(segue
dalla domenica precedente)
4.7. Gli Zeloti
Le masse contadine della Palestina non
trovavano risposte ai loro problemi nella passività dei notabili sadducei e così
il processo di concentrazione fondiaria, favorito dalle classi di censo elevato
ed in seguito anche dai romani, andava nel senso di aumentare l'inurbazione dei
contadini poveri privati delle terre, a cui l'appello esseno di ritirarsi in
montagna doveva suonare quanto meno inefficace. L’inurbanizzazione produsse un
processo di differenziazione ideologica tra gli ebrei, che andò avanti
soprattutto in Galilea, dove i contadini poveri cominciarono ad appoggiare idee
sempre più radicali.
La ragione del conflitto risiedeva nel
rifiuto di pagare le tasse e i debiti, divenuti strumenti di concentrazione
della ricchezza nelle mani dei proprietari terrieri. Molti contadini, rovinati
dai grandi proprietari, piuttosto che finire schiavi per debiti, si davano al
banditismo e alla guerriglia. Aiutava anche la vicinanza del deserto,
tradizionale luogo di rifugio dei ribelli, anche per la presenza di tribù
beduine, ostili a ogni potere urbano, che davano loro protezione.
Da questo processo turbolento nacque una
corrente organizzata, quella degli zeloti, che cominciò un'opera di propaganda
e di azioni di guerriglia contro i re vassalli dei romani. La storia di questo
gruppo inizia con un certo Giuda, figlio di Ezechiele e capo guerrigliero fatto
uccidere nel 47 a.C. come bandito. Egli era un intransigente difensore della ortodossia
religiosa ebraica, che non tollerava la presenza dei dominatori romani e
nemmeno l'atteggiamento di connivenza opportunistica con gli stranieri,
mostrato da alcune componenti della società giudaica, come i sadducei.
Ovviamente, Giuda si era proclamato re
dei giudei e veniva considerato un messia dai suoi seguaci. Sebbene la setta
fosse originaria di Gamala nel Golan, i suoi seguaci venivano definiti i
"galilei", in quanto il loro teatro di operazioni era appunto la
Galilea.
Nei decenni precedenti alla data di
nascita di Gesù, gli zeloti erano penetrati in città e vi avevano riscosso un
certo successo, tanto da tentare una rivolta contro Erode il Grande, repressa
nel sangue nel 4 a.C.
Alla morte di Erode la rivolta scoppiò
di nuovo e la repressione fu ancora più brutale. Alla fine i romani ritennero
che il loro protetto Erode Archelao, figlio di Erode il Grande e re della
Giudea, non fosse più in grado di controllare la situazione e decisero di
intervenire direttamente. La brutalità dell’azione romana suscitò la reazione
del popolo di Gerusalemme.
La nuova insurrezione ebbe una tale
forza da mettere in serie difficoltà la guarnigione romana. Mentre i legionari
vivevano assediati in Gerusalemme, buona parte delle truppe ebraiche erano
passate con i rivoltosi. La Galilea era fuori controllo e i ribelli vi stavano
formando un esercito. Sebbene le legioni romane avessero avuto ragione della
rivolta con enormi difficoltà, quel che accadde dopo era facilmente
prevedibile: migliaia di ebrei crocifissi, saccheggi, devastazioni, abitanti di
interi villaggi venduti come schiavi.
Tutto questo successe attorno all'anno 0
dell'era cristiana. Da allora, con alti e bassi la rivolta non cessò mai fino
alla presa di Gerusalemme nel 70 d.C.
Sempre appartenente a questa setta era
Eleazar ben Jair, capo della fortezza di Masada, che resistette tre anni
all'assedio dei romani prima di decidere per il suicidio di massa, preferito
alla resa, nel 73 d.C.
L'ultimo atto della setta si ebbe fra il
132 e il 135 d.C., quando i suoi ultimi militanti, sotto la guida di Simon bar
Kokba, utilizzarono il sito di Qumran come base da cui compiere azioni di
guerriglia, prima di essere definitivamente sconfitti dalle legioni romane.
Come ci riferisce Giovanni, durante la
cattura di Gesù, Pietro staccò con un colpo di spada l’orecchio destro del
servo del sommo sacerdote. Questo episodio ci fa lecitamente ipotizzare che
Pietro militasse negli zeloti, visto che era armato.
