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Le esegesi riportate in questo blog non sono frutto delle mie capacità, in realtà molto modeste. Le ricavo leggendo diversi testi dei più importanti specialisti a livello mondiale, generalmente cattolici, ma non disdegno di verificare anche l’operato di esegeti protestanti, in particolare anglicani. Se si escludono alcuni miei approfondimenti specifici, per la parte tecnica dell’analisi critica il mio testo di riferimento è questo:

- Giovanni Leonardi
, Per saper fare esegesi nella Chiesa, 2007 Ed. Elledici (testo promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale). Questo testo è molto semplice, veramente alla portata di tutti; per migliorare la capacità di analisi deve essere affiancato da altri due testi per la parte linguistica, anch’essi a livello divulgativo:

- Filippo Serafini,
Corso di greco del nuovo testamento, 2003 Ed. San Paolo.
- Luciana Pepi, Filippo Serafini,
Corso di ebraico biblico, 2006 Ed. San Paolo (da usare solo nel caso si voglia approfondire l’etimologia semitica sottesa ai vocaboli greci).

I testi della Bibbia in lingua originale sono pubblicati da varie case editrici; in particolare per i Vangeli segnalo l'ottimo testo della Edizioni Enaudi e quello sinottico della Edizioni Messagero in quanto hanno i testi greco ed italiano a fronte. Si trovano anche in vari siti in rete, ma non sempre sono testi aggiornati con le ultime scoperte a livello archeologico o paleografico.
Per la parte sostanziale normalmente faccio riferimento a documenti prodotti dalle fonti seguenti, che riporto in ordine decrescente di frequenza di utilizzo:

- École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), retto dai Domenicani e dove ha lavorato anche il Card. Martini.
- Centro Studi Biblici “G. Vannucci” – Montefano (An), retto dall’Ordine dei Servi di Maria.
- Sito www.Nicodemo.net gestito da P. Alessandro Sacchi.
- Università degli studi di Torino – Corso di Letteratura cristiana antica – Prof.essa Clementina Mazzucco.
- Fr. Dante Androli, OSM, docente di esegesi alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum – Roma
- Università degli studi La Sapienza di Roma – Corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Prof.essa Emanuela Prinzivalli.
- Biblia, Associazione laica di cultura biblica – Settimello (Fi)


lunedì 1 dicembre 2014

Immacolata Concezione



Immacolara Concezione - Lc 1,26-38
Al sesto mese, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L'angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all'angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l'angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch'essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l'angelo si allontanò da lei.

