Corpo e Sangue di Cristo –
Mc 14,12-16.22-26
Il primo giorno degli Azzimi, quando
si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a
preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi
discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una
brocca d'acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: «Il
Maestro dice: Dov'è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i
miei discepoli?». Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata
e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in
città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
E, mentre mangiavano, prese il pane
e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo
è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero
tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per
molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al
giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l'inno, uscirono
verso il monte degli Ulivi.
Il
liturgista, per costruire un brano che si adatti alla solennità di questa
domenica, ha assemblato le due parti del vangelo di Marco riguardanti l’ultima
cena saltando ciò che è compreso tra queste due parti, cioè l’episodio di
Giuda. Operazioni di questo genere quasi sempre snaturano il senso del brano
evangelico e ne distorcono il significato.
Inoltre
i due brani scelti dal liturgista sono preceduti e seguiti da versetti che
mettono in evidenza il significato dell’appellativo Figlio dell’uomo che Gesù si attribuisce. Nei vangeli(1) dopo il nome proprio Gesù, Figlio dell’uomo è la denominazione principale adoperata dagli evangelisti
per Gesù. E’ una denominazione di grandissima importanza in quanto è l’unico
titolo che Gesù si attribuisce(2) e tutti e quattro gli evangelisti
gli danno grande rilievo.
Figlio dell’uomo è un
termine aramaico, la lingua parlata da Gesù, che significa semplicemente uomo; però, nel modo in cui è adoperato
da Marco e dagli altri evangelisti, significa l’uomo che ha raggiunto il
massimo della pienezza umana che arriva a coincidere con la condizione divina. Il
Figlio dell’uomo è quindi l’uomo che
si comporta sulla terra come si comporterebbe Dio stesso, è l’uomo che rende
presente il divino e la sua forza nella storia umana. Rappresenta il massimo dell’umano,
l’umano per eccellenza e quando l’uomo raggiunge il massimo, entra nella
condizione divina.
Figlio dell’uomo non è un titolo esclusivo di Gesu, ma una possibilita per tutti quelli
che gli danno adesione e da lui accolgono la sua pienezza d’amore; Gesù è, come
dice Paolo, la primizia (cfr. 1Cor 15,23), colui che ha indicato la
via per raggiungere questa pienezza. Con l’immagine del Figlio dell’uomo, gli evangelisti vogliono indicare il trionfo dell’umano
sul disumano, con la progressiva scomparsa di tutto cio che blocca la
comunicazione di vita agli uomini da parte di Dio.
Questa
premessa è indispensabile perché tutto il brano in esame è legato a questo
titolo attraverso i due versetti, tralasciati dal liturgista, che illuminano il
significato del gesto principe di Gesù: la consacrazione del pane e del vino.
Il
primo di essi è nel contesto della cena: “Il
Figlio dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell'uomo, dal
quale il Figlio dell'uomo viene tradito! Meglio per quell'uomo se non fosse mai
nato!” (Mc 14,21). Il secondo,
legato ancora alla cena, è nel contesto del Getsèmani, la drammatica preghiera
di Gesù, dove ritorna l’espressione il
Figlio dell’uomo: “Dormite pure e
riposatevi! Basta! E’ venuta l’ora, ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato
nelle mani dei peccatori.” (Mc 14,41b).
Gli
autori dei vangeli erano dei letterati competenti, degli artisti della penna.
Loro scrivevano in una cultura, un misto di tradizione semitica e greca, dove
la scrittura non era facilitata, come è oggi. Per noi oggi, con tutte le
tecniche tipografiche che abbiamo per dare risalto a certi argomenti, è molto
più facile sottolineare le tematiche principali.
Gli
evangelisti erano soliti usare altri tipi di tecniche, che all’epoca erano
molto conosciute, e che noi dobbiamo di nuovo scoprire per comprendere come -
in questo caso Marco - ha voluto impostare l’episodio fondamentale della cena
di Gesù con i discepoli.
