Il sacramento della Riconciliazione (o della
Confessione)
1. Premessa
La Riconciliazione
è un sacramento comune a diverse chiese cristiane, come quella cattolica e
quella ortodossa, anche se con sostanziali differenze.
Con questo sacramento
un credente, se sinceramente pentito, ottiene da Dio la remissione dei peccati.
È un sacramento amministrato necessariamente da un vescovo o un presbitero
autorizzato ed è anche chiamato con il nome di Penitenza o Confessione.
Esso è uno dei due
sacramenti detti "della guarigione" assieme all'Unzione degli infermi,
in quanto sono volti ad alleviare la sofferenza del credente (sofferenza fisica
con l'unzione dell'ammalato, spirituale con la riconciliazione del peccatore).
E’ anche un sacramento molto discusso, in
particolare dalla seconda metà del XX secolo, sia per i dubbi e le incertezze
sulla sua istituzione e soprattutto sulla tendenza, spesso inquisitoria, dei
confessori memori di quando la confessione veniva utilizzata come strumento
politico di gestione e pressione sulle masse popolari.
2. L’Istituzione.
Dal punto di vista
teologico il sacramento della Riconciliazione ha la sua base in alcuni passi
del NT che qui si riportano:
a) Gv 20,19-23: “La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse
le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne
Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le
mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha
mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete
lo Spirito Santo. A chi
rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno
non rimessi»."
Presentandosi in mezzo ai discepoli, egli dice loro: “Pace a voi” (in
ebraico shalôm aleichem).
Questo saluto è
tipico del costume ebraico(1); ma fra poco apparirà che con esso
egli intende esprimere qualcosa di più di un semplice saluto.
Gesù, dopo aver pronunciato la parola pace,
cioè felicità, testimonia (quello che si dice deve sempre essere testimoniato)
a questi discepoli che si erano nascosti per paura di fare la fine di Gesù, ciò
che lui ha fatto per loro: mostra i segni dei chiodi nelle mani.
Non è sbagliato a questo punto ricordare che
l’ordine di cattura non era solo per Gesù, ma per tutto il gruppo, perché
pericoloso non è Gesù, pericoloso è il suo messaggio(2). Al momento
della cattura, Gesù, che si trova momentaneamente in una posizione di forza(3),
dice: se cercate me, lasciate che questi se ne vadano; in buona sostanza fa un
baratto. E’ il pastore che dà la vita per le pecore.
Gesù mostra loro
le mani e il costato: con questo gesto egli intende non soltanto dimostrare la
realtà della sua presenza, ma anche ricordare come sia proprio in forza della
sua morte in croce che egli si presenta a loro nella sua nuova realtà.
L’apparizione di
Gesù provoca nei discepoli una reazione di profonda gioia: non si tratta
semplicemente della soddisfazione di rivedere in vita una persona cara, ma
piuttosto della gioia escatologica(4), strettamente collegata con la
pace, che la presenza di Gesù porta con sé, in quanto significa l’adempimento
della salvezza.
L’evangelista
non dà altri dettagli circa l’apparizione del Risorto, ma si limita a riferire
il messaggio da lui rivolto ai discepoli.
Anzitutto Gesù
ripete il saluto: “Pace a voi”.
L’usuale formula di saluto diventa qui espressione di un dono che ha per
oggetto la pace, promessa da Gesù durante l’ultima cena (cfr. Gv 14,27) e attuata in forza della sua morte. Egli poi
prosegue: “Come il Padre ha mandato me,
anch’io mando voi”.
Il dono della
pace non riguarda solo i discepoli, ma deve essere esteso a tutta l’umanità.
Perciò si giustifica il loro invio, che è chiaramente universale: esso infatti
non è solo modellato su quello che era stato l’invio di Gesù da parte del
Padre, ma ne è anche e soprattutto la conseguenza e il prolungamento. Si
attuano così le parole con cui Gesù, nell’ultima cena, ha affidato ai discepoli
il compito di continuare nel mondo l’opera da lui attuata nella sua morte (cfr. Gv 13,20; 17,17-19).