4.8. Le donne
Le ragazze di solito si sposavano assai
giovani, fra i 12 e i 13 anni. Avevano una speranza di vita molto ridotta, la
morte sopraggiungeva tra i 23 e i 26 anni al massimo anche a causa del numero
elevato di parti che spesso raggiungevano e superavano il numero di dodici. La
loro vita era pesantissima; a titolo di esempio si riporta un breve estratto
dal libro dei proverbi (Pr 31,13-18)
che dimostra cosa ci si aspettasse da una donna “perfetta” e, nel caso
specifico, da una donna di censo elevato. Se questa era la vita di una
benestante, immaginiamoci cosa doveva essere la vita di una donna del popolo:
“13Ella si
procura della lana e del lino, e lavora con diletto con le proprie mani.
14Ella è simile alle navi dei mercanti: fa venire il suo cibo da lontano.
15Ella si alza quando ancora è notte, distribuisce il cibo alla famiglia e il
compito alle sue donne di servizio.
16Ella posa gli occhi sopra un campo, e l’acquista; col guadagno delle sue
mani pianta una vigna.
17Ella si ricinge di forza i fianchi, e fa robuste le sue braccia.
18Ella s’accorge che il suo lavoro rende bene; la sua lucerna non si spegne
la notte.”
Il matrimonio non era una scelta, ma un
obbligo. La verginità, oltre il tredicesimo anno di età, era una colpa
gravissima di disubbidienza a Dio(1).
Il matrimonio ebraico era un atto
tipicamente civile; non vi era in esso, nemmeno nella parte rituale, alcunchè
di religioso. Si trattava quasi di un contratto commerciale.
Il matrimonio era giuridicamente valido al
momento che lo sposo aveva stipulato il contratto di fidanzamento con il padre
della sposa, davanti a testimoni; a questo punto entrava la sposa che vedeva
per la prima volta il futuro marito. Lo sposo copriva col proprio mantello la
sposa in segno di possesso e dichiarava: “Tu sei mia moglie”. La risposta della
sposa era simile:”Tu sei mio marito”. I due erano marito e moglie, ma la
convivenza era rinviata di un anno circa, al primo menarca della sposa, quando
la capacità di “produttrice di figli” era in essere.
Se allo sposo promesso capitava di
morire nei dodici mesi di attesa (la cosa non era infrequente), la sposa era
comunque considerata vedova.
Il legame si poteva rompere solo con una
lettera di ripudio. Secondo Dt 24,1
soltanto il marito poteva dare questa lettera alla moglie «se avesse trovato in essa qualcosa di vergognoso»; era invece
passibile di morte in caso di adulterio. Un argomento che doveva essere uno dei
temi preferiti nelle controversie di scuola, era certamente l’interpretazione
del motivo valido per il ripudio: i dottori della Legge discepoli di Hillel si
accontentavano di ragioni di poco conto, mentre quelli di Shammai esigevano una
colpa grave contro il buon costume e un'infedeltà al marito.
Anche Gesù avrebbe avuto poi occasione
di pronunciarsi su quest’argomento, interrogato se fosse lecito ripudiare la
propria moglie per qualsiasi motivo, domanda alla quale rispose negativamente (Mt 19,3), ma la costruzione semitica del
discorso non dà alla risposta negativa un valore assoluto che Matteo, nel suo
Vangelo, esplicita in modo chiaro (Mt
19,9).
Il marito doveva versare alla donna
dalla quale si separava una somma che era stata determinata nel contratto di
matrimonio: questa clausola di ordine economico aveva anche la funzione di
limitare il numero dei divorzi.
Era vista come una grande sventura,
addirittura un castigo di Dio, il fatto di rimanere senza figli; il marito
poteva ripudiare la moglie se essa, in capo a dieci anni, non gli avesse dato
figli.
Come in genere nell'oriente antico, la
donna non partecipava alla vita pubblica (salvo casi eccezionali, come quello
della regina Alessandra, 76-67 a.C.); non partecipava attivamente al culto, né
poteva valere come testimone nei processi.
Al Tempio le donne non potevano oltrepassare
il vestibolo a loro riservato, e nella sinagoga non intervenivano né per la
lettura della Torah né per le preghiere. Nella diaspora tuttavia, a contatto
con le usanze più liberali del mondo pagano, sembra che le donne abbiano goduto
di maggiore iniziativa (cfr. At 16,13).
Le donne non erano tenute allo studio
della Bibbia alla stessa maniera che gli uomini; l’occupazione della donna
consisteva soprattutto nel disbrigo dei lavori domestici. La condizione teorica
della donna nell'antichità è ben descritta dalla frase di Giuseppe Flavio: “La
donna, dice (la Legge), è inferiore all'uomo in ogni cosa” (Contra Apionem II,24).