Una
di queste tecniche letterarie è quella detta del trittico(3). Lo
scrittore presenta un episodio in tre quadri: primo quadro, il quadro centrale,
terzo quadro. Per capire il significato del quadro centrale è indispensabile
conoscere gli altri due. Ecco perché l’operazione di taglia e cuci che spesso
fanno i liturgisti distrugge il significato dei vangeli! A me è sempre venuto
in mente che i liturgisti brillino soprattutto per la loro mancanza di
conoscenze del senso dei vangeli.
In
questo caso il trittico inizia con il versetto: “Il primo
giorno degli Azzimi…”
e termina con: “Dopo aver cantato l'inno, uscirono verso
il monte degli Ulivi.” Abbiamo
una prima tavola che sono i preparativi della cena; una tavola centrale, in cui
sono già a cena, durante la quale Gesù fa una dichiarazione importante: c’è qui
uno fra voi che mi tradisce; la terza
tavola è costituita dal gesto che Gesù compie di prendere il pane, prendere la
coppa e darla ai discepoli. In questo caso il liturgista ha saltato la tavola
centrale.
Marco
vuole mettere in evidenza che Gesù, arrivato al punto culminante della sua vita,
cioè il suo donarsi, al momento della cena presenta l’immagine del Figlio dell’uomo che sta per essere
consegnato. Poi, parlando del pane e del vino, dirà in che maniera avviene
questa consegna.
Naturalmente
può sorgere la domanda: è proprio intenzione di Marco di mettere al centro di
questo trittico la figura del Figlio
dell’uomo o si tratta di un caso? Ebbene, sulla base degli studi effettuati
nell’ultimo secolo, possiamo affermare che non c’è casualità: Marco vuole
mettere nel trittico il modello di umanità del Figlio dell’uomo. Questo fatto risulta evidente se prendete, nell’episodio
del Getsèmani, il versetto dove si parla del Figlio dell’uomo. Che bisogno c’era di dire: “il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani dei
peccatori”? Poteva dire: “Ecco è giunta
l’ora, sto per essere consegnato nelle mani dei peccatori”. Invece no! Quello
che è successo a Gesù, l’evangelista ce lo propone come un modello di vita al
quale noi possiamo aderire. Noi sappiamo che, seguendo i suoi passi, possiamo
anche andare incontro alla stessa situazione di forte difficoltà, espressione
di un amore che non si lascia condizionare da niente e da nessuno.
Gesù,
presentandosi con l’espressione Figlio
dell’uomo, vuol far capire ai discepoli (e vuol far capire a noi), che la
responsabilità è di tutti: tutti siamo, con Gesù, responsabili di promuovere il
bene dell’umanità, di far sì che questo disegno di vita piena, che Dio ha
comunicato a tutti attraverso Gesù, possa raggiungere ogni creatura anche
mediante il nostro contributo.
Se
infatti questa espressione fosse stata sostituita con Gesù o il Messia, noi l’avremmo
letta pensando: «Queste sono cose che riguardavano lui, noi non c’entriamo
niente con queste cose». Questo pensiero è, possiamo serenamente dirlo, frutto
di una certa teologia che ha creato l’immagine di un Gesù superuomo o troppo
divino, fino al punto di offuscare la sua umanità.
“Il primo giorno degli Azzimi, quando si
immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare,
perché tu possa mangiare la Pasqua?»”. Qui abbiamo una indicazione temporale, si parla del primo
giorno degli Azzimi(4). In quel giorno si facevano tutti i
preparativi, cioè si dovevano sacrificare gli agnelli al Tempio, poi li
portavano a casa dove venivano arrostiti e mangiati la sera, proprio quando
cominciava la festa di Pasqua.
Siamo
al primo giorno degli Azzimi e i discepoli chiedono: “Dove vuoi mangiare la
Pasqua?”.
