festa delle Capanne. Usano l’espressione ebraica Oshannà (forza salvaci) ma
verso chi la usano?... Verso il Figlio di Davide(10).
Le folle che hanno
catturato Gesù lo acclamano dicendo: salvaci, Figlio di Davide. E’
questo che la gente vuole: un messia condottiero che attraverso la violenza e
la spietatezza, conquisti il potere.
“Entrato lui in
Gerusalemme, tutta la città fu scossa dicendo: chi è costui?” Il verbo adoperato
dall’evangelista è lo stesso da cui deriva la parola scisma, terremoto. Quando
Gesù entra in Gerusalemme, la città è terremotata.
Notate il disprezzo e
la paura. Gli abitanti di Gerusalemme non vanno incontro a Gesù: subiscono
questo ingresso del Messia figlio di Davide portato dalla folla. E la città
viene terremotata perché sa che la fine del suo predominio, del suo privilegio
è vicina. Gerusalemme in questo Vangelo viene sempre presentata in una luce
sinistra.
La stella dei magi
non brillerà mai sulla città di Gerusalemme. Gesù risuscitato, in questo
Vangelo, non apparirà mai a Gerusalemme. Gerusalemme è una città di morte ed è
incompatibile con la vita. Bisogna uscire da Gerusalemme se si vuole fare
esperienza del Cristo Risorto.
“E le folle dicevano:
questo è il profeta, Gesù quello da Nazaret in Galilea”. A quel tempo dire Galileo,
non indicava solo un luogo di provenienza, ma Galileo era sinonimo di rivoluzionario,
testa calda.
Giuseppe Flavio, uno
storico dell’epoca dice che i Galilei sono bellicosi fin da piccoli. C’è
stato un precedente che lo conferma, quello di Giuda, il Galileo, creduto il
Messia. E’ questo quello che si attendono, ma Gesù scombina i piani di questa
folla e l’azione che compie pregiudica la sua esistenza. Loro attendono il
Messia, figlio di Davide, il Messia del Tempio, il proclamatore, il vincitore,
ma hanno sbagliato persona.
Proprio a causa di
questo errore tutte le folle che hanno accolto Gesù al grido Osanna al
Figlio di Davide saranno le stesse che nel giro di poco tempo grideranno crocifiggilo,
crocifiggilo. Hanno sbagliato persona: un messia portatore di pace non è
quello che volevano e quindi dall’esaltazione passano all’odio.
Questo ingresso che,
volutamente o no, ha messo Gesù alla ribalta, è in pratica una tentazione per
il Sinedrio: sono qui, venite a prendermi. La folla osannante che lo chiama
Figlio di Davide è un ottima scusa per accusarlo di fronte ai romani di voler
sovvertire la signoria di Cesare per farsi re; scusa indispensabile perché i
romani non avrebbero mai eseguito una condanna a morte per accuse di tipo
religioso o per atti in contrasto con la Torà.
Il problema, per il
Sinedrio, era la cattura: in prossimità della Pasqua vi erano in Gerusalemme
decine di migliaia di pellegrini, molti dei quali Galilei, con i quali non si
poteva scherzare. I Galilei erano teste calde, quasi tutti armati e quasi tutti
appartenenti al movimento degli zeloti, pronti a difendere un loro concittadino
dalle malsane idee dei fratelli della tribù di Giuda.
I Galilei, durante la
Pasqua, vivevano quasi tutti nelle grotte esistenti lungo le pendici del Monte
degli Ulivi, dove, molto probabilmente, anche Gesù e i Dodici avevano affittato
una grotta per dormire. Queste grotte sono ancor oggi visibili e visitabili da
chi si reca in Terra Santa.
In queste condizioni
le guardie del Tempio non avrebbero potuto andare di grotta in grotta a
chiedere di Gesù senza rischiare di essere come minimo picchiati se non di
lasciarci la pelle; qui si innesta la vicenda di Giuda che offre ai sacerdoti
la possibilità di indicare a colpo sicuro Gesù alle guardie che venivano ad
arrestarlo.
Quello di Giuda fu un
tradimento? Secondo il Vangelo di Giovanni fu tradimento causato
dall’ingordigia verso il denaro; Giovanni tratta Giuda con un’acredine che fa
pensare ad una vecchia ruggine tra i due.