Mi sembra opportuno premettere all’analisi del brano che il racconto dell’annunzio a Maria1 ha un chiaro scopo cristologico: esso è un racconto teologico, (quindi lontano dalla realtà dei fatti ma non dal loro profondo significato), che serve a Luca per presentare, fin dall’inizio del vangelo, il ruolo particolare che Gesù riveste nel piano di Dio. Egli è l’uomo che, come i grandi personaggi dell’AT, è stato scelto da Dio fin dalla nascita per un compito straordinario. In più egli ha un rapporto specialissimo con Dio, di cui porta a compimento il progetto di salvezza, destinato a tutta l’umanità. Per questo il racconto dell’annunzio a Maria rivela tutto il suo significato per la vita dei credenti solo se è letto sul piano della fede e dell’esperienza religiosa, che si serve di immagini e di simboli che richiamano realtà trascendenti; una interpretazione miracolistica rischia di travisarne il significato e di farne un ostacolo sul cammino di coloro che vogliono fare un’autentica esperienza di fede.
“Al sesto mese…” il riferimento2 è al brano che precede (Lc 1,5-25) in cui si narra l’annunzio a Zaccaria della nascita miracolosa di Giovanni; i fatti si svolgono quindi all’inizio del sesto mese di gravidanza di Elisabetta. L’indicazione non ha solo significato temporale, ma sostanziale in quanto nella cultura orientale si riteneva che al sesto mese3 di gravidanza entrasse nel feto la vita (in greco zoe ed è intesa come vita di relazione) e quindi iniziasse a percepire il mondo esterno; questo permetterà, nel brano successivo, di giustificare il sobbalzo di gioia che avverte Elisabetta al comparire di Maria in casa sua.
“…l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria.” Quando nella Scrittura si parla di angelo Gabriele non si indica una persona ben identificata, ma è un modo di annunciare la presenza di Dio in tutta la sua potenza4; il colloquio di Maria non è quindi con un messaggero, ma con Dio stesso.
Maria5 è nata a Nazaret, da genitori evidentemente poco soddisfatti di aver generato una femmina. Certo non poteva nascere in un posto peggiore. In quell’epoca Nazaret era un microscopico paese in una regione malfamata: la Galilea. La Galilea era ritenuta esclusa dall’azione di Dio: “Studia e vedrai che non sorge profeta dalla Galilea”, si dice nel vangelo di Giovanni (Gv 7,52), dimenticando però il profeta Giona (2Re 14,25).
La Galilea è lontana dal centro del potere politico e religioso, è regione di frontiera con una popolazione che è una mescolanza di giudei e di pagani, e quindi, secondo la visione ebraica, di impuri, di peccatori, di reietti. Il territorio è arido e brullo; i suoi abitanti sono rozzi e duri. I galilei si distinguono per essere tra i più temerari e feroci affiliati alla setta degli zeloti, i fanatici fautori della lotta armata contro l’invasore romano, e Nazaret è proprio uno dei loro covi6. I giudei non nascondono il loro disgusto per i rozzi galilei e lo manifestano apertamente con una ricca serie di proverbi, racconti e detti popolari7.
In questo ambiente non proprio idilliaco, Maria, come tutte le donne ebree del suo tempo, è divenuta maggiorenne a undici anni e, a dodici anni al più tardi, ha l’obbligo di sposarsi8. Obbligo, non possibilità: nel mondo ebraico e orientale non è concepibile la figura della donna indipendente e la verginità è maledetta da Dio (Gen 1,26); senza un marito od un figlio maggiorenne, la donna ebraica è considerata un essere senza testa (Ef 5, 23).
Il matrimonio non è un’istituzione religiosa e neppure sociale, ma una sorta di contratto privato dove le parti contraenti non sono né la sposa né lo sposo, bensì le rispettive famiglie. Con questo sistema, la ragazza si trova in qualche modo comprata dalla famiglia del marito ed è realmente un oggetto nelle loro mani, una sorta di recipiente per ottenere dei figli9. Lo sposalizio si tiene in casa della donna; raggiunto l’accordo sul prezzo, lo sposo copre con il proprio mantello la sposa e pronuncia la formula “Tu sei mia moglie” e la sposa deve rispondere “Tu sei mio marito”. Con questa semplice cerimonia Maria è divenuta “promessa sposa di Giuseppe”10. Dopo un anno, quando la maturità sessuale di Maria lo permetterà, avrà luogo la seconda fase del matrimonio, la convivenza.
Maria è qui chiamata parthenos, cioè giovinetta, e pertanto, in generale, una vergine; la traduzione di parthenos con il termine italiano vergine è chiaramente un omaggio alle concezioni teologiche acquisite, ma non costituisce la parte fondante del racconto.