È
importante sottolineare che in questo primo quadro sono i discepoli che
vogliono celebrare la Pasqua e Gesù acconsente perché approfitta dell’occasione
per far loro capire che cosa è veramente la Pasqua che si deve celebrare: nel
racconto redatto dagli evangelisti non si trova alcun elemento che ricordi la
cena ebraica pasquale. Gesù non ha celebrato la Pasqua ebraica, non ha
celebrato la cena dell’agnello e nei gesti che lui fa non c’è nulla che ricordi
il rituale pasquale.
Gesù
sostituisce la Pasqua ebraica con quella sua; questa sarà la vera liberazione donando
all’uomo una vita nuova, da persona libera, non certo perché si è usciti
dall’Egitto.
Noi
cristiani siamo persone nuove perché non abbiamo più nessuno che ci comanda,
nessuno che possa imporre sulla nostra vita alcun tipo di dominio(5).
Ci sentiamo perfettamente liberati. La liberazione, l’esodo che fa Gesù, - e lo
si vede anche lungo tutto il vangelo di Marco - non è portare il popolo da un
paese ad un altro, dove magari si finirà peggio di prima, ma riguarda proprio
la persona, l’interiorità della persona. Questo atto di liberazione è
intollerabile per il potere, perché se il potere non può controllare le persone
ha perso la sua funzione e quindi il suo guadagno.
Gesù
ci porta, con la sua Pasqua, allo stadio di liberazione definitiva, ecco per
quale motivo lo uccideranno. Una persona che osa fare una cosa del genere è
pericolosissima per il sistema, perché le persone non saranno più sottomesse a
un leader, a un capo, a un sistema che dice: «Tu devi fare come dico io,
altrimenti ne subirai le conseguenze».
Quando
Gesù dice che lui è il Signore, non è perché lui comanda e ha tanti sudditi -
noi abbiamo un po’ questa immagine in testa - lui è Signore perché non ha
nessuno al di sopra. Questa è la signorilità che Gesù ci comunica, che non
abbiamo nessuno al di sopra di noi, neanche il Padreterno perché Dio è in basso,
si è messo al nostro servizio, come nell’episodio della lavanda dei piedi. Gesù
ci presenta Dio che si inchina sulla parte più umile, più bassa, più misera
degli uomini: mettendo la nostra vita al servizio degli altri, noi abbiamo la
possibilità di essere Signori come il vangelo ci manifesta.
Gesù
acconsente alla richiesta dei discepoli, perché ancora pensano che la Pasqua è
la liberazione dall’Egitto, senza rendersi conto che era una messa in scena:
non c’era né liberazione né festa, ma solo un commemorare qualcosa che a quell’epoca
non aveva più significato.
Nel
vangelo di Giovanni, che è quello che più insiste sulle feste ebraiche, ogni
festa è peggio dell’altra: nelle feste che Giovanni ci riporta, accadono gli
scontri più duri, più terribili tra Gesù e i capi religiosi: erano veramente
degli incontri di pugilato, non c’era niente da celebrare.
Gesù
acconsente e dà ai discepoli delle indicazioni e qui è tutto molto strano: “Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi
verrà incontro un uomo con una brocca d'acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite
al padrone di casa: «Il Maestro dice: Dov'è la mia stanza, in cui io possa
mangiare la Pasqua con i miei discepoli?»”.
Gesù
non nomina Gerusalemme - ma sappiamo che è a Gerusalemme, il centro della
istituzione religiosa - e i discepoli devono seguire un tizio che porterà una
brocca d’acqua. Questa è una cosa molto strana perché nessun uomo portava una
brocca d’acqua in quella cultura: le donne portavano le brocche d’acqua, era
impossibile pensare ad un uomo che andasse in giro con una brocca. Questo ci fa
capire che Marco ci sta dando una indicazione più profonda, e, per
comprenderla, non possiamo rimanere nel piano narrativo del racconto, ma
dobbiamo entrare in quello teologico. Marco ci sta dicendo che i discepoli
devono seguire un uomo che ha a che fare con l’acqua, e noi nel vangelo già
sappiamo chi è l’uomo che ha avuto a che fare con l’acqua: Giovanni il
Battista.
