XIV Domenica tempo Ordinario
- Mt 11,25-30
In quel tempo Gesù
disse: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai
nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o
Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. Tutto è stato dato a me
dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il
Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.
Venite a me, voi
tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo
sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita.
Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Matteo(1), dopo il secondo
dei grandi discorsi di Gesù, nel quale è affrontato il tema della missione
(c.10), e prima del discorso parabolico (c.13), raccoglie in due capitoli
(cc.11-12) una serie piuttosto eterogenea di brani ricavati dal Vangelo di Marco
e dalla fonte Q(2), il cui filo conduttore è, da una parte, la
crescente ostilità contro Gesù sviluppata dagli scribi e dai farisei, e
dall’altra l’atteggiamento positivo di fede dei discepoli, che accolgono la sua
parola e lo seguono con un’adesione sempre più profonda.
Le folle, in questa sezione, stanno
sullo sfondo: si entusiasmano per i segni che Gesù compie, ma sono incapaci di
cogliere il senso della sua attività.
La sezione si apre con l’intervista
fatta a Gesù da parte di due discepoli di Giovanni il Battista a cui fa seguito
un giudizio di Gesù sullo stesso Giovanni (Mt
11,1-15); viene poi riportato un rimprovero (non proprio un’invettiva, ma
quasi) contro la presente generazione e le città del lago (Mt 11,16-24).
A questo punto si situa il brano in
esame. Ad esso fa seguito una serie di controversie con i farisei su temi
connessi più o meno direttamente con la legge (Mt 12,1-45). Conclude la raccolta il brano sui veri parenti di
Gesù (Mt 12,46-50).
Il brano in esame si compone di tre
strofe: la lode di Gesù al Padre, la conoscenza reciproca tra il Padre e il
Figlio e l’invito di Gesù a prendere il suo giogo. Le prime due si trovano
anche in Luca, che le riporta subito dopo il ritorno dei settantadue discepoli
dalla missione (Lc 10,21-22 = fonte Q),
mentre la terza appartiene al materiale che Matteo ha reperito in esclusiva. È
probabile che si tratti di tre detti originariamente indipendenti, poi
collegati tra di loro in sede redazionale.
Gesù si rivolge a Dio con queste parole:
«Ti rendo
lode, Padre, Signore del cielo e della terra»(3).
L’espressione «ti rendo lode» (in
greco exomologoumai) esprime un ringraziamento, congiunto a una
professione di fede, che ha per oggetto il suo piano salvifico (cfr. Tb 8,15-17).
Nei confronti di Dio Gesù usa l’appellativo
di «Padre». Probabilmente questo
termine è la traduzione dell’aramaico «abbà»
(papà) con il quale i bambini si riferivano al loro genitore (cfr. Mc 14,36): esso manifesta quindi
l’intimità filiale di Gesù con Dio. Oltre che Padre, Dio è il Signore del cielo
e della terra: questo appellativo mette in luce il ruolo svolto da Dio nella
creazione, che fa di lui il sovrano universale. In forza di questa sua
prerogativa, Dio è l’unico che conosce i destini ultimi del mondo.
E’ poi data la motivazione di questa
lode: «... perché hai nascosto queste cose ai
sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli.» (v. 25b). «Queste
cose» probabilmente sono “i misteri
del regno dei cieli” (cfr. Mt 13,11),
che corrispondono al progetto salvifico di Dio, manifestato e attuato da Gesù
per mezzo della parola e dell’azione.
La frase si ispira alla letteratura
sapienziale, nel cui ambito si era sviluppata l’idea secondo cui la sapienza di
Dio è nascosta ai sapienti di questo mondo (cfr.
Gb 28,12-13.21; Bar 3,31), ma è inviata da Dio al suo popolo, dove prende
dimora sotto le spoglie della legge mosaica (cfr.
Pr 8,32-36; Sir 24,8.22).
Gesù si rifà a questa concezione
presentando se stesso, e non la legge mosaica, come piena manifestazione della
sapienza divina. Questa è preclusa a coloro che ritengono di sapere mentre è
disponibile a coloro che, consapevoli dei propri limiti, si aprono
spontaneamente ad essa. I piccoli (letteralmente gli ”infanti”) sono dunque in
primo luogo i discepoli, e poi tutti coloro che erano disprezzati dai farisei e
considerati lontani da Dio, perché non conoscevano e non praticavano la legge (cfr. Mt 9,12-13). I “dotti” sono invece i farisei e gli
scribi che si consideravano come gli unici interpreti ufficiali della legge e
quindi come i supremi conoscitori dei misteri di Dio.
Questa strofa termina con una nuova lode
di Gesù nei confronti del Padre: « Sì, o Padre, perché
così hai deciso nella tua benevolenza», letteralmente
«beneplacito» (in greco eudokia); questa è la volontà salvifica di
Dio, cioè la sua decisione di salvare l’umanità, che solo i piccoli e gli umili
riescono a comprendere.
