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Le esegesi riportate in questo blog non sono frutto delle mie capacità, in realtà molto modeste. Le ricavo leggendo diversi testi dei più importanti specialisti a livello mondiale, generalmente cattolici, ma non disdegno di verificare anche l’operato di esegeti protestanti, in particolare anglicani. Se si escludono alcuni miei approfondimenti specifici, per la parte tecnica dell’analisi critica il mio testo di riferimento è questo:

- Giovanni Leonardi
, Per saper fare esegesi nella Chiesa, 2007 Ed. Elledici (testo promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale). Questo testo è molto semplice, veramente alla portata di tutti; per migliorare la capacità di analisi deve essere affiancato da altri due testi per la parte linguistica, anch’essi a livello divulgativo:

- Filippo Serafini,
Corso di greco del nuovo testamento, 2003 Ed. San Paolo.
- Luciana Pepi, Filippo Serafini,
Corso di ebraico biblico, 2006 Ed. San Paolo (da usare solo nel caso si voglia approfondire l’etimologia semitica sottesa ai vocaboli greci).

I testi della Bibbia in lingua originale sono pubblicati da varie case editrici; in particolare per i Vangeli segnalo l'ottimo testo della Edizioni Enaudi e quello sinottico della Edizioni Messagero in quanto hanno i testi greco ed italiano a fronte. Si trovano anche in vari siti in rete, ma non sempre sono testi aggiornati con le ultime scoperte a livello archeologico o paleografico.
Per la parte sostanziale normalmente faccio riferimento a documenti prodotti dalle fonti seguenti, che riporto in ordine decrescente di frequenza di utilizzo:

- École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), retto dai Domenicani e dove ha lavorato anche il Card. Martini.
- Centro Studi Biblici “G. Vannucci” – Montefano (An), retto dall’Ordine dei Servi di Maria.
- Sito www.Nicodemo.net gestito da P. Alessandro Sacchi.
- Università degli studi di Torino – Corso di Letteratura cristiana antica – Prof.essa Clementina Mazzucco.
- Fr. Dante Androli, OSM, docente di esegesi alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum – Roma
- Università degli studi La Sapienza di Roma – Corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Prof.essa Emanuela Prinzivalli.
- Biblia, Associazione laica di cultura biblica – Settimello (Fi)


venerdì 5 giugno 2015

Corpus Domini



Corpo e Sangue di Cristo – Mc 14,12-16.22-26
Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d'acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: «Il Maestro dice: Dov'è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?». Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.

Il liturgista, per costruire un brano che si adatti alla solennità di questa domenica, ha assemblato le due parti del vangelo di Marco riguardanti l’ultima cena saltando ciò che è compreso tra queste due parti, cioè l’episodio di Giuda. Operazioni di questo genere quasi sempre snaturano il senso del brano evangelico e ne distorcono il significato.
Inoltre i due brani scelti dal liturgista sono preceduti e seguiti da versetti che mettono in evidenza il significato dell’appellativo Figlio dell’uomo che Gesù si attribuisce. Nei vangeli(1) dopo il nome proprio Gesù, Figlio dell’uomo è la denominazione principale adoperata dagli evangelisti per Gesù. E’ una denominazione di grandissima importanza in quanto è l’unico titolo che Gesù si attribuisce(2) e tutti e quattro gli evangelisti gli danno grande rilievo.
Figlio dell’uomo è un termine aramaico, la lingua parlata da Gesù, che significa semplicemente uomo; però, nel modo in cui è adoperato da Marco e dagli altri evangelisti, significa l’uomo che ha raggiunto il massimo della pienezza umana che arriva a coincidere con la condizione divina. Il Figlio dell’uomo è quindi l’uomo che si comporta sulla terra come si comporterebbe Dio stesso, è l’uomo che rende presente il divino e la sua forza nella storia umana. Rappresenta il massimo dell’umano, l’umano per eccellenza e quando l’uomo raggiunge il massimo, entra nella condizione divina.