Giuseppe è un costruttore11 (in greco o tekton – cfr Mc 6,3) di circa 20 anni12, un artigiano che vive del proprio lavoro, che ha dei dipendenti e quindi, in rapporto alle condizioni economiche di allora, una persona di ceto medio. Secondo alcuni autori dei primi secoli13, si dice che fosse soprannominato “il Pantera”, come suo padre, per il carattere non proprio cordiale; inoltre lui è un giusto14 dinanzi a Dio.
Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te».” L’angelo si rivolge a lei con l’usuale saluto greco kaire, che etimologicamente significa: «rallegrati». Inusuale è invece l’elogio che l’angelo le fa chiamandola «piena di grazia» (kekaritomenê, cioè favorita, diletta: cfr.Ef 1,6). Maria è dunque la donna «ricolma del favore di Dio»: questa espressione riguarda non tanto il momento del suo concepimento, ma il momento attuale, in cui Dio le conferisce una missione che fa di lei la sua collaboratrice nella grande opera della redenzione. La sua chiamata e la sua missione sono poste sotto il segno della Provvidenza: «Il Signore è con te», come spesso è detto nei racconti di vocazione dell’AT (cfr: Es 3,12; Gdc 6,12; Ger 1,8.19;15,20; Gen 26,24;28,15). In questo contesto la formula greca di saluto (kaire) sembra alludere anche all’oracolo di Sofonia: «Gioisci, figlia di Sion..; rallegrati,... il re di Israele è il tuo Signore in mezzo a te. Non temere, Sion... il tuo Dio in mezzo a te è un Salvatore potente» (Sof 3,14-17; Zc 9,9).
“A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo.” Le parole che le sono rivolte provocano il turbamento di Maria. L’angelo perciò la invita a non temere: “L'angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».”
Dio quindi vuole stabilire un rapporto speciale con lei per assegnarle un compito specifico nel suo progetto di salvezza. Queste parole alludono all’oracolo di Is 7,14; Maria è dunque la giovanetta di cui parla il profeta e il suo figlio non è un semplice discendente della casa davidica, ma il Messia atteso per gli ultimi tempi. In sintonia con il testo ebraico dell’oracolo e in forza del ruolo di genitrice che le è assegnato, sarà lei che gli darà il nome15. Si tratta però non di un nome qualsiasi, ma di un nome deciso da Dio, nel quale è indicata la missione futura del bambino (Jhoshua [Gesù] = Jhaweh salva). A differenza di Giovanni il Battista, il quale «sarà grande davanti al Signore», egli sarà grande in senso assoluto, come Davide (cfr. 2Sam 7,11). Inoltre sarà chiamato «figlio dell’Altissimo», come i re davidici che assumevano questo titolo nel momento della loro intronizzazione (cfr. 2Sam 7,14; Sal 2,7;110,3). A lui infatti Dio conferirà il trono di suo padre Davide (cfr. 2Sam 7,12). Ma non si tratterà di un regno limitato nel tempo e nello spazio, bensì di un regno che durerà in eterno. Mentre Giovanni il Battista sarà il profeta degli ultimi tempi e il precursore del Messia, il figlio di Maria sarà il Messia stesso, nel quale troverà il suo compimento definitivo il regno di Davide.
Tra i documenti di Qumran si è scoperto un frammento in cui si trovano parecchie espressioni che corrispondono a quelle del brano in esame: «[Egli] sarà grande sulla terra; Tutti far[anno pace] e [lo] serviranno. [Sarà chiamato figlio d]el [Dio G]rande, e sarà chiamato con il suo nome. Sarà salutato come Figlio di Dio e lo chiameranno figlio dell’Altissimo..., e il suo regno sarà un regno eterno» (4Q 246). Il frammento è troppo guasto per permettere una precisa identificazione del personaggio di cui si parla, ma è sufficiente per dimostrare che Luca, per indicare l’identità di Gesù, ha ripreso espressioni note nel suo ambiente. Nel contesto giudaico del I secolo le parole «figlio», «figlio di Dio» o «figlio dell’Altissimo», non avevano il significato di un legame di sangue, cioè di una discendenza diretta, ma quello di un rapporto unico e speciale che legava il re, e quindi a maggior ragione il futuro Messia, al Dio dell’Alleanza (cfr. J.C. Vanderkam, Manoscritti del Mar Morto, Città Nuova, Roma 1995,195-196).
Allora Maria disse all'angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Una difficoltà si oppone all’attuazione del disegno di Dio e Maria chiede una spiegazione. Sul piano letterario la domanda corrisponde in parte a quella di Zaccaria (cfr. Lc 1,18: «Come posso conoscere questo?»). Ma mentre questi chiedeva ulteriori garanzie, Maria chiede spiegazioni sulle modalità in cui si realizzerà l’annunzio messianico, dal momento che «non conosce uomo». Questa domanda lascia perplessi: Maria era giovanissima, quindi vergine, ma presto si sarebbe unita a Giuseppe, suo sposo, figlio di Davide, dal quale poteva immaginare di avere il figlio preannunziato dall’angelo. Quale era dunque la sua difficoltà? Diverse soluzioni sono state avanzate per chiarire questo enigma. Le più significative sono le seguenti:

a) interpretazione tradizionale, risalente ad Agostino: Maria avrebbe fatto voto di verginità, e ora le parole dell’angelo mettevano in discussione la sua scelta. Ma, a parte il fatto che nulla nel contesto lascia intravedere una situazione del genere, è evidente che Agostino non sapeva nulla delle usanze dell’epoca e del resto il Talmud era allora considerato opera del demonio e quindi non solo non era letto, ma, se trovato, veniva bruciato. L’ignoranza di Agostino non gli consentiva di sapere che ciò non era possibile, sia nell’ambiente culturale dell’epoca16, sia nella condizione di Maria, ormai fidanzata e prossima a iniziare la sua vita matrimoniale con Giuseppe. Per rispondere a questa obiezione, si è in passato supposto che Giuseppe fosse ormai vecchio e fosse stato scelto come sposo di Maria solo per custodirne la verginità; ma anche questa supposizione non ha nessun fondamento nel testo ed andrebbe comunque contro la cultura e le tradizioni religiose dell’epoca17.

b) interpretazione legata all’immediatezza dell’azione: l’angelo annunzia un evento che si realizza non nel futuro bensì nel presente: proprio ora Maria sta per concepire un figlio. Anche questa interpretazione è priva di fondamento perchè le parole dell’angelo riguardano un evento futuro («concepirai... darai alla luce... chiamerai...»). Inoltre in tutti i racconti di nascite miracolose presenti nell’AT è chiaro che il concepimento annunziato avviene in un secondo tempo, in seguito a un regolare rapporto della donna con il legittimo marito.

c) interpretazione a seguito di critica letteraria: la domanda di Maria non esprime una sua reale difficoltà, ma è un espediente letterario per fornire una serie di notizie ai lettori; nel qual caso ogni suo elemento deve essere interpretato tenendo conto del risultato teologico che il narratore vuole conseguire.

