lunedì 22 maggio 2017
Programma 04
A partire dalla domenica dopo la Pentecoste, verranno postate le esegesi del Sacramento della Riconciliazione (Confessione) e della Eucaristia.
Storia e teologia del Tempo Pasquale - 6
Solennità di Pentecoste
1. Origini della festività
In origine era la festa
ebraica che segnava l'inizio della mietitura e si celebrava 50 giorni dopo la
Pasqua ebraica. Gli Ebrei la
chiamavano “festa della mietitura e dei primi frutti”; nei testi biblici è citata sempre come una
festa agricola.
Era chiamata anche “festa delle Settimane”, per la sua ricorrenza di sette settimane
dopo la Pasqua; in greco “Pentecoste”
significa 50° giorno. Questo termine è citato in Tobia 2,1 e 2Maccabei, 12,31-32.
Lo scopo originario di questa ricorrenza era il ringraziamento a Dio per i frutti della terra,
cui si aggiunse più tardi, il ricordo del più grande dono fatto da Dio al
popolo ebraico, cioè la promulgazione della Legge mosaica sul Monte Sinai. Secondo
il rituale ebraico, la festa comportava il pellegrinaggio di tutti gli uomini a
Gerusalemme, l’astensione totale da qualsiasi lavoro, un’adunanza sacra e
particolari sacrifici; ed era una delle tre feste di pellegrinaggio (Pasqua,
Capanne, Pentecoste), che ogni devoto ebreo era invitato a celebrare a
Gerusalemme.
Nel
Cristianesimo, invece, indica la discesa dello Spirito Santo su Maria e gli
apostoli riuniti insieme nel Cenacolo. Assieme alla Pasqua è una delle
solennità più importanti dell'anno liturgico. La Chiesa, in questa solennità, vede il suo vero atto
di nascita e l’inizio missionario.
2. La tradizione cristiana
Si fa riferimento al capitolo 2 degli Atti degli Apostoli, vv 1-13. Gli
apostoli insieme a Maria, la madre di Gesù, erano riuniti a Gerusalemme nel
Cenacolo, probabilmente non quello dove si svolse l’ultima cena di Gesù, ma
quello della casa della vedova