Nella seconda strofa viene esplicitato
quanto era sottinteso nella prima, e cioè il ruolo del Figlio nella rivelazione
dei misteri divini. Tutto è stato consegnato a lui dal Padre, e nessuno conosce
il Figlio se non il Padre né alcuno conosce il Padre se non il Figlio e colui
al quale il Figlio lo voglia rivelare (v. 27). L’affermazione iniziale secondo
cui tutto è stato «consegnato» a Gesù richiama il detto postpasquale: «A me è stato dato ogni potere» (Mt 28,18), con la differenza che qui
non si tratta di un potere, ma di una conoscenza. Tale conoscenza è analoga a
quella di Mosè che secondo i rabbini aveva ricevuto sul monte Sinai tutta la
Legge, cioè la Torah sia scritta sia orale. Ma nel caso di Gesù designa
un’esperienza profonda del piano salvifico di Dio, frutto di un rapporto
personale d’amore con lui. In base al progetto misterioso del Padre questa
conoscenza deve essere estesa attraverso il Figlio ai suoi discepoli e a tutti
coloro che sono disposti a entrare in comunione con lui.
La terza strofa, l’unica esclusiva di
Matteo, è formata da due frasi parallele. Anzitutto Gesù invita tutti coloro
che sono stanchi e affaticati (in greco pephortismenoi, aggravati da
pesi) ad andare da lui, promettendo che egli li farà riposare.
Coloro che sono affaticati, perché
piegati sotto un pesante fardello, sono quanti sono oppressi dal peso della
legge mosaica, che essi non sono in grado di portare.
Il
popolo ebraico era veramente affaticato ed oppresso soprattutto dalle autorità
religiose che, come Gesù denuncerà più avanti(4), avevano inasprito
la Legge caricandola di un’infinità di precetti a cui risultava ormai
impossibile ottemperare e che rendevano durissima la vita alle persone(5).
Gesù usa
la parola “giogo” richiamando un’espressione rabbinica del suo tempo, “giogo
della legge”, molto frequente e conosciuta, già utilizzata nell’AT. Chi lo
ascoltava capiva subito a cosa voleva alludere.
Gesù si
definisce “mite e umile di cuore”; anche questo è un richiamo all’AT e anche qui chi lo
ascoltava ne comprendeva immediatamente il significato; per noi, dopo 2000
anni, queste parole assumono un significato che è lontano dalle intenzioni di
Gesù. Gesù non voleva certo intendere di essere una persona silenziosa e umile,
quasi sottomessa che è il significato moderno della parola “mite”. Si pensi al
gesto dissacrante di entrare nel tempio fustigando i gestori delle attività
commerciali li presenti, per smentire clamorosamente questa definizione.
Nell’AT
le persone miti e umili di cuore erano i cosiddetti “poveri”, gli stessi citati
nelle beatitudini(6); erano le persone prive di potere, prive,
quindi, della capacità di influire sul proprio destino e perciò totalmente
nelle mani delle persone potenti. Altrove Gesù li definisce “piccoli” o
“bambini” perché nella società ebraica non contavano nulla, esattamente come i
minorenni, cioè i bambini al disotto dei dodici anni.
Gesù
attribuisce a sé questa definizione, rivendica a sé la qualifica di povero, per
indicare la strada da seguire. “Il
mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero”
afferma Gesù, la mia strada non porta a leggi e precetti innumerevoli, a
divieti e sacrifici, a digiuni e mortificazioni. La strada di Gesù è
semplicissima: “amatevi l’un l’altro come io vi ho amato”, cioè fatevi servi
l’uno dell’altro ed avrete instaurato il regno di Dio.
Purtroppo
queste parole non sempre sono state ascoltate; nel corso dei secoli il cristianesimo
ha inglobato le culture di altri popoli fino a stravolgere le parole di Gesù e
tornare alla concezione ebraica dei precetti e dei divieti.
Anche Paolo aveva avvertito
il pericolo di un ritorno alla religione dei divieti e nella lettera ai
Colossesi aveva invitato i convertiti a rifiutare queste imposizioni: “Nessuno
dunque vi condanni più in fatto di cibo o di bevanda, o riguardo a feste, a
noviluni e a sabati: tutte cose queste che sono ombra delle future; ma la
realtà invece è Cristo! … Se pertanto siete morti con Cristo agli elementi del
mondo, perché lasciarvi imporre, come se viveste ancora nel mondo, dei precetti
quali «Non prendere, non gustare, non toccare»? Tutte cose destinate a
scomparire con l’uso: sono infatti prescrizioni e insegnamenti di uomini!
Queste cose hanno una parvenza di sapienza, con la loro affettata religiosità e
umiltà e austerità riguardo al corpo, ma in realtà non servono che per
soddisfare la carne”.
S. Agostino riprenderà questi concetti
affermando: “Ama e vivi come vuoi”. L’amore prima di tutto; il bene dei
fratelli come unico obbiettivo della nostra vita e tutto il resto perde senso,
perde significato. L’amore di Dio non deve essere meritato con osservanze di
digiuni e mortificazioni, l’amore di Dio arriva sempre su di noi, qualunque
cosa facciamo; dobbiamo solo accettarlo e riversarlo sugli altri e con questo
avremo adempiuto all’unico comandamento di Cristo.