Questa terza interpretazione è la più convincente. Ed in effetti in risposta alla domanda di Maria l’angelo dà i chiarimenti di cui i lettori, secondo il narratore, avevano bisogno: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio». Dopo aver indicato nel nascituro il Figlio dell’Altissimo, egli spiega che questo appellativo è dovuto al fatto che lo Spirito santo interverrà in modo speciale nel momento stesso del suo concepimento. Le espressioni usate qui ricordano una delle prime confessioni di fede citate da Paolo: «Costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo spirito di santificazione» (Rm 1,4). Lo Spirito Santo che scenderà su Maria richiama lo Spirito creatore (cfr. Gen 1,2; Sal 140,30). Esso corrisponde alla «forza» di Dio che la «coprirà con la sua ombra»: questo verbo si ritrova nella Scrittura con il significato di «proteggere» (cfr. Sal 140 [LXX 139],8): infatti in Es 40,35 viene detto che la nube divina «copre con la sua ombra» la tenda del convegno al fine di proteggerla.
“…Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch'essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio”. Al termine del suo annunzio l’angelo rivela a Maria la gravidanza di Elisabetta, sua parente. Questo evento diventa il segno visibile che conferma l’autenticità della rivelazione dell’angelo. Esso infatti mostra nel modo più convincente che «nulla è impossibile a Dio» (cfr. Gen 18,14). Con l’accenno a questo segno s’intrecciano nuovamente i due racconti di annunciazione, quello di Elisabetta e quello di Maria; d’altro canto la parola dell’angelo prepara direttamente il racconto seguente della visita di Maria a Elisabetta.
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l'angelo si allontanò da lei.” Alle parole dell’angelo Maria risponde riprendendo le parole di due eroine dell’AT, Rut (Rt 3,9) e Abigail (1Sam 25,41): «Ecco la schiava del Signore». Questa espressione si situa nel contesto matrimoniale della «schiava-sposa» tipico della cultura ebraica; con essa Maria si rende disponibile al progetto di Dio e ne diventa partecipe fino in fondo. Ella apre così la via all’intervento dello Spirito santo e rende possibile la nascita del Figlio di Dio. Nel seguito del vangelo di Luca Gesù stesso metterà il suo rapporto con Maria sullo stesso piano di quello che ha con i suoi discepoli (cfr. Lc 8,19-21; 11,27-28).

Note: 1. I primi due capitoli di Matteo e i primi due capitoli di Luca non vanno d’accordo: non è possibile conciliare la nascita di Gesù come è scritta da Matteo e la nascita di Gesù come è descritta da Luca perché sono due realtà differenti. Quella di Matteo è drammatica: Gesù nasce ed Erode decide di ammazzare il bambino e la sua famiglia fugge in Egitto; questo fatto pone la nascita di Gesù prima del 4 a.C., anno della morte di Erode; Matteo inoltre pone la nascita di Gesù a Betlemme senza spiegarne il motivo. Invece secondo Luca Gesù nasce a Betlemme a causa del censimento il che pone il tempo della nascita dopo il 6 d.C., quindi almeno dieci anni dopo, cosa che lo mette al sicuro dalle reazioni di Erode. Inoltre Matteo fa di tutto per escludere ogni responsabilità di Giuseppe nel concepimento (cfr Mt 1,25) mentre Luca non sembra escluderla (anche se la Chiesa l’ha poi esclusa a partire dal VI secolo d.C. nel Concilio di Costantinopoli). In effetti gli Evangelisti non fanno una cronistoria esatta di quello che è successo, come oggi si usa nel giornalismo, ma vogliono trasmettere ai credenti di tutti i tempi la profonda verità di questo messaggio, cioè che in Gesù si realizza la nuova, vera, definitiva creazione. – 2. L’esegesi che segue è stata liberamente tratta da un articolo di P. Alessandro Sacchi pubblicato in Nicodemo.net. – 3. Nel V secolo Agostino restrinse questo tempo a 46 giorni (cfr. Sul matrimonio e la concupiscenza). Un’altra interpretazione è basata sul fatto che il numero 6, nella simbolica ebraica, è il numero che ricorda la creazione dell’uomo. - 4. Il nome Gabriele in ebraico significa “potenza di Dio”. – 5. In ebraico Miryam o Mariam, nome dell’intrigante e pettegola sorella di Mosè, punita da Dio per la sua insaziabile ambizione (Es 15,20); passata alla storia come “lingua malvagia” (Num 12, 1-10), il suo nome non comparirà più nella Bibbia, prima di essere ripreso nei vangeli, in quanto considerato evocatore di maledizione da parte di Dio. Il fatto che avessero scelto questo nome fa immaginare che i genitori di Maria non fossero particolarmente contenti per aver generato una femmina.  – 6. Raffrontata ai giorni nostri, non è del tutto sbagliato fare un paragone con Al Qā’ida, data l’efferatezza delle azioni terroristiche di questa setta. Del resto Roma era l’America di 2000 anni fa. – 7. Talmud, ‘Erubim B. 53a, 53b. – 8. Talmud, Nidda M. 6,11. – 9. Questo modo di concepire il matrimonio si è trasmesso sin quasi ai nostri giorni. Soltanto nel 1215 (Concilio Lateranense IV) il matrimonio inizia ad essere considerato un sacramento al fine di impedire una serie di abusi (lo diventerà solennemente e con propria liturgia, nel 1555 nel Concilio di Trento), ma la potestà delle famiglie è rimasta fino ai primi decenni del XX secolo. Soltanto con il Concilio Vaticano II si è finalmente elevata la dignità del matrimonio cristiano dandogli una finalità che va al di là della semplice procreazione (Gaudium et Spes, n. 48 e 49). – 10. È errato chiamare questa cerimonia “fidanzamento” perché non ha i caratteri della provvisorietà del fidanzamento occidentale; esso infatti è indissolubile da parte della donna e può essere rotto dall’uomo solo con un atto di ripudio, esattamente nello stesso modo con cui l’uomo può sciogliere la successiva convivenza. – 11. L’idea di Giuseppe povero, proletario, si deve forse ad un inciso di Giustino (II secolo) che era di Neapolis (Nablus): nel “Dialogo a Trifone” (n. 88) pensava che Giuseppe fosse stato, più di un secolo prima, un povero falegname, costruttore di povere cose (sedie, aratri di legno, ecc.), come i tekton dei paesi poveri che aveva conosciuto dopo due tremende rivoluzioni (66-70; 131-134 d.C.), ma questa non era la situazione del tempo di Gesù dove il benessere era diffuso perché abbondava il lavoro. – 12. “Fino a vent’anni il Santo, che benedetto sia, vigila a che l’uomo si sposi, e lo maledice se manca di farlo entro quell’età” –Talmud, Qid. B , 29b. Nelle parole dei  vangeli si intuiscono le grandi difficoltà che ha incontrato Gesù per la sua scelta celibataria, sempre che tale condizione sia stata quella reale di Gesù al di là delle elaborazioni teologiche. – 13. Epifanio; Andrea vescovo di Creta; Eusebio; alcuni midrash giudaici riportano la stessa notizia. Per Giovanni Damasceno (VII secolo), Joseph ben Panther sarebbe invece il nonno di Maria.
- 14. Mt 1,19. Il termine giusto indica colui che tiene un atteggiamento conforme alla religione e ne osserva tutti i doveri (cfr Fil 3, 6). – 15. In aperto e totale contrasto con la tradizione ebraica che affidava questo compito esclusivamente al padre. – 16. Come già citato, la verginità sia femminile che maschile, nella cultura ebraica non era un valore, ma era considerata un grave peccato di disubbidienza a Dio (cfr. Gen 1,26) . – 17. La verginità era considerata un elemento fortemente negativo e quindi non poteva essere oggetto di voto, ammesso e non concesso che nella tradizione ebraica esistesse una tale forma devozionale che, per quanto è noto allo scrivente, è di origine occidentale ed è nata nel medio evo.