Figlio dell’uomo non è un titolo esclusivo di Gesu, ma una possibilita per tutti quelli che gli danno adesione e da lui accolgono la sua pienezza d’amore; Gesù è, come dice Paolo, la primizia (cfr. 1Cor 15,23), colui che ha indicato la via per raggiungere questa pienezza. Con l’immagine del Figlio dell’uomo, gli evangelisti vogliono indicare il trionfo dell’umano sul disumano, con la progressiva scomparsa di tutto cio che blocca la comunicazione di vita agli uomini da parte di Dio.
Questa premessa è indispensabile perché tutto il brano in esame è legato a questo titolo attraverso i due versetti, tralasciati dal liturgista, che illuminano il significato del gesto principe di Gesù: la consacrazione del pane e del vino.
Il primo di essi è nel contesto della cena: “Il Figlio dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell'uomo, dal quale il Figlio dell'uomo viene tradito! Meglio per quell'uomo se non fosse mai nato!” (Mc 14,21). Il secondo, legato ancora alla cena, è nel contesto del Getsèmani, la drammatica preghiera di Gesù, dove ritorna l’espressione il Figlio dell’uomo: “Dormite pure e riposatevi! Basta! E’ venuta l’ora, ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori.” (Mc 14,41b).
Gli autori dei vangeli erano dei letterati competenti, degli artisti della penna. Loro scrivevano in una cultura, un misto di tradizione semitica e greca, dove la scrittura non era facilitata, come è oggi. Per noi oggi, con tutte le tecniche tipografiche che abbiamo per dare risalto a certi argomenti, è molto più facile sottolineare le tematiche principali.
Gli evangelisti erano soliti usare altri tipi di tecniche, che all’epoca erano molto conosciute, e che noi dobbiamo di nuovo scoprire per comprendere come - in questo caso Marco - ha voluto impostare l’episodio fondamentale della cena di Gesù con i discepoli.
Una di queste tecniche letterarie è quella detta del trittico(3). Lo scrittore presenta un episodio in tre quadri: primo quadro, il quadro centrale, terzo quadro. Per capire il significato del quadro centrale è indispensabile conoscere gli altri due. Ecco perché l’operazione di taglia e cuci che spesso fanno i liturgisti distrugge il significato dei vangeli! A me è sempre venuto in mente che i liturgisti brillino soprattutto per la loro mancanza di conoscenze del senso dei vangeli.
In questo caso il trittico inizia con il versetto: “Il primo giorno degli Azzimi…” e termina con: “Dopo aver cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.” Abbiamo una prima tavola che sono i preparativi della cena; una tavola centrale, in cui sono già a cena, durante la quale Gesù fa una dichiarazione importante: c’è qui uno fra voi che mi tradisce;  la terza tavola è costituita dal gesto che Gesù compie di prendere il pane, prendere la coppa e darla ai discepoli. In questo caso il liturgista ha saltato la tavola centrale.
Marco vuole mettere in evidenza che Gesù, arrivato al punto culminante della sua vita, cioè il suo donarsi, al momento della cena presenta l’immagine del Figlio dell’uomo che sta per essere consegnato. Poi, parlando del pane e del vino, dirà in che maniera avviene questa consegna.
Naturalmente può sorgere la domanda: è proprio intenzione di Marco di mettere al centro di questo trittico la figura del Figlio dell’uomo o si tratta di un caso? Ebbene, sulla base degli studi effettuati nell’ultimo secolo, possiamo affermare che non c’è casualità: Marco vuole mettere nel trittico il modello di umanità del Figlio dell’uomo. Questo fatto risulta evidente se prendete, nell’episodio del Getsèmani, il versetto dove si parla del Figlio dell’uomo. Che bisogno c’era di dire: “il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani dei peccatori”?  Poteva dire: “Ecco è giunta l’ora, sto per essere consegnato nelle mani dei peccatori”. Invece no! Quello che è successo a Gesù, l’evangelista ce lo propone come un modello di vita al quale noi possiamo aderire. Noi sappiamo che, seguendo i suoi passi, possiamo anche andare incontro alla stessa situazione di forte difficoltà, espressione di un amore che non si lascia condizionare da niente e da nessuno.