La moglie aveva l’obbligo di lavare i
piedi al marito, in assenza di schiavi non giudei.
Un grave problema era la cosiddetta
“esposizione” delle neonate. Se il numero delle figlie in famiglia era
eccessivo, una neonata, all’atto della nascita, veniva soppressa oppure
abbandonata nella notte agli angoli delle strade dove, nella migliore delle
ipotesi, erano in attesa i gestori delle case di piacere, o i loro incaricati,
che raccoglievano queste bambine, le allevavano e le avviavano al mestiere di
prostituta.
4.9. Correnti minori
Delle correnti minori, come battisti ed
erodiani, è sufficiente dare alcuni accenni, essendo poco inflente il loro
contributo alle vicende narrate dai Vangeli.
Battisti:
seguaci o discepoli di Giovanni il Battista. Molti di loro, su invito dello
stesso maestro, si unirono ai seguaci di Gesù. Tra questi, come ci riferiscono
gli stessi Vangeli, vi erano Giovanni l’Evangelista ed Andrea fratello di
Pietro.
Erodiani o boethusiani: sono riconducibili ai sadducei di cui
costituivano una setta o corrente. Sostenevano le stesse dottrine ed erano più
attaccati al potere politico. In apparenza erano membri e sostenitori della
famiglia sadducea dei Boethus, ordinati sommi sacerdoti (kohanim) da Erode il
Grande dopo il matrimonio politico di sua figlia Mariamne con un membro di
quella famiglia, donde il nome biblico di “Erodiani”. Le fonti storiche li
chiamano invece “Boethusiani”.
Accanto alle descritte correnti
politico-religiose, occorre prendere in considerazione anche la categoria degli
scribi e dei pubblicani per completare, anche se sommariamente, il quadro della
società giudaica al tempo di Gesù.
Scribi: esperti di sacra scrittura, tra i quali figuravano non
pochi sacerdoti colti, gli scribi erano specializzati nella trascrizione dei
testi sacri, sempre in lingua ebraica, quindi erano conoscitori di dottrine e
di regole cultuali ed etiche. La loro presenza è già segnalata nel VI secolo
a.C. da Geremia come categoria concorrenziale ai sacerdoti. Diedero origine
alla setta dei farisei come già detto, ma non tutti gli scribi erano farisei.
Lo scriba era colui che, nei primi tempi
della sua affermazione come soggetto culturale, doveva anzitutto conservare la
Legge di Dio contenuta nelle Scritture, ma a partire dall'esilio in Babilonia,
ebbe anche l'incarico di leggerle, tradurle e interpretarle al popolo in quanto
“uomo del libro”.
Nel primo secolo era usuale che gli
scribi venissero “ordinati”, in tarda età (a circa quaranta anni), con una
cerimonia religiosa nella quale si definiva così la loro missione: “…tutto ciò che legherai
sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto
ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei
cieli…”, la stessa frase che Gesù userà con Pietro (e, più tardi, anche
con altri discepoli) (Mt 16,13-20)
conferendogli la capacità di conservare ed interpretare la Parola.
La sua posizione si andò così sempre più
affermando, organizzandosi come professione ambita e riverita in confronto ai
lavori manuali. L’ascesa degli scribi nella società ebraica fu determinata dal
venir meno dei profeti, di cui essi si fecero continuatori e ideali eredi.
Pubblicani: con la conquista romana della
Palestina, si sviluppò la professione dei pubblicani. Questi erano incaricati
di incassare i tributi per conto di Roma, spesso con minacce e soprusi ed erano
perciò considerati dei traditori e dei venduti all’invasore. Molto spesso
anticipavano le somme di tasca propria e praticavano quindi l’usura per il
recupero dei crediti. Erano disprezzati e erano indicati come l’emblema della
corruzione.
Proseliti
e timorati di Dio: caratteristica
della religione d'Israele è il suo stretto legame di esclusività con il popolo.
Tuttavia, fin dall'AT, troviamo numerose allusioni a una categoria di stranieri
che vivono in mezzo al popolo e vi sono religiosamente incorporati: sono i
gherim, un termine che i Settanta rendono abitualmente con prosélytoi. I
proseliti prendono parte alla celebrazione delle feste (At 2,11), a esclusione del banchetto pasquale se sono incirconcisi
(Es 12,48), e devono rispettare il
sabato (Es 20,10). Buona parte della
letteratura del giudaismo ellenistico è impregnata di una sorta di propaganda
giudaica verso i Gentili, allo scopo di presentare la fede d'Israele come
assimilabile ad altre culture.