Seconda Domenica di Avvento



Seconda Domenica di Avvento - Mc 1,1-8
Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.
Come sta scritto nel profeta Isaia:
Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero:
egli preparerà la
tua via.
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i
suoi sentieri,
vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».
Premetto subito che il vangelo di Marco, nonostante sia il più corto dei vangeli e, apparentemente, il meno impegnato teologicamente, è in realtà il più complesso da spiegare in quanto è estremamente “denso”: spesso una parola racchiude due o più significati, fa riferimento a più situazioni e sottintende collegamenti ad altre parti del vangelo o a brani dell’AT. Talvolta nelle sue frasi parlano anche i vuoti, le assenze di fatti che ci saremmo aspettati e che invece Marco non ha riportato. Ne è un chiaro esempio il brano in esame che inizia a parlare di Gesù senza accennare alla sua nascita, come invece fanno Matteo e Luca. E’ una chiara dimostrazione del fatto che il vangelo di Marco è stato scritto, almeno come prima stesura (il così detto protovangelo di Marco), a ridosso della morte di Gesù e non era trascorso abbastanza tempo perché la tradizione della sua nascita si formasse e si consolidasse; analogo ragionamento si può fare sulle apparizioni del Risorto che in Marco non sono riportate(1).
Verrebbe da dire, e forse si è nel giusto, che alla comunità a cui si rivolgeva Marco non inressava come Gesù era nato, ma ciò che aveva detto e fatto.
Il brano in esame(2) è la prima parte della breve sezione con cui Marco apre il vangelo (Mc 1,1-13). In questi primi versetti Marco intende trasmettere alcune informazioni circa l’identità di Gesù e alcuni fatti che hanno caratterizzato l'inizio del suo ministero: ciò è tanto più necessario in quanto nel seguito egli narrerà soprattutto le sue opere, mentre la sua personalità sarà coperta dal velo del “segreto messianico” fino al momento della passione.
Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio”. Quante cose dette in un’unica breve frase! E’, prima di tutto il titolo di tutta l’opera; il termine «inizio» (in greco archê) è lo stesso con cui si aprono la traduzione greca(3) della Bibbia (Gen 1,1) e il vangelo di Giovanni (Gv 1,1): esso è stato forse scelto di proposito per presentare l’annunzio evangelico come una nuova creazione.
Il termine “vangelo” (dal greco euanghelion) è usato raramente nel greco classico, dove indica la lieta notizia della nascita o dell’intronizzazione di un nuovo imperatore. Qui invece è ricavato dal verbo “evangelizzare”, di cui i traduttori greci si sono serviti per indicare il lieto annunzio della liberazione fatto ai giudei esuli in Babilonia (cfr. Is 40,9; 52,7) e ai rimpatriati che si erano ristabiliti a Gerusalemme (cfr. Is 61,1). I primi cristiani hanno adottato questo termine per designare la proclamazione pubblica della salvezza portata da Gesù (cfr. 1Ts 2,9; Gal 2,2; Rm 2,1.16). Marco lo usa con lo stesso senso qui e in altri sei passi della sua opera (Mc 1,14.15; 8,35; 10,29; 13,10; 14,9). Si può dunque supporre che non si indichi con esso direttamente il libro che sta iniziando, ma piuttosto l’annunzio della salvezza, di cui si vuole dare il resoconto scritto.
L’espressione “vangelo di Gesù” non significa tanto che la buona novella ha Gesù come oggetto, ma piuttosto che essa, come apparirà da tutto il seguito dell’opera, è stata proclamata da lui.
A Gesù l’evangelista attribuisce l’appellativo di «Cristo» (Messia, Unto) senza una particolare enfasi, quasi fosse il suo nome proprio: ciò significa che da tempo la sua comunità era abituata a chiamarlo con questo nome. Esso riapparirà altre sei volte (in  Mc 1,34 è incerto), di cui due sono particolarmente significative: quella in cui Pietro attribuisce questo titolo a Gesù, ma è messo da lui a tacere (Mc 8,29), e quella in cui il sommo sacerdote chiede a Gesù se è il Cristo, il figlio del Benedetto, ricevendone invece una risposta affermativa (Mc 14,61).
Gesù è presentato non solo come Cristo, ma anche come “Figlio di Dio(4)”: non tutti i manoscritti del testo però riportano questo titolo, con il quale egli era comunemente designato dai primi cristiani (cfr. Rm 1,3-4). In Marco Gesù è proclamato “Figlio di Dio” tre volte, due dal Padre, rispettivamente nel battesimo (cfr. Mc 1,11) e nella trasfigurazione (cfr. Mc 9,7), e la terza, dopo la sua morte, da un centurione romano (Mc 15,39). Altre due volte questo titolo gli è attribuito dai demòni, i quali però sono da lui messi a tacere (Mc 3,11; 5,7), e una dal sommo sacerdote (Mc14,61). Secondo Marco quindi Gesù non si è arrogato questi due titoli, ma ha accettato che gli fossero attribuiti nel contesto della passione: ciò corrisponde al progetto letterario di Marco, per il quale la piena rivelazione di Gesù ha avuto luogo solo nella passione.
Marco entra subito nel vivo del racconto presentando, come avveniva nel kerygma(5) primitivo (cfr. At 10,37), la predicazione di Giovanni il Battista. Egli introduce la sua figura in un modo piuttosto brusco e maldestro mediante una citazione biblica non esatta: Come sta scritto nel profeta Isaia:
Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero:
egli preparerà la
tua via.
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i
suoi sentieri,