Gesù, presentandosi con l’espressione Figlio dell’uomo, vuol far capire ai discepoli (e vuol far capire a noi), che la responsabilità è di tutti: tutti siamo, con Gesù, responsabili di promuovere il bene dell’umanità, di far sì che questo disegno di vita piena, che Dio ha comunicato a tutti attraverso Gesù, possa raggiungere ogni creatura anche mediante il nostro contributo.
Se infatti questa espressione fosse stata sostituita con Gesù o il Messia, noi l’avremmo letta pensando: «Queste sono cose che riguardavano lui, noi non c’entriamo niente con queste cose». Questo pensiero è, possiamo serenamente dirlo, frutto di una certa teologia che ha creato l’immagine di un Gesù superuomo o troppo divino, fino al punto di offuscare la sua umanità.
 “Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?»”. Qui abbiamo una indicazione temporale, si parla del primo giorno degli Azzimi(4). In quel giorno si facevano tutti i preparativi, cioè si dovevano sacrificare gli agnelli al Tempio, poi li portavano a casa dove venivano arrostiti e mangiati la sera, proprio quando cominciava la festa di Pasqua.
Siamo al primo giorno degli Azzimi e i discepoli chiedono: “Dove vuoi mangiare la Pasqua?”.
È importante sottolineare che in questo primo quadro sono i discepoli che vogliono celebrare la Pasqua e Gesù acconsente perché approfitta dell’occasione per far loro capire che cosa è veramente la Pasqua che si deve celebrare: nel racconto redatto dagli evangelisti non si trova alcun elemento che ricordi la cena ebraica pasquale. Gesù non ha celebrato la Pasqua ebraica, non ha celebrato la cena dell’agnello e nei gesti che lui fa non c’è nulla che ricordi il rituale pasquale.
Gesù sostituisce la Pasqua ebraica con quella sua; questa sarà la vera liberazione donando all’uomo una vita nuova, da persona libera, non certo perché si è usciti dall’Egitto.
Noi cristiani siamo persone nuove perché non abbiamo più nessuno che ci comanda, nessuno che possa imporre sulla nostra vita alcun tipo di dominio(5). Ci sentiamo perfettamente liberati. La liberazione, l’esodo che fa Gesù, - e lo si vede anche lungo tutto il vangelo di Marco - non è portare il popolo da un paese ad un altro, dove magari si finirà peggio di prima, ma riguarda proprio la persona, l’interiorità della persona. Questo atto di liberazione è intollerabile per il potere, perché se il potere non può controllare le persone ha perso la sua funzione e quindi il suo guadagno.
Gesù ci porta, con la sua Pasqua, allo stadio di liberazione definitiva, ecco per quale motivo lo uccideranno. Una persona che osa fare una cosa del genere è pericolosissima per il sistema, perché le persone non saranno più sottomesse a un leader, a un capo, a un sistema che dice: «Tu devi fare come dico io, altrimenti ne subirai le conseguenze».
Quando Gesù dice che lui è il Signore, non è perché lui comanda e ha tanti sudditi - noi abbiamo un po’ questa immagine in testa - lui è Signore perché non ha nessuno al di sopra. Questa è la signorilità che Gesù ci comunica, che non abbiamo nessuno al di sopra di noi, neanche il Padreterno perché Dio è in basso, si è messo al nostro servizio, come nell’episodio della lavanda dei piedi. Gesù ci presenta Dio che si inchina sulla parte più umile, più bassa, più misera degli uomini: mettendo la nostra vita al servizio degli altri, noi abbiamo la possibilità di essere Signori come il vangelo ci manifesta.
Gesù acconsente alla richiesta dei discepoli, perché ancora pensano che la Pasqua è la liberazione dall’Egitto, senza rendersi conto che era una messa in scena: non c’era né liberazione né festa, ma solo un commemorare qualcosa che a quell’epoca non aveva più significato.