I
discepoli, che vogliono celebrare la Pasqua, non hanno ancora rotto con i loro
legami ideologici, con la loro mentalità che è molto legata agli insegnamenti
ufficiali. Gesù ricorda loro l’invito
del Battista “convertitevi, cambiate atteggiamento”, altrimenti non possono
celebrare la Pasqua con Gesù, non possono entrare in quella dimensione di
comunione con lui. Loro devono di nuovo fare questo cammino, ricordare l’invito
del Battista.
“Dov'è la mia stanza…” Il testo greco dice: “il mio alloggio”, cioè il punto di arrivo di tutto il viaggio di
Gesù. In Mc 8,27 cominciava il
cammino di Gesù verso Gerusalemme, ma questo cammino era già stato presentato
da Marco all’inizio del vangelo, quando, parlando del Battista, aveva detto che
veniva a preparare la strada: “voce di
uno che grida nel deserto…”. Il punto d’arrivo di questa strada è
quell’alloggio, a Gerusalemme, dove Gesù celebrerà la Pasqua con i suoi. Non la
Pasqua ebraica, ma la sua Pasqua.
“Egli vi mostrerà al piano superiore
una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I
discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e
prepararono la Pasqua.”
Qui
l’evangelista dà delle indicazioni che, dal punto di vista storico, ci possono
sembrare non necessarie: che questa stanza fosse in alto, fosse piccola o
grande, che fosse arredata o no, a noi non dice più di tanto. Ma se entriamo
nel piano teologico, il fatto che si dica in alto, ci ricorda l’alleanza del
Sinai, dove Mosè è salito sul monte, quindi su un luogo alto, per ricevere la
legge. Non solo, in alto ricorda non il luogo in sé, ma il modo come Gesù verrà
messo a morte: la croce. Questo alloggio non è tanto un alloggio che è in alto,
non è l’indicazione del luogo del cenacolo, ma sta già indicando il luogo e il
modo come Gesù manifesterà il suo amore; un luogo che ricorda l’Antica
Alleanza, ma dove lui stipulerà la sua, la nuova.
Così
quando il testo dice “grande sala”, è
perché, nel luogo in cui Gesù comunicherà la sua vita, c’è posto per tutti. Non
è più per un popolo solo, non c’è più l’esclusivismo del popolo eletto, ma
adesso l’alleanza è fatta con tutti; il luogo è grande perché tutti possano
avere accesso al posto in cui Gesù manifesterà la sua capacità di amare.
Risalta
la ridondanza delle due voci del verbo “preparare”:
Gesù vuol dire che nella sala non si entra tanto in senso fisico, ma che in
questa dimensione nella quale lui comunica vita, dobbiamo collaborare anche noi
a comunicare vita. “Io l’ho preparata”, ma dopo di me voi dovete preparare,
facendo le stesse cose, vivendo come io ho vissuto, e dandovi da fare per gli
altri come ho fatto io. Siate anche voi persone che sanno costruire un ambiente
dove si diffonde questo amore, che non esclude nessuno, ma tutti ne possono
ricavare un salutare beneficio”.
“E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo
diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo»…”
Qui
abbiamo la concretizzazione di quello che Gesù ha voluto far capire ai suoi
discepoli, cioè un’alleanza nuova. Un’alleanza nuova che non si fa più con il
sangue di un animale, prendendo la legge
e dicendo: “Devi ubbidire a questo”, ma un’alleanza nuova che si fa prendendo
un pane - non dice un pane azzimo, ma un pane qualsiasi – in mano e dicendo: “Questo pane è il mio corpo”.