In realtà l’evangelista ha accostato due brani diversi: nel primo, ricavato dal profeta Malachia, Jhaweh stesso annunzia che sta per venire nel suo tempio per purificarlo e manda davanti a sé un messaggero(6) che gli prepari la via (Ml 3,1); Marco riprende questo brano sostituendo, alla luce di un altro testo biblico (Es 23,20), l’espressione «davanti a me» con «davanti a te»: dal contesto risulta che il pronome di seconda persona si riferisce non più a Dio, ma a Gesù, di cui Giovanni il Battista, qui non ancora nominato, è stato inviato a preparare la venuta.
Il secondo è ricavato dall’inizio del Secondo Isaia (Deuteroisaia) (Is 40,3), dove si dice che un anonimo messaggero (una «voce») annunzia agli abitanti di Gerusalemme la venuta di Jhaweh alla testa degli esuli che ritornano da Babilonia, e li invita a preparargli la strada nel deserto. Anche questo testo è riletto da Marco in funzione della situazione che sta descrivendo: il deserto non è più il luogo in cui la via deve essere preparata, ma quello in cui si fa sentire la «voce», che dal contesto si comprende è quella di Giovanni; egli dice al popolo, come l’anonimo messaggero di Isaia, di preparare la via del Signore; ma subito dopo questo Signore non è più identificato con «il nostro Dio», come nel testo di Isaia, ma è designato con il pronome possessivo: “i suoi sentieri”. In questo modo ancora una volta l’evangelista dimostra di avere in mente Gesù, di cui Giovanni annunzia la venuta.
Sullo sfondo delle attese messianiche, evocate in modo sintetico mediante queste due citazioni della Scrittura, l’evangelista delinea ora l’attività di Giovanni:
“…vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati”.
Prima di tutto chi era Giovanni? Secondo Luca era figlio del sacerdote Zaccaria e di Elisabetta (Lc 1,24), quest’ultima probabilmente della stessa tribù di Maria, la madre di Gesù(7). La storia della nascita di Giovanni come dono di Dio è riportata in Lc 1,5-25.
Giovanni era un nazireo(8), cioè un uomo che trascorreva una piccola parte della sua vita consacrato a Dio secondo quanto previsto in Nm 6,1-21; aveva scelto un particolare modo di predicare attraverso il battesimo(9); del resto in quel periodo in Israele vi erano diversi movimenti battisti che invitavano a cambiare la propria vita in attesa del Messia(10).
Rispetto agli altri movimenti battisti, l’invito di Giovanni assume una forma nuova; egli invita a “convertirsi”. In greco, ci sono due maniere per esprimere il concetto di conversione: uno, che ha un significato teologico, è il ritorno a Dio, ma tutti gli evangelisti evitano accuratamente questo termine; l’altro è “metanoia”, significa un cambio di mentalità che incide nel comportamento della persona. La parola significa letteralmente “cambiamento di sentimenti”, e potremmo tradurlo in cambiamento di vita.
Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati”.
Da Giovanni si recavano gli abitanti della Giudea e di Gerusalemme. Non viene ricordata la presenza di pellegrini provenienti dalla Galilea, dalla quale fra poco Gesù giungerà a farsi battezzare, o da altri territori: l’annunzio di Giovanni è dunque confinato, diversamente da quello di Gesù, al popolo dell’alleanza.
I battezzandi confessavano non solo i peccati che tutto il popolo aveva commesso nel corso della sua storia (cfr. Esd 9,6-15; Dn 9,4-19; 1Qs I,22-II,111) come normalmente accadeva negli altri movimenti battisti, ma anche i loro peccati personali.
Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico”. Giovanni è presentato come il redivivo Elia, come lui veste di peli di cammello con una cintura di pelle ai fianchi(12). Inoltre è presentato come un uomo puro, di quella purità rituale descritta nei libri del Deuteronomio e del Levitico che nulla ha a che vedere con il nostro concetto di purezza.
L’evangelista, per sottolineare questa purezza, specifica il cibo che usava Giovanni, locuste e miele selvatico, cibi sicuramente consentiti(13), oltre ogni ombra di dubbio, dalla legge ebraica(14); per questo Giovanni può battezzare, cioè purificare gli altri.
Marco passa ora a dare una sintesi della predicazione di Giovanni, mettendo l’accento esclusivamente sull’annunzio di un personaggio che deve venire:
«Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali”. Giovanni parla di uno che viene «dopo» (in greco opisô) di lui: ciò significa che questi apparirà dopo che egli aveva già iniziato la sua predicazione; ma siccome questa preposizione indica anche la sequela, non è escluso che in questa espressione si nasconda il ricordo di un periodo in cui il personaggio annunziato è stato suo discepolo (cfr. Gv 3,22). Pur essendo venuto dopo, egli è «più forte» di lui, perché dotato di un ruolo più importante e decisivo del suo.
Giovanni aveva una visione strettamente legata all’ A.T., lo si vede anche da una frase che, nell’ultima traduzione del 2008 ha perso molto del suo significato originale: “io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali”. Questa traduzione è frutto di una strana reticenza di tipo “moralistico” nel senso negativo del termine. Il testo originale greco si riferisce alla legge del levirato(15) per la quale il cognato doveva prendere con se (come prima moglie, oppure come seconda moglie, più spesso come concubina) la vedova del fratello per dare una discendenza al fratello morto. Se il fratello non provvedeva (cosa possibile se la prima moglie protestava rendendogli un inferno la vita) un altro fratello si avvicinava, gli slacciava i sandali, ci sputava dentro e glieli rimetteva. Con questo voleva significare: se tu non vuoi dare una discendenza a nostro fratello, ci penso io. Tu non ne sei degno.
Nel caso in questione Giovanni in sostanza sta dicendo: “Sarà Gesù a fecondare(16) Israele, non toccherà a me perchè lui non si tirerà indietro”.
E’ priva di significato l’interpretazione, in uso fino a una quarantina di anni fa, secondo cui la frase metterebbe in risalto l’umiltà di Giovanni e la sua volontà di mortificarsi; essa contrasta apertamente con il suo carattere così come lo si ricava dai vangeli, carattere profondamente duro e battagliero, al limite della presunzione, sullo stile dei profeti dell’AT.
L’opera del Battista ha valore unicamente in quanto annunziava la venuta di Gesù: la possibilità stessa che egli abbia predicato anche su altri argomenti (cfr. Mt 3,7-10; Lc 3,7-14) viene ignorata da Marco.
“…Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».
Sia Giovanni che Gesù sono chiamati a battezzare, ma mentre il primo battezza con l’acqua, il secondo battezzerà con lo Spirito. In questa espressione appare chiaramente la fede cristiana della comunità di Marco, che considera il battesimo del precursore come una pratica che appartiene ormai al passato, mentre ora è in uso il battesimo amministrato nello Spirito (cfr. 1Cor 12,13; At 19,1-6).
Sulla bocca di Giovanni la distinzione tra i due battesimi è piuttosto strana, poiché in Ez 36,25-27 l’acqua e lo Spirito sono due simboli paralleli con i quali si descrive il rinnovamento finale del popolo di Dio. Secondo un’altra tradizione cristiana il battesimo nello Spirito è stato annunziato non da Giovanni, ma da Gesù, e ha avuto luogo nel giorno di Pentecoste (At 1,5; cfr. 2,1-13).