Nel vangelo di Giovanni, che è quello che più insiste sulle feste ebraiche, ogni festa è peggio dell’altra: nelle feste che Giovanni ci riporta, accadono gli scontri più duri, più terribili tra Gesù e i capi religiosi: erano veramente degli incontri di pugilato, non c’era niente da celebrare.
Gesù acconsente e dà ai discepoli delle indicazioni e qui è tutto molto strano: “Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d'acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: «Il Maestro dice: Dov'è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?»”.
Gesù non nomina Gerusalemme - ma sappiamo che è a Gerusalemme, il centro della istituzione religiosa - e i discepoli devono seguire un tizio che porterà una brocca d’acqua. Questa è una cosa molto strana perché nessun uomo portava una brocca d’acqua in quella cultura: le donne portavano le brocche d’acqua, era impossibile pensare ad un uomo che andasse in giro con una brocca. Questo ci fa capire che Marco ci sta dando una indicazione più profonda, e, per comprenderla, non possiamo rimanere nel piano narrativo del racconto, ma dobbiamo entrare in quello teologico. Marco ci sta dicendo che i discepoli devono seguire un uomo che ha a che fare con l’acqua, e noi nel vangelo già sappiamo chi è l’uomo che ha avuto a che fare con l’acqua: Giovanni il Battista.
I discepoli, che vogliono celebrare la Pasqua, non hanno ancora rotto con i loro legami ideologici, con la loro mentalità che è molto legata agli insegnamenti ufficiali. Gesù ricorda  loro l’invito del Battista “convertitevi, cambiate atteggiamento”, altrimenti non possono celebrare la Pasqua con Gesù, non possono entrare in quella dimensione di comunione con lui. Loro devono di nuovo fare questo cammino, ricordare l’invito del Battista.
Dov'è la mia stanza…” Il testo greco dice: “il mio alloggio”, cioè il punto di arrivo di tutto il viaggio di Gesù. In Mc 8,27 cominciava il cammino di Gesù verso Gerusalemme, ma questo cammino era già stato presentato da Marco all’inizio del vangelo, quando, parlando del Battista, aveva detto che veniva a preparare la strada: “voce di uno che grida nel deserto…”. Il punto d’arrivo di questa strada è quell’alloggio, a Gerusalemme, dove Gesù celebrerà la Pasqua con i suoi. Non la Pasqua ebraica, ma la sua Pasqua.
 Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.”
Qui l’evangelista dà delle indicazioni che, dal punto di vista storico, ci possono sembrare non necessarie: che questa stanza fosse in alto, fosse piccola o grande, che fosse arredata o no, a noi non dice più di tanto. Ma se entriamo nel piano teologico, il fatto che si dica in alto, ci ricorda l’alleanza del Sinai, dove Mosè è salito sul monte, quindi su un luogo alto, per ricevere la legge. Non solo, in alto ricorda non il luogo in sé, ma il modo come Gesù verrà messo a morte: la croce. Questo alloggio non è tanto un alloggio che è in alto, non è l’indicazione del luogo del cenacolo, ma sta già indicando il luogo e il modo come Gesù manifesterà il suo amore; un luogo che ricorda l’Antica Alleanza, ma dove lui stipulerà la sua, la nuova.
Così quando il testo dice “grande sala”, è perché, nel luogo in cui Gesù comunicherà la sua vita, c’è posto per tutti. Non è più per un popolo solo, non c’è più l’esclusivismo del popolo eletto, ma adesso l’alleanza è fatta con tutti; il luogo è grande perché tutti possano avere accesso al posto in cui Gesù manifesterà la sua capacità di amare.
Risalta la ridondanza delle due voci del verbo “preparare”: Gesù vuol dire che nella sala non si entra tanto in senso fisico, ma che in questa dimensione nella quale lui comunica vita, dobbiamo collaborare anche noi a comunicare vita. “Io l’ho preparata”, ma dopo di me voi dovete preparare, facendo le stesse cose, vivendo come io ho vissuto, e dandovi da fare per gli altri come ho fatto io. Siate anche voi persone che sanno costruire un ambiente dove si diffonde questo amore, che non esclude nessuno, ma tutti ne possono ricavare un salutare beneficio”.