Il brano si avvicina notevolmente al
linguaggio della scuola giovannea, in cui affermazioni analoghe sono frequenti,
ma non dipende da essa. Il suo modello di riferimento è piuttosto la tradizione
giudaica, che da una parte aveva esaltato la figura di Mosè, sottolineando la
sua intimità con Dio a partire da alcuni testi biblici (Es 33,12-13; Nm 12,8; Dt 34,10) e dall’altra aveva personificato
la sapienza, presentandola come la suprema manifestazione di Dio all’umanità.
Con questo testo attinto da Q, Matteo intende esortare i suoi lettori a
mettersi al la scuola di Gesù che, con la sua vita e il suo insegnamento, ha
portato a compimento le Scritture.
Note:
1. L’esegesi qui riportata è liberamente tratta da un’articolo
redatto da Padre Alessandro Sacchi su Nicodemo.net. – 2. La fonte Q o documento Q è un'ipotetica "fonte" (in tedesco Quelle,
da cui Q) che si suppone sia stata utilizzata nella composizione dei
vangeli sinottici.
Q
conterrebbe una raccolta di detti di Gesù, forse trasmessa per via orale, ma
che a un certo punto dovrebbe essere stata posta per iscritto. Questa
conclusione è basata sul fatto che il materiale di Q è presente in
Matteo e in Luca nello stesso ordine, una volta che si tenga conto
dell'abitudine dell'autore di Matteo di riunire il materiale per
argomenti, caratteristica che punta alla presenza di una fonte scritta. Molti
detti di Q implicano un ambiente culturale e geografico corrispondente a
quello palestinese e un punto di vista anti-farisaico: coloro che tramandano la
tradizione associata a Q si ritengono rispettosi della Legge e
proclamano il giudizio contro città palestinesi (Corazin, Betsaida e Cafarnao) sia all'inizio
che alla fine di Q.
La teologia di Q sembra dunque indirizzata primariamente ad
Israele, e per questo motivo alcuni studiosi ritengono che Q sia stato
composto in Palestina, probabilmente nella zona settentrionale. Altri studiosi,
pur notando una predilezione per l'ambiente della Galilea, sono più cauti nel
localizzare la zona di composizione di Q con quelle terre, facendo
notare come molti temi di Q possono aver avuto origine altrove nel mondo
dell'ebraismo ellenizzato; del resto la fonte Q sarebbe stata utilizzata
per la composizione di due vangeli scritti in lingua greca in Chiese fuori
dalla Palestina.
La fonte Q
presenta alcuni detti contro Gerusalemme e contro il Tempio che, a differenza
di altre "profezie" contenute nei vangeli, non presuppongono alcun
intervento militare; per tale motivo Q viene datato a prima dell'anno 70
d.C., in cui i Romani assediarono Gerusalemme e distrussero il Tempio. Sebbene
una datazione più precisa sia difficile, vi sono alcuni indizi che suggeriscono
una data tra il 40 e il 50. Q nacque
in un ambiente che comprendeva sia predicatori erranti del movimento di Gesù
che lo sviluppo di congregazioni locali, dunque un ambiente esistente a ridosso
degli inizi del movimento, addirittura prima della Pasqua. La fonte dei detti
di Q presuppone una persecuzione degli ebrei palestinesi nei riguardi
dei gruppi appena fondati; Paolo di Tarso parla di una persecuzione dei
cristiani giudei come già avvenuta in 1Tessalonicesi lettera datata al 50,
mentre l'esecuzione del capo della Chiesa di Gerusalemme, Giacomo il Giusto, da
parte del re giudeo Erode Agrippa I avvenne intorno al 44. Infine Q
presenta i gentili
in buona luce, ad indicare che la predicazione presso di loro era probabilmente
già iniziata, cosa che avvenne proprio tra il 40 e il 50. – 3. Il grido di giubilo è un inno stupendo di lode, rivolto da Gesù al Padre,
perché gli ha accordato la possibilità di diffondere, mediante la sua
predicazione, la rivelazione del regno tra i piccoli. – 4. Mt 23, 4: “Legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma
loro non vogliono muoverli neppure con un dito”. – 5. La situazione in
allora non sembra molto diversa da quella attuale: anche la Chiesa cattolica ha
aggiunto, rifacendosi alla tradizione e non ai vangeli, precetti e precetti
sopra quell’unico comandamento lasciato da Gesù e, in pratica, soffocandolo. La
differenza sostanziale è nella reazione del popolo che, in luogo della
disperazione dei fratelli ebrei, ha innalzato il velo dell’indifferenza e del
rifiuto come arma di salvezza personale. Di questo rifiuto, come dice il
Concilio Vaticano II, unica colpevole è la Chiesa cattolica (vedi Gaudium e Spes n.
19). – 6. Mt 5,3 e seguenti.