Note: 1. I versetti di Mc 16,9 e seguenti riportati nel testo CEI non sono di Marco, ma sono stati aggiunti in seguito (presumibilmente nel II secolo) da un autore che ha cercato così di riempire quello che sembrava un vuoto. In realtà l’assenza della descrizione delle apparizioni del Risorto testimoniano l’antichità del testo in quanto negli anni 40 – 50 ancora non si era formata e sedimentata la tradizione relativa alle apparizioni stesse. – 2. Parte di questa spiegazione è stata liberamente tratta da un articolo di P. Alessandro Sacchi pubblicato su Nicodemo.net. – 3. La traduzione dall’ebraico in greco della Bibbia detta “dei Settanta” (circa II sec a.C.) era l’unica che gli evangelisti sapessero leggere perché conoscevano il greco (che svolgeva la stessa funzione che ha l’inglese oggi, cioè una lingua universale che conoscono tutti) ma non conscevano più l’ebraico, lingua che era rimasta solo nella liturgia (come il latino in Italia fino al 1973). Gesù, i discepoli e gli evangelisti (escluso Luca) parlavano normalmente in aramaico, una lingua semitica vicina all’ebraico usata nell’impero persiano come lingua amministrativa comune. – 4. A mio avviso è importante imparare a distinguere il corretto significato di questo termine: nella cultura ebraica il termine “Figlio di Dio” indicava generalmente il re di Israele che beneficiava di una particolare assistenza divina per adempiere ai suoi compiti. Il senso che oggi noi gli diamo, cioè di figliolanza divina diretta, è un significato che è iniziato ad essere compreso, con grande difficoltà e spesso con diverse interpretazioni, nelle comunità cristiane primitive dopo la risurrezione. La definizione attuale risale al Concilio di Nicea del 325 d.C. – 5. Si intende con questa parola la “proclamazione” della buona novella da parte dei primi cristiani. – 6. Questo messaggero, al versetto 23, sarà identificato con il profeta Elia. – 7. In nessun vangelo si dichiara Elisabetta cugina di Maria, solo in Lc 1,36 si parla di “parente” che, in ambiente semitico, va inteso in senso esteso ai componenti di una tribù che viene chiamata “famiglia”; la definizione di “cugina” è stata frutto della pietà popolare del medioevo. – 8. Vedi Lc 1,15 – 9. Il rito di immersione, simbolo di purificazione rituale e di rinnovamento era conosciuto dalle religioni antiche e dal giudaismo post-esilico e veniva applicato ai proseliti (non ebrei che volevano seguire la religione ebraica) e ai componenti del movimento monastico di Qumran. Con Giovanni il battesimo perde il suo significato rituale ed assume quello morale di purificazione dai peccati. – 10. A cavallo tra il I sec. a.C. ed il I sec. d.C., l’attesa del Messia da parte di Israele diviene spasmodica. Secondo gli scribi del I secolo il Messia tardava a venire e a manifestarsi a causa della presenza in terra di Israele di grandi peccatori quali i pubblicani (esattori delle imposte in favore dei romani) e le prostitute. I movimenti battisti miravano ed eliminare questo impedimento. Giovanni estenderà la categoria dei peccatori anche ai farisei e ai sadducei provocando scandalo. – 11. Quest’ultima sigla non è relativa ad un libro della Bibbia, ma al catalogo dei rotoli di Qumran. – 12. Vedere 2Re 1,8 e seguenti. – 13. Vedere Lv 11, 22. – 14. Da notare che le locuste erano consentite, ma, ad esmpio, la lepre no. Il fatto che Marco indichi nelle locuste il cibo normalmente usato da Giovanni è una forzatura letteraria che gli consente di rimarcare la stretta osservanza della Legge da parte del personaggio. – 15. Il levirato è un'antica usanza praticata dagli ebrei, dagli arabi e dagli antichi indiani secondo la quale, se un uomo sposato moriva senza figli, suo fratello o il suo parente più prossimo doveva sposare la vedova, e il loro figlio primogenito sarebbe stato considerato legalmente figlio del defunto (Dt 25,5-10). Il vocabolo levirato deriva dalla parola latina levir, che significa cognato. La motivazione addotta per questa legge era quella di assicurare al defunto una discendenza, cosa che era ed è tuttora ritenuta di grande importanza tra i popoli semitici; ma la motivazione più profonda, benché non esplicita e non del tutto comprensibile, è di tipo sociale e patrimoniale: evitare l'alienazione delle terre, in accordo con analoghe preoccupazioni espresse nel Lv 25 e in Nm 36,2-9. La norma del levirato aveva anche un'altra importante funzione sociale, quella di garantire un marito alla vedova, in una società in cui le donne non potevano lavorare e quindi avevano bisogno di un uomo che provvedesse al loro sostentamento. – 16. Il senso della parola fecondare in questo pensiero deriva dal concetto che, in tutto l’A.T., il rapporto tra Dio e il popolo di Israele veniva sempre rappresentato come un rapporto sponsale.