E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo»…”
Qui abbiamo la concretizzazione di quello che Gesù ha voluto far capire ai suoi discepoli, cioè un’alleanza nuova. Un’alleanza nuova che non si fa più con il sangue di un animale,  prendendo la legge e dicendo: “Devi ubbidire a questo”, ma un’alleanza nuova che si fa prendendo un pane - non dice un pane azzimo, ma un pane qualsiasi – in mano e dicendo: “Questo pane è il mio corpo”.
Per una più ampia comprensione del gesto si deve sapere cosa significava corpo in quella cultura di oltre 2000 anni fa: tutto quello che rende identificabile una persona; non è soltanto la parte materiale, la carne, ma tutto quello che la rende identificabile, riconoscibile davanti agli altri, come questa persona si è comportata, ha agito, si è manifestata in un modo che non possa essere confusa con nessun altra.
Gesù dice: “Questo è il mio corpo” non la legge che aveva dato Mosè per fare l’alleanza, ma un pezzo di pane, “questo pane rappresenta me, tutto quello che io ho fatto, tutto quello che mi distingue come persona che si è relazionata con voi e che vi ha insegnato uno stile di vita particolare”.
E dice: “prendete, mangiate”, cioè voi, se volete entrare in questa alleanza, “dovete assimilare questo mio modo di comportarmi”(6). Quando noi celebriamo l’eucaristia, non stiamo facendo un atto pio, non stiamo consacrando un amuleto, un rimedio per tutti i mali, ma stiamo dicendo: ”Signore, noi vogliamo vivere come tu sei vissuto”, questo è il gesto dell’eucaristia. “Signore vogliamo fare come tu hai fatto, che il tuo stile di vita sia il nostro stile di vita” questo è l’impegno che noi celebriamo nell’eucaristia, quando ci raduniamo insieme. “Vogliamo vivere, Gesù, come tu hai vissuto, perché abbiamo capito che non c’è un’altra possibilità di diventare persone pienamente riuscite, se non come tu ci hai mostrato”. “Prendendo il tuo corpo, questo pane che rappresenta te, noi vogliamo assimilare che ci entri fino all’ultima cellula con tutto il tuo insegnamento, che tutta la tua testimonianza ci nutra perché possiamo capire che è vero, che è possibile riuscire ad essere uomini, che anche noi ci possiamo dare da mangiare agli altri”.
Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, che è versato per molti…”
E poi il gesto della coppa: perchè mangiare il pane significa accettare Gesu come norma di comportamento, ma bere il vino significa accettare anche la persecuzione ed eventualmente la morte che comporta vivere come Gesù.
Gesu adopera l’immagine del calice perchè in un banchetto, colui che lo presiedeva ne dava uno a ciascuno, ognuno aveva il suo calice perchè nel pensiero ebraico il calice raffigurava simbolicamente la sorte riservata a ciascuno. “Il calice che io bevo” indica la sorte a cui vado incontro, la sorte che mi è destinata; bere il calice è anche l’espressione della morte, del martirio, l’amaro calice della morte.
Nella cena pasquale, ogni invitato ha il suo calice. Nella cena di Gesu, che non è la cena pasquale, Gesu prende il suo calice e lo fa bere agli altri, cioè associa tutti al suo destino. Ecco perche, nel vangelo di Marco, nel Getsemani troveremo l’espressione di Gesu: “Allontana da me questo calice”.
Il pane e la coppa, ci ricordano: “Se uno vuol venire dietro me rinneghi sé stesso…”. Il pane vuol dire questo: io non farò della mia vita qualcosa per sfruttare te, ma un pane per darti vita. Adesso capiamo cosa vuol dire rinnegare sé stesso.