Per
una più ampia comprensione del gesto si deve sapere cosa significava corpo in quella cultura di oltre 2000
anni fa: tutto quello che rende identificabile una persona; non è soltanto la
parte materiale, la carne, ma tutto quello che la rende identificabile,
riconoscibile davanti agli altri, come questa persona si è comportata, ha
agito, si è manifestata in un modo che non possa essere confusa con nessun altra.
Gesù
dice: “Questo è il mio corpo” non la
legge che aveva dato Mosè per fare l’alleanza, ma un pezzo di pane, “questo
pane rappresenta me, tutto quello che io ho fatto, tutto quello che mi
distingue come persona che si è relazionata con voi e che vi ha insegnato uno
stile di vita particolare”.
E
dice: “prendete, mangiate”, cioè voi,
se volete entrare in questa alleanza, “dovete assimilare questo mio modo di
comportarmi”(6). Quando noi celebriamo l’eucaristia, non stiamo facendo
un atto pio, non stiamo consacrando un amuleto, un rimedio per tutti i mali, ma
stiamo dicendo: ”Signore, noi vogliamo vivere come tu sei vissuto”, questo è il
gesto dell’eucaristia. “Signore vogliamo fare come tu hai fatto, che il tuo
stile di vita sia il nostro stile di vita” questo è l’impegno che noi
celebriamo nell’eucaristia, quando ci raduniamo insieme. “Vogliamo vivere,
Gesù, come tu hai vissuto, perché abbiamo capito che non c’è un’altra
possibilità di diventare persone pienamente riuscite, se non come tu ci hai
mostrato”. “Prendendo il tuo corpo, questo pane che rappresenta te, noi
vogliamo assimilare che ci entri fino all’ultima cellula con tutto il tuo
insegnamento, che tutta la tua testimonianza ci nutra perché possiamo capire
che è vero, che è possibile riuscire ad essere uomini, che anche noi ci
possiamo dare da mangiare agli altri”.
“Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E
disse loro: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti…”
E poi il gesto della
coppa: perchè mangiare il pane significa
accettare Gesu come norma di comportamento, ma bere il vino significa accettare
anche la persecuzione ed eventualmente la morte che comporta vivere come Gesù.
Gesu adopera l’immagine del calice perchè in un banchetto, colui
che lo presiedeva ne dava uno a ciascuno, ognuno aveva il suo calice perchè nel
pensiero ebraico il calice raffigurava simbolicamente la sorte riservata a
ciascuno. “Il calice che io bevo” indica la sorte a cui vado incontro, la sorte
che mi è destinata; bere il calice è anche l’espressione della morte, del
martirio, l’amaro calice della morte.
Nella cena pasquale, ogni invitato ha il suo calice. Nella cena di
Gesu, che non è la cena pasquale, Gesu prende il suo calice e lo fa bere agli
altri, cioè associa tutti al suo destino. Ecco perche, nel vangelo di Marco,
nel Getsemani troveremo l’espressione di Gesu: “Allontana da me questo calice”.
Il
pane e la coppa, ci ricordano: “Se uno
vuol venire dietro me rinneghi sé stesso…”. Il pane vuol dire questo: io
non farò della mia vita qualcosa per sfruttare te, ma un pane per darti vita.
Adesso capiamo cosa vuol dire rinnegare
sé stesso.
Prendere
la coppa, bere la coppa vuol dire: caricarsi
della croce, cioè sono pronto a rovinarmi la faccia davanti al mondo pur di
dire quanto è grande il mio amore per il mio vicino (il vino è amore, in tutta
la tradizione biblica il vino è il simbolo dell’amore della sposa per lo sposo).
Non mi importa che cosa gli altri potranno dire o farmi, ma se tu hai bisogno
di essere amato, aiutato, sostenuto, io sono qui per questo e non mi importa la
risposta degli altri. Per me è molto più importante il bene che io ti posso
comunicare, perché tu ne hai bisogno, che non tutte le chiacchiere, critiche,
accuse, minacce che mi possono fare.