Oggi si pensa che
Giuda fosse profondamente deluso del comportamento di Gesù: Giuda, infatti, era
uno zelota (iscariota = portatore di pugnale) e si era unito al gruppo
pensando, come molti dei dodici del resto, ad una rivoluzione contro i romani
guidata da Gesù(11). Vedendo che Gesù non prendeva l’iniziativa, ne
ha voluto provocare la reazione ponendolo di fronte al fatto compiuto: o
reagisci, o sei arrestato; del resto il luogo dove doveva avvenire la consegna
di Gesù avrebbe fornito facilmente le truppe per una rapida reazione
all’arresto. Sarebbe bastato un grido di aiuto di Gesù e i galilei presenti
avrebbero facilmente avuto ragione delle guardie del Tempio che, per
disposizione romana, non potevano essere armate che di bastoni.
A questo punto si
innesta il concetto che Gesù aveva della violenza. Gesù non avrebbe mai alzato
il pugnale contro un qualsiasi essere umano, né avrebbe consentito che fosse
fatto da altri. Gesù avrebbe sempre seguito la volontà del Padre di amare
tutti, indistintamente; una volta deciso di non fuggire più, non esisteva altra
alternativa che non passasse per la violenza, se non la sua consegna spontanea
senza spargimento di sangue. Solo questo poteva permettergli di fare “la
volontà del Padre”.
Nei
Vangeli risulta chiaro questo atteggiamento di Cristo nei confronti della
violenza ed in particolare al momento della sua cattura.
L'ultima cena, nel contesto
di una comunione particolarmente intima con i suoi, propone una tensione
apparentemente insostenibile:
quella tra una comunione-presenza definitiva e indefettibile offerta nel gesto del pane e del
vino e la sua prossima separazione
dai discepoli. Egli propone un gesto sconvolgente in cui sembra venir meno quello che è donato: la pretesa della
sua assoluta rappresentanza di Dio che è
data nella comunione a Gesù e la morte/separazione che è già intravista
come decisiva negazione di quella pretesa.
Forse è qui che ritrova
l'abisso
ineffabile di come Gesù ha compreso e spiegato la sua morte: il morire di Gesù, e il morire di croce,
è visto come la condizione di una dedizione incondizionata di sé, di una
solidarietà assoluta che si realizza precisamente nel non far valere la propria
pretesa della sua assoluta
rappresentanza di Dio, ma nell'affidarla
radicalmente nelle mani del Padre.
La
tremenda notte passata in preghiera nell’orto del Getsemani in cui Gesù,
perfettamente conscio di quello che succederà di li a poco, è tentato di
chiedere aiuto: “.. se è possibile
allontana da me questo calice …”; la sua natura umana quasi chiede al Padre
di derogare dall’amore, di difendersi, ma subito subentra il desiderio di
assimilarsi al Padre e accetta l’immenso atto d’amore che ne è la conseguenza:
“… ma sia fatta la tua e non la mia
volontà …”, dimostrando l’immenso coraggio di amare fino in fondo tutti,
anche coloro che lo tortureranno, come sta facendo il Padre.
Arrivano a catturarlo in
ottocento(12) il che dimostra la paura che avevano di una eventuale
insurrezione da parte dei galilei e Gesù si consegna spontaneamente stroncando
sul nascere qualunque tentativo di reagire dei suoi.
Il
Sinedrio è riunito in seduta straordinaria, di notte, fatto eccezionale; è
indispensabile modificare la modalità di esecuzione della condanna da
lapidazione a crocifissione.
Questa
scelta è un atto politico: nel Deuteronomio è scritto che questa morte è
riservata ai maledetti da Dio, a coloro cui Dio ha voltato le spalle
permettendo una morte così atroce. E’ l’unico modo che i sacerdoti(13)
hanno per dimostrare la falsità della predicazione di Gesù: se Gesù muore in
croce abbandonato da Dio tutto quello che lui ha insegnato perde qualunque
significato, era una menzogna ingannevole.
Atto
politico perfetto, che richiede, però, la collaborazione dei romani che non si
muoveranno se non avranno il sospetto che l’azione di Gesù era un pericolo per
la loro sovranità.
Ecco il
ricorso a Pilato, ecco l’accusa di volersi fare re, ecco la reazione della
folla che fa pressione sul debole proconsole romano timoroso di trovarsi di
fronte un’ennesima rivolta; se indugia, questa volta la sommossa non sarà
conseguenza della propria stoltezza e incapacità(14), ma del suo
assurdo rifiuto di fronte ad un nemico dell’Impero. Per farlo rimuovere a
Tiberio sarebbe bastato anche meno.