Gesù poi, alitando
sui discepoli, conferisce loro lo Spirito. Anch’esso era stato promesso nei
discorsi della cena (cfr. Gv 14,16-17.26;
15,26; 16,13): il gesto di alitare (emphysaô), che è suggerito dal
termine «Spirito» (pneuma, soffio), richiama il racconto della creazione
del primo uomo, che è diventato un essere vivente solo in forza del soffio
divino (Gen 2,7), suggerendo così
nuovamente che la venuta dello Spirito rappresenta una nuova creazione. Lo
Spirito viene direttamente da Gesù, rappresenta quindi la potenza di Dio che
promana dalla sua persona, dalla sua opera e dalla sua morte in croce, dove
egli «ha dato lo Spirito» (Gv 19,30).
Solo lo Spirito è in grado di assimilare profondamente i discepoli al Maestro,
mettendoli in piena sintonia con le sue aspirazioni e i suoi progetti.
Come conseguenza
di questo dono egli dà ai discepoli la capacità di rimettere i peccati: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi
e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi».
Giovanni fa uso
a modo suo di questo antico detto per delineare il compito che i discepoli,
guidati e animati dallo Spirito, dovranno portare a termine in questo mondo: in
sintesi essi dovranno rendere presente la salvezza operata da Cristo,
significata nel termine “pace”, che
comporta l’eliminazione del peccato e la riconciliazione di tutti gli uomini
con Dio e tra di loro.
Non si dice in
che modo dovranno attuare il mandato di Gesù, ma si suppone che essi dovranno
farlo secondo le modalità da lui adottate, cioè mediante l’annunzio,
l’insegnamento, l’esempio, impegnandosi per la formazione di comunità vive in
cui tutti fanno l’esperienza dei nuovi rapporti instaurati da Gesù(5).
Solo in seguito, il brano sarà letto, come spesso hanno fatto i padri e i teologi
nei secoli successivi, in riferimento ai sacramenti che significano e attuano
il perdono (battesimo e confessione6).
Non è un potere che Gesù concede ad alcuni, ma
una capacità, una responsabilità di tutta la comunità cristiana. La comunità
cristiana secondo il vangelo di Giovanni deve essere il luogo dove splende la
luce. La luce non lotta contro le tenebre, la luce deve splendere. E quando la
luce allarga il raggio d’azione della sua luminosità, la tenebra si ritira.
Allora, quanti vivono sotto la sfera del
peccato - e la lingua greca distingue vari modi di peccato (vedi più avanti):
il termine adoperato dall’evangelista non indica la colpa occasionale, lo
sbaglio, ma indica una direzione sbagliata di vita - ebbene, assicura Gesù,
quanti vivono una direzione sbagliata di vita e vedono brillare la luce di
questa comunità, vedono lo splendore di questo amore e se ne sentono attratti
ed entrano entro nel raggio d’azione di questa luce, il loro passato viene
completamente cancellato.
Quanti al contrario sono nelle tenebre e
vedono in questa luce una minaccia al loro interesse, al loro prestigio, man
mano che la luce si allarga, si ritirano sempre più nelle tenebre, vanno sempre
più nella parte più tenebrosa, perché come ha detto Gesù chi fa il male odia la
luce.
Quindi non è un potere che Gesù ha dato ad
alcuni, ma una responsabilità di tutta la comunità. La comunità cristiana deve
essere talmente traboccante d’amore (Giovanni usa l’immagine del profumo che
inonda tutta la casa) che quanti sentono il desiderio di pienezza di vita e se
ne sentono attratti, hanno il passato cancellato e quindi possono cominciare
una vita nuova. Quanti invece non vogliono questo man mano che la luce si
espande, loro si ritirano sempre più nella cappa delle tenebre e dove ci sono
le tenebre non c’è vita, c’è la morte.