È
questa la nuova alleanza, questo sì che rende libera la persona, capace di
gestire la propria vita, dicendo: io l’imposto come finalmente ho capito che
bisogna impostarla, non obbedendo a una legge, facendo dei rituali – ove
sappiamo che tutto è finzione - ma assimilando una persona che ha fatto delle
cose che mi hanno comunicato vita e attraverso questa assimilazione posso
anch’io comunicarla.
Mi
sento così libero da poter anch’io comunicare questa vita agli altri. Non ho
più nessun condizionamento, non c’è più nessuno sopra di me – tu mi potrai
gettare in prigione, potrai dire tutte le calunnie che vuoi, mi potrai togliere
il lavoro - questo bene che mi sento di fare tu non me lo puoi togliere.
È
frutto di una vita che già sta palpitando dentro di me, è la cosa più grande
che io ho trovato nella mia esistenza. So che anche se la coppa può essere un
momento di dolore, è un dolore che esprime tanto amore (il vino), che esprime
una capacità di dono completo, per questo non viene soffocato dal dolore il
gesto che voglio fare, ma è sostenuto dall’amore.
Questo
è ciò che Gesù, qui, ci sta insegnando. Ai discepoli ha detto: “Uno di voi mi
tradirà”. “Chi?”. Non si sa, forse tutti. Gesù non si lascia soffocare da
questo dolore dell’abbandono, dell’amarezza, ma dal vino che esprime un amore,
che è capace di sostenere anche la prova così forte. “Lo do per voi, per tutti,
questo sangue dell’alleanza” che qui spiega “versato
per molti”, che, letto in senso semitico, vuol dire per tutti.
Poi
l’ultima frase che è un po’ complessa. “…In verità io
vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo
berrò nuovo, nel regno di Dio».
Questa frase va vista
come un antico residuo della ricchissima tradizione giudaica imperniata sul
simbolismo della vite e del vino (meglio, del “frutto della vite”, chiaro
semitismo) come pegno di Dio (la vite/vigna Israele) e come promessa di
straordinaria prosperità per l’era messianica. Ricordo solo l’episodio degli esploratori
inviati da Mosè nella terra promessa, dalla quale ritornano con un grappolo
d’uva che dovettero (cfr. Nm 13,23) «portare in due con una stanga» o la
testimonianza di Giuseppe Flavio, secondo cui nel tempio di Gerusalemme pendeva
la riproduzione in oro di una vite con grappoli della grandezza di un uomo.
L’interpretazione
esegetica, anche odierna, del detto di Gesù è fortemente condizionata dal suo inserimento
(per molti secondario) nel racconto dell’istituzione eucaristica come memoriale
della morte di Gesù; il detto di Gesù è stato inteso sopratutto come “profezia
di morte”; alcuni esegeti si spingono fino a dire che è originaria solo la
prima parte del v. 25 («non berrò più del
frutto della vite»), mentre 25b, sulla venuta del regno, sarebbe una
successiva integrazione postpasquale. Comunque sia, sembra più corretto dire
che il senso della frase non è: “sto per morire”, bensì: “il regno di
Dio sta per arrivare”; il prossimo convito, dopo questo, sarà nel regno.
Per
concludere e ribadire che Gesù non ha fatto la cena pasquale, qui Marco ci dà
un altra sferzata, dicendo che non si è attenuto a quelle che erano le norme
della cena pasquale: “Dopo aver cantato l'inno, uscirono
verso il monte degli Ulivi.”
Secondo
la legge non si poteva uscire nella notte di Pasqua e, finchè non arrivava il
giorno, si stava in casa a celebrare l’evento di Mosè e dei padri usciti dall’Egitto.
Loro escono, non hanno più le norme rabbiniche, non seguono più le leggi di
Mosè: sono uomini liberi.