La missione cristiana si troverà spesso
ad avere a che fare con dei proseliti (At
6,5;13,43). In tempi tardivi, questi proseliti circoncisi, che si erano
sottomessi alla circoncisione, accompagnata da bagno rituale e da un sacrificio
al Tempio, furono chiamati anche proseliti di giustizia, in quanto osservanti
della giustizia della Legge giudaica. Gli altri erano chiamati proseliti della
porta o di abitazione, in quanto dimoranti dentro le porte, ossia abitanti
d’Israele. Di norma i proseliti vengono distinti dai devoti o timorati di Dio
che accettavano la fede giudaica, ma non suggellavano la loro adesione con la
circoncisione. Vi era una certa oscillazione nelle denominazioni: la lingua del
NT (At 13,43) e non solo, mostra che
l'espressione «timorati di Dio» era talora impiegata, etimologicamente più che
tecnicamente, in modo da comprendere anche i veri proseliti. A costoro, oltre
all’adesione dottrinale, si richiedeva solamente l’osservanza del sabato e dei
digiuni, qualche contributo al Tempio e alcune prescrizioni sui cibi.
Gli
schiavi: la classe più
sfavorita socialmente in Palestina era quella degli schiavi. Un cittadino
libero poteva cadere in schiavitù sia come punizione per il reato di furto sia
per l'impossibilità di pagare i debiti; un povero poteva anche vendere se
stesso e andare a servire. Bisogna però distinguere fra gli schiavi di origine
giudaica, protetti da una speciale legislazione nella Bibbia (Es 21; Lv 25,39) e quelli di origine
pagana la cui servitù poteva essere a vita: infatti lo schiavo giudeo
recuperava la libertà, di norma, alla fine di sei anni di servizio. Considerati
come proprietà assoluta del padrone, gli schiavi pagani potevano essere ceduti,
venduti ed entrare anche nell'eredità. Non erano a riparo dai maltrattamenti e
dai capricci dei loro padroni (cfr. Sir
33,25 ss.), ma se venivano maltrattati o si procurava loro qualche
invalidità fisica, il tribunale si riservava il diritto di render loro la
libertà (Es 21,26-27).
L'uccisione di uno schiavo era punita
come un omicidio. Lo schiavo pagano poteva anche essere aggregato al giudaismo,
l'uomo tramite la circoncisione, la donna con un bagno che «ne faceva un
proselito» (Targum di Dt 21,13); in
seguito a ciò non li si poteva più vendere a dei pagani. Certi maestri del
Talmud giunsero a proibire di tenere presso di sé degli schiavi incirconcisi.
Essi erano comunque tenuti a osservare solo una parte degli obblighi religiosi
che incombevano ai Giudei, praticando le azioni alle quali erano tenute le
donne. Secondo la legge ebraica, allo schiavo giudeo era consentito lavorare
non più di dieci ore al giorno, e mai di notte; doveva essere trattato bene e
non gli si dovevano imporre servizi considerati disonorevoli, come lavare i
piedi al padrone o mettergli i calzari. Non poteva essere obbligato a lavorare
di sabato, né essere sottoposto a umiliazioni, o incaricato di svolgere lavori
che rivelassero la sua condizione di schiavo, come esercitare il mestiere di
sarto, barbiere o servitore nei bagni pubblici. Se fuggiva dal padrone, non era
lecito riconsegnarlo. Le schiave godevano minori privilegi in confronto ai
maschi, ma anch'esse erano protette dalla legge; inoltre, una giovane schiava
avvenente, mantenuta come concubina, non raramente poteva anche divenire moglie
del padrone.
Note: 1. L'ebraismo non ammette
il celibato e considera precetto fondamentale il matrimonio basandosi sul
ricordo biblico della creazione del primo uomo. Infatti parlando di Adamo il
testo dice: li creò' maschio e femmina e li chiamò' (cioè
ambedue insieme) uomo e donna, quindi diceva Rabbi Elazar: non è un uomo colui che non abbia moglie.
Infatti non si era ammessi alla sinagoga se non si era sposati e si avevano
superato i 20 anni (22 in casi eccezionali - Talmud, Qid. B , 29b). Come non
ammette il celibato l'ebraismo non ammette neppure l'ascetismo. E' pur vero che
si trovano qua' o la' singole tracce di una simile tendenza, ma in complesso,
l'ebraismo è rimasto rigidamente fedele allo scopo provvidenziale del
matrimonio.
(continua la prossima
domenica)