Prendere la coppa, bere la coppa vuol dire: caricarsi della croce, cioè sono pronto a rovinarmi la faccia davanti al mondo pur di dire quanto è grande il mio amore per il mio vicino (il vino è amore, in tutta la tradizione biblica il vino è il simbolo dell’amore della sposa per lo sposo). Non mi importa che cosa gli altri potranno dire o farmi, ma se tu hai bisogno di essere amato, aiutato, sostenuto, io sono qui per questo e non mi importa la risposta degli altri. Per me è molto più importante il bene che io ti posso comunicare, perché tu ne hai bisogno, che non tutte le chiacchiere, critiche, accuse, minacce che mi possono fare.
È questa la nuova alleanza, questo sì che rende libera la persona, capace di gestire la propria vita, dicendo: io l’imposto come finalmente ho capito che bisogna impostarla, non obbedendo a una legge, facendo dei rituali – ove sappiamo che tutto è finzione - ma assimilando una persona che ha fatto delle cose che mi hanno comunicato vita e attraverso questa assimilazione posso anch’io comunicarla.
Mi sento così libero da poter anch’io comunicare questa vita agli altri. Non ho più nessun condizionamento, non c’è più nessuno sopra di me – tu mi potrai gettare in prigione, potrai dire tutte le calunnie che vuoi, mi potrai togliere il lavoro - questo bene che mi sento di fare tu non me lo puoi togliere.
È frutto di una vita che già sta palpitando dentro di me, è la cosa più grande che io ho trovato nella mia esistenza. So che anche se la coppa può essere un momento di dolore, è un dolore che esprime tanto amore (il vino), che esprime una capacità di dono completo, per questo non viene soffocato dal dolore il gesto che voglio fare, ma è sostenuto dall’amore.
Questo è ciò che Gesù, qui, ci sta insegnando. Ai discepoli ha detto: “Uno di voi mi tradirà”. “Chi?”. Non si sa, forse tutti. Gesù non si lascia soffocare da questo dolore dell’abbandono, dell’amarezza, ma dal vino che esprime un amore, che è capace di sostenere anche la prova così forte. “Lo do per voi, per tutti, questo sangue dell’alleanza” che qui spiega “versato per molti”, che, letto in senso semitico, vuol dire per tutti.
Poi l’ultima frase che è un po’ complessa. “…In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Questa frase va vista come un antico residuo della ricchissima tradizione giudaica imperniata sul simbolismo della vite e del vino (meglio, del “frutto della vite”, chiaro semitismo) come pegno di Dio (la vite/vigna Israele) e come promessa di straordinaria prosperità per l’era messianica. Ricordo solo l’episodio degli esploratori inviati da Mosè nella terra promessa, dalla quale ritornano con un grappolo d’uva che dovettero (cfr. Nm 13,23) «portare in due con una stanga» o la testimonianza di Giuseppe Flavio, secondo cui nel tempio di Gerusalemme pendeva la riproduzione in oro di una vite con grappoli della grandezza di un uomo.
L’interpretazione esegetica, anche odierna, del detto di Gesù è fortemente condizionata dal suo inserimento (per molti secondario) nel racconto dell’istituzione eucaristica come memoriale della morte di Gesù; il detto di Gesù è stato inteso sopratutto come “profezia di morte”; alcuni esegeti si spingono fino a dire che è originaria solo la prima parte del v. 25 («non berrò più del frutto della vite»), mentre 25b, sulla venuta del regno, sarebbe una successiva integrazione postpasquale. Comunque sia, sembra più corretto dire che il senso della frase non è: “sto per morire”, bensì: “il regno di Dio sta per arrivare”; il prossimo convito, dopo questo, sarà nel regno.
Per concludere e ribadire che Gesù non ha fatto la cena pasquale, qui Marco ci dà un altra sferzata, dicendo che non si è attenuto a quelle che erano le norme della cena pasquale: “Dopo aver cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.”
Secondo la legge non si poteva uscire nella notte di Pasqua e, finchè non arrivava il giorno, si stava in casa a celebrare l’evento di Mosè e dei padri usciti dall’Egitto. Loro escono, non hanno più le norme rabbiniche, non seguono più le leggi di Mosè: sono uomini liberi.