Note: 1. L’esegesi che segue è stata liberamente tratta
dall’intervento di P. Riccardo Perez OSM durante la X Settimana Biblica
svoltasi a Montefano (AN) dal 30.06.2003 al 05.07.2003. – 2. Gesù si è sempre
rifiutato di accettare per se il titolo di Figlio
di Davide (che gli avrebbe attribuito un destino da re conquistatore
assolutamente lontano dal suo pensiero e dalla sua azione) e ha rifiutato anche
il titolo di Figlio di Dio
(ovviamente nella accezione ebraica e non in quella cattolica – cfr. Sal 2,7 e
Sal 89,27) che gli avrebbe compromesso la predicazione mettendolo in scontro
diretto con il Sommo Sacerdote e gli scribi. – 3. Si usa questo nome perché la
presentazione è identica ad una pala di altare a tre lobi dove, in quello
centrale, è raffigurato il personaggio principale e, nei due laterali, altri
due personaggi legati al personaggio principale da azioni o vicende che ne
danno lustro. – 4. Gli Azzimi è un’altra maniera di
chiamare la Pasqua nella tradizione giudaica. Gli azzimi sono i pani non
lievitati e per una settimana non si mangiava altro pane. Il pane azzimo e
l’agnello sacrificato al tempio, arrostito e poi mangiato la sera tra il 14 e
il 15 di Nissan (corrispondente più o meno al nostro mese di aprile, ma la data
effettiva, ”solare”, si modifica di anno in anno perché costruita su un
calendario lunare), erano i due elementi principali nella festività della
Pasqua ebraica.
Sicuramente, in origine, gli azzimi
avevano un riferimento agricolo; chi mangiava il pane azzimo erano gli
agricoltori che, arrivando la primavera, quando si raccoglieva il primo orzo,
dicevano: “Perché vada bene il raccolto, non usiamo nulla di vecchio”; nella
loro mentalità il lievito, in quanto fermentato, rappresentava il vecchio.
Questo rituale agricolo passò in seguito nel piano religioso e si unì alla
festa dei nomadi, dei pastori nella quale veniva ucciso il primo agnello; nel
rito tagliavano la testa all’agnello e tingevano con il suo sangue le tende.
Questo segno doveva scongiurare lo sterminatore
– che rappresentava le malattie, le pesti, le carestie ecc. – a passare oltre,
preservando il branco che si stava riproducendo e facendo si che i piccoli che
nascevano non avessero delle malattie.
Erano
rituali legati alla natura, poi, nella memoria del popolo di Israele, verranno
unificati in una sola festa, dando ad essi un connotato religioso. Ecco per
quale motivo al momento della partenza dall’Egitto, gli Israeliti devono
aspergere la porta delle loro case con il sangue dell’agnello, perché,
passando, lo sterminatore non avrebbe toccato i primogeniti della casa
d’Israele. Ogni anno la Pasqua
era considerata l’inizio di una vita nuova. Non si poteva
ricominciare l’anno con qualcosa di vecchio e tutto quello che fermenta era
considerato roba vecchia. Gli ebrei ancora oggi, prima di arrivare alla festa
di Pasqua, fanno delle pulizie assurde (le nostre pulizie di Pasqua di buona
memoria vengono di qui): fanno ballare tutta casa andando a ricercare tutto
quello che è fermentato: ne hanno il terrore, perché è impuro, è morto, è roba
vecchia e non si può celebrare il rito della liberazione con qualcosa di
impuro. – 5. In effetti avrei dovuto scrivere “…non dovremmo avere
nessuno che ci comanda…” perché purtroppo il cristianesimo da fede come era
agli inizi si è, lungo i secoli, trasformato in religione con precetti, dogmi e
riti che annullano la libertà donataci da Gesù. – 6. Il gesto di Gesù deve
essere interpretato anche seguendo le indicazioni della filosofia gnostica
presente in quel periodo in quella cultura, secondo tale idea assimilare il
pensiero, i gesti e le intenzioni di una persona era un po’ come nutrirsi di
questa persona per alimentare la propria crescita. (cfr. Gv 6,54-56)