L’esegesi
che ho riportato, ormai accettata dalla stragrande maggioranza dei teologi
cattolici, mal si accorda con la concezione giuridica del sacramento della
riconciliazione ed occorrerebbe applicare quanto previsto dalla riforma
liturgica così come riportata nel Catechismo della Chiesa Cattolica. Questa
riforma, che prevedeva anche la celebrazione comunitaria del sacramento, è
stata fermata da Papa Giovanni Paolo II con l’esortazione apostolica del 2
dicembre 1984. E’ opportuno notare che tale esortazione, applicata ovunque in
Italia con poche eccezioni, è stata quasi del tutto misconosciuta all’estero
dove la celebrazione comunitaria del sacramento è la forma più usata.
b) Mt 16,18-29: “... E io ti
dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte
degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi dei regno dei
cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò
che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli”.
c) Mt 18,18: “In verità vi dico:
tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto
quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo".
Tratteremo questi due
brani insieme, perché riguardano un frase molto antica ed identica in entrambi
i brani.
Note: 1. Il significato di questo saluto nella cultura
ebraica va al di là di quello che è il significato etimologico della parola pace; con questa parola si augura
all’oggetto del saluto la prosperità materiale, figli maschi numerosi, una
moglie operosa e una morte “sazio di anni”, quindi una vita in accordo con Dio
e con gli uomini. – 2. Tanto è vero che quando Gesù si troverà davanti
al Sommo Sacerdote, questi ignora Gesù, gli chiede soltanto dei discepoli,
vuole sapere dove sono, cosa fanno e Gesù non risponde per proteggerli. – 3. In
prossimità della Pasqua vi erano in Gerusalemme decine di migliaia di
pellegrini, molti dei quali Galilei, con i quali non si poteva scherzare. I
Galilei erano teste calde, quasi tutti armati e quasi tutti appartenenti al
movimento degli zeloti, pronti a difendere un loro concittadino dalle malsane
idee dei fratelli della tribù di Giuda. I Galilei, durante la Pasqua, vivevano
quasi tutti nelle grotte esistenti lungo le pendici del Monte degli Ulivi,
dove, molto probabilmente, anche Gesù e i Dodici avevano affittato una grotta
per dormire. Queste grotte sono ancor oggi visibili e visitabili da chi si reca
in Terra Santa. Sarebbe bastato un grido di aiuto di Gesù e i galilei presenti
avrebbero facilmente avuto ragione delle guardie del Tempio che, per
disposizione romana, non potevano essere armate che di bastoni. – 4. Ovvero la gioia relativa all’avverarsi delle profezie
degli “ultimi giorni”. – 5. La Celebrazione Comunitaria del sacramento della
Riconciliazione tramite la lettura ed il commento di un brano di vangelo, in
sostituzione della formula tridentina (vedi Catechismo della Chiesa Cattolica
n. 1482), parte esattamente da questa constatazione teologicamente molto importante.
Sottolineo il rammarico che questa modalità celebrativa sia quasi mai applicata
nelle parrocchie italiane in contrapposizione a quanto fatto in quelle estere
(ho avuto esperienze dirette in Francia, Svizzera, Olanda, Germania ed in USA)
ove spesso è affiancata anche dalla assoluzione dall’altare, visto l’esiguo
numero di sacerdoti esistente. E la partecipazione dei fedeli è imponente,
specie se paragonata a quanto accade in Italia. – 6. Penso sia opportuno
ricordare che la frase: “a coloro a cui non perdonerete, non saranno
perdonati” non va intesa come una facoltà dei discepoli
(che, del resto, sarebbe in contrasto con altre parole di Cristo e con il Padre Nostro) ma un avvertimento
che sottolinea una responsabilità che tutti noi abbiamo nei confronti degli
altri in caso di un nostro rifiuto al perdono.
(segue la prossima
domenica)