Note: 1. L’esegesi che segue è stata liberamente tratta dall’intervento di P. Riccardo Perez OSM durante la X Settimana Biblica svoltasi a Montefano (AN) dal 30.06.2003 al 05.07.2003. – 2. Gesù si è sempre rifiutato di accettare per se il titolo di Figlio di Davide (che gli avrebbe attribuito un destino da re conquistatore assolutamente lontano dal suo pensiero e dalla sua azione) e ha rifiutato anche il titolo di Figlio di Dio (ovviamente nella accezione ebraica e non in quella cattolica – cfr. Sal 2,7 e Sal 89,27) che gli avrebbe compromesso la predicazione mettendolo in scontro diretto con il Sommo Sacerdote e gli scribi. – 3. Si usa questo nome perché la presentazione è identica ad una pala di altare a tre lobi dove, in quello centrale, è raffigurato il personaggio principale e, nei due laterali, altri due personaggi legati al personaggio principale da azioni o vicende che ne danno lustro. – 4. Gli Azzimi è un’altra maniera di chiamare la Pasqua nella tradizione giudaica. Gli azzimi sono i pani non lievitati e per una settimana non si mangiava altro pane. Il pane azzimo e l’agnello sacrificato al tempio, arrostito e poi mangiato la sera tra il 14 e il 15 di Nissan (corrispondente più o meno al nostro mese di aprile, ma la data effettiva, ”solare”, si modifica di anno in anno perché costruita su un calendario lunare), erano i due elementi principali nella festività della Pasqua ebraica.
Sicuramente, in origine, gli azzimi avevano un riferimento agricolo; chi mangiava il pane azzimo erano gli agricoltori che, arrivando la primavera, quando si raccoglieva il primo orzo, dicevano: “Perché vada bene il raccolto, non usiamo nulla di vecchio”; nella loro mentalità il lievito, in quanto fermentato, rappresentava il vecchio. Questo rituale agricolo passò in seguito nel piano religioso e si unì alla festa dei nomadi, dei pastori nella quale veniva ucciso il primo agnello; nel rito tagliavano la testa all’agnello e tingevano con il suo sangue le tende. Questo segno doveva scongiurare lo sterminatore – che rappresentava le malattie, le pesti, le carestie ecc. – a passare oltre, preservando il branco che si stava riproducendo e facendo si che i piccoli che nascevano non avessero delle malattie.
Erano rituali legati alla natura, poi, nella memoria del popolo di Israele, verranno unificati in una sola festa, dando ad essi un connotato religioso. Ecco per quale motivo al momento della partenza dall’Egitto, gli Israeliti devono aspergere la porta delle loro case con il sangue dell’agnello, perché, passando, lo sterminatore non avrebbe toccato i primogeniti della casa d’Israele. Ogni anno la Pasqua era considerata l’inizio di una vita nuova. Non si poteva ricominciare l’anno con qualcosa di vecchio e tutto quello che fermenta era considerato roba vecchia. Gli ebrei ancora oggi, prima di arrivare alla festa di Pasqua, fanno delle pulizie assurde (le nostre pulizie di Pasqua di buona memoria vengono di qui): fanno ballare tutta casa andando a ricercare tutto quello che è fermentato: ne hanno il terrore, perché è impuro, è morto, è roba vecchia e non si può celebrare il rito della liberazione con qualcosa di impuro.  – 5. In effetti avrei dovuto scrivere “…non dovremmo avere nessuno che ci comanda…” perché purtroppo il cristianesimo da fede come era agli inizi si è, lungo i secoli, trasformato in religione con precetti, dogmi e riti che annullano la libertà donataci da Gesù. – 6. Il gesto di Gesù deve essere interpretato anche seguendo le indicazioni della filosofia gnostica presente in quel periodo in quella cultura, secondo tale idea assimilare il pensiero, i gesti e le intenzioni di una persona era un po’ come nutrirsi di questa persona per alimentare la propria crescita. (cfr. Gv 6,54-56)