Gesù è
condannato; i discepoli si disperdono, la sua solitudine è impressionante.
Rimane in balia della soldataglia per ore. Sfinito dal dolore, sanguinante, con
l’animo distrutto dagli insulti e dall’attesa del terribile supplizio, viene
condotto al patibolo tra due ali di folla; anche questo è un atto che il
Sinedrio ha attentamente programmato come distruzione della figura di Gesù di
fronte ai suoi seguaci.
Gesù è crocifisso,
è innalzato come lui stesso ha detto; è talmente debole che resisterà poco più
di due ore alla tortura(15).
Gesù
muore; poco prima ha lanciato il suo grido: “Dio
mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. E’ l’inizio del salmo 22 che
Gesù ha tentato di proclamare. Non è un grido disperato: nel salmo 22 c’è prima
una manifestazione di sofferenza e di richiesta di aiuto, poi la proclamazione
del Padre che salva. Per Gesù è il suo grido di vittoria: ci sono riuscito,
tutti guarderanno a me e la volontà del Padre è rispettata.
Lo
sguardo di tutti è rivolto a lui. “… È uno spettacolo che occorre vedere e rivedere [...], penetrare,
scrutare e ripensare. È il grande dramma, l’unico che vale la pena di vedere
perché illumina tutti gli altri» (Maggioni 2001, 158).
E’ uno sguardo - bisogna
aggiungere - già attraversato dalla luce della risurrezione che ci fa vedere la luce abbagliante del Padre a
cui Gesù consegna lo spirito, ci mostra il
perdono di Dio, la sua riconciliazione, la ricongiunzione del malfattore nell'oggi del paradiso, lo squarciarsi del
velo del Tempio ormai inutile, non più luogo della presenza di Dio.
D'altra parte, si esprime in un linguaggio di
confessione, perché rivela la nostra ansia
nel tempo della ultima tribolazione («Figlie
di Gerusalemme... piangete su voi stesse e sui vostri figli»), dimostra il nostro orgoglio inconsapevole («Padre
perdona loro perché non sanno quello che fanno»!), l'insensatezza della nostra sfida e del nostro rifiuto («Se sei tu il Cristo...»), suscita il
riconoscimento del giusto e insieme
della nostra ingiustizia («Gesù ricordati
di me quanto entrerai nel tuo Regno»),
ci spinge alla confessione delle nostre colpe («Se ne tornavano percuotendosi il
petto») e da ultimo riconosce la identità di Gesù, quella del giusto di Dio
(«Veramente quest'uomo era giusto!»).
Ecco lo spettacolo della croce: mentre ci fa riconoscere
la morte di Gesù come il luogo della
riconciliazione e del perdono, rivela noi a noi stessi come gli indifferenti, i
distanti, coloro che rifiutano o sfidano Dio, ma insieme come coloro che proprio
riconoscendo la morte del Figlio che consegna se stesso al Padre, si battono il petto, chiedono il perdono, si dichiarano
colpevoli, confessano la colpa, si
aprono all'oggi della salvezza.
Ecco la conversione del
cuore che è ad un tempo
condizione e frutto della contemplazione della croce. Ecco lo sguardo che ha plasmato quel vedere credente che trae
origine dalla risurrezione di Gesù.
Quello che la predicazione ed i segni non sono riusciti
a dare, viene donato tutto sulla croce. Il predicatore, il profeta che per tre
anni ha sfidato il potere religioso aprendo gli occhi a centinaia di discepoli su
un Dio amore nascosto dalla legge ed è sfuggito tante volte alla cattura, si è
consegnato volontariamente agli aguzzini per insegnare a tutti che l’amore non
permette mancanze, che le proprie convinzioni non cedono davanti al patibolo,
che si muore per quello che si pensa e ci si affida al Padre per il quale la
coerenza (“…il vostro dire sia si si e no
no…”) ha un valore superiore a tante preghiere e tante devozioni.
I Sinottici, Paolo e Giovanni non faranno altro che
rileggere questo nucleo ricuperando le grandi immagini dell'AT: perciò, nella loro elaborazione,
la morte di Gesù diviene la «redenzione», il «sacrificio», il «riscatto»; Gesù
porta a compimento tutti i sacrifici dell'AT, ma non li realizza più in
un gesto rituale, bensì nel dare la sua vita per la moltitudine, nell'offerta
personale.
Così i testi
dell'istituzione dell'Eucaristìa (Mc 14,24; Mt 26,27; Lc 22,20; 1Cor 11,25) possono
parlare del dono di Gesù come “sacrificio” di alleanza.
Diversi autori sono spinti
a pensare al rito di espiazione e purificazione (Eb 9-10; 18; Rm 3,25; 2Cor
5,21; 1Gv 2,2; 4,10) e la lettera agli Efesini parlerà di olocausto (5,2).
Così Giovanni si riferirà
alla tematica dell'agnello
pasquale all'inizio (1,29) e alla fine (19,31-37) del suo vangelo, con uno
stupendo richiamo. Si tratta di un sacrificio che non mira a mutare la volontà
di un Dio adirato, ma si
iscrive entro l'alleanza di Dio che rende possibile i gesti di riconciliazione del suo popolo.
Egualmente, il NT parla della morte di Gesù come redenzione (Mt
20,25-28;
1 Tim 2,6; Tito 2,14): essa rimanda alla esperienza di liberazione del popolo
di Israele dall'Egitto, secondo l'immagine del 'goel (redentore), che nel diritto familiare era il parente
prossimo che doveva riscattare il fratello caduto in schiavitù.
Dio si fa il fratello maggiore che riscatta il
suo popolo dalla schiavitù dell'Egitto, lo
libera dalla soggezione al Faraone. Così Gesù è il redentore, è colui che da
la sua vita in riscatto per la moltitudine, non perché sia tenuto a pagare
qualcosa a qualcuno, ma perché è il volto del Dio fedele a sé stesso, che non può lasciare noi in balia del
nostro egoismo e della morte.
Con Gesù il Padre ci ha dato tutto se
stesso, la sua stessa vita,
lasciandola in balìa del tradimento, dell'abbandono, della morte violenta e della
sopraffazione di noi uomini. Per questo Gesù muore per noi, nel duplice senso
di «a causa» del nostro peccato e di «a vantaggio» nostro.
Assumendo e portando il nostro rifiuto, lo
riconcilia nel luogo stesso dove noi abbiamo chiuso le porte a Dio, e lo trascende
nel suo gesto d'amore incondizionato.
Forse solo qui, in punta di piedi, può essere
posta la domanda, su cui invece noi abbiamo spesso costruito interminabili
discorsi. Perché era necessaria la sofferenza, l'inaudito dolore a cui Gesù si è
sottomesso? Dio non poteva
salvarci in un modo più diretto, meno violento, non poteva condonarci tutto, senza la croce del
Figlio? Perché la passione e la morte di Gesù? Perché una morte così? A queste domande
formidabili non si può rispondere che balbettando. Certo possiamo notare che Gesù ci
riconcilia non perché soffre, ma mentre soffre. La sofferenza non è una scelta di
Dio, ma una conseguenza del rifiuto e della negazione degli uomini.
Note: 1. Il testo che segue è in parte
liberamente tratto dalla conferenza “Disobbediente fino alla morte” tenuta in
Assisi nel settembre 2002 da Padre Alberto Maggi, OSM. – 2. Quanto segue è liberamente tratto da un articolo di Mons.
Franco Giulio Brambilla. – 3. Gv 11,
49-53 Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno,
disse loro: «Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia
un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera». Questo però non lo
disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva
morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire
insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di
ucciderlo. – 4. Vedi come esempio Mt 15,1 e Mc 3,22. – 5. Penso sia
opportuno ricordare che il peccato secondo la cultura ebraica era molto diverso
dalla concezione di peccato che ci ha presentato Cristo e quest’ultima è
diversa a sua volta dalla concezione cattolica del peccato. – 6. Lc 7,22: … i ciechi riacquistano la vista,
gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono … - 7. Il
Sinedrio era una assemblea di anziani e maggiorenti giudaici a cui i romani
avevano concesso di governare Israele dal punto di vista religioso ed
amministrativo. Il Sinedrio era presieduto dal Sommo Sacerdote in carica
(scelto in pratica dai romani), da rappresentanti della casta sacerdotale e
delle altre caste influenti nel paese. Aveva anche funzioni giudiziarie ma non
poteva comminare la pena di morte né, tanto meno, eseguirla. – 8. “Un araldo,
per quaranta giorni, prima dell’esecuzione, uscì gridando: Sarà lapidato perché
ha praticato la stregoneria e ingannato Israele per sviarlo” (Sanh.,B.,43a).
L’accusa a Gesù di essere “uno stregone che ingannava la gente” durerà a lungo
(Giustino, Dialogo con Trifone, 69,
7). Ancora nel IV secolo Girolamo scrive in una lettera che “mago è un altro
nome dato dai Giudei al mio Signore” (Lettera XLV, 6, Ad Asella). – 9. Gv 6, 66-67:
Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con
lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Forse anche voi volete andarvene?».
– 10. Dal IX secolo a.C. Israele era diviso in due regni: il regno della
casa di Davide e il regno del nord. La guerra tra di loro è stata un disastro:
ha portato all’occupazione straniera, ormai permanente; nell’attesa della gente
c’era la speranza di un Messia come Davide. Davide, dagli stessi ebrei, è
definito un Serial Killer. Davide ha eliminato sistematicamente tutti
quelli che potevano nuocere al suo potere. Davide era un bandito terribile,
pericolosissimo, che dove arrivava portava devastazione e morte. E’ una figura
che sconcerta: noi siamo abituati a identificarlo col pastorello di Betlemme,
con il duellante contro Golia, ecc… Ma questo l’ha fatto scrivere più tardi lui
stesso, quando ha preso possesso del trono. A corte c’è sempre il compiacente
storiografo che riscrive la storia secondo il volere del potente di turno. Ma
la Bibbia, che contiene anche elementi storici e concreti, afferma che Davide
era un capobanda: un uomo di una ferocia e di una spietatezza incredibili, che
è riuscito a scalzare dal potere il povero Saul e poi ha fatto scrivere che Dio
lo aveva abbandonato. Pensate che per ottenere in moglie la figlia di Saul,
presentò come bomboniere 200 prepuzi dei Filistei (1Sam 18,27). Questo era Davide: le sue mani grondavano sangue.
Tant’è vero che quando volle costruire il tempio del Signore, il Signore gli
mandò il profeta per dirgli: no, le tue mani grondano sangue e tu non mi costruirai
nessun tempio (1Cro 22,7-8). Nell’aspettativa popolare, comunque, questo re
che era riuscito a riunire le 12 tribù e aveva inaugurato il regno di Israele,
era l’ideale del Messia. – 11. Nel Vangelo di Giuda, apocrifo presumibilmente
del IV secolo, si segue un’altra ipotesi, che sia stato lo stesso Gesù a
chiedere a Giuda di fingere di tradirlo per favorire la sua cattura senza
spargimento di sangue. – 12. Secondo Giovanni, per catturare Gesù si scatena
un'operazione di polizia senza pari. Vengono infatti impiegati “la coorte
con il comandante e le guardie dei Giudei” (Gv 18,3.12). Il termine coorte
(in greco speira) indica un distaccamento tra 600 e 1000 soldati al
comando del procuratore romano per il mantenimento dell’ordine nella città di
Gerusalemme. Le guardie in servizio al tempio di Gerusalemme, erano circa
duecento, alle dipendenze del sommo sacerdote per la sicurezza del Tempio. Tra
i due corpi c’era profonda rivalità e inimicizia, ma ora le due forze di
polizia sono unite, di fronte a un unico pericolo. – 13. I sacerdoti hanno
compreso che la condanna a morte di Gesù potrebbe trasformarsi in una
dimostrazione della validità della sua predicazione e la morte come uno
eccezionale strumento di diffusione delle sue idee. – 14. Come nel caso degli
scudi dipinti esposti lungo il muro del Tempio oppure delle insegne della
legione fatte entrare di notte in Gerusalemme; se poi si ricorda che i soldati
della legione si erano voluti chiamate
“I porci” per dispregio ai giudei che consideravano il maiale un animale impuro
al sommo grado, si completa il quadro dei guai di Ponzio Pilato. – 15. La morte
non sopravveniva mai prima di tre giorni. Normalmente il condannato moriva tra
il terzo e il settimo giorno. La morte avveniva per asfissia: immaginate una persona appesa, che per respirare deve sollevarsi
facendo forza sui piedi; quando le forze mancheranno morirà per l’impossibilità
a sollevarsi. In alcuni casi, per prolungare la sofferenza, mettevano sotto il
sedere un piccolo piolo, sul quale la persona, in qualche modo, poteva
appoggiarsi per cercare di riprendere fiato. Ecco perché, avvicinandosi la
giornata della Pasqua, ai due condannati con Gesù spezzano le gambe, in questo
modo, non potendosi più alzare, muoiono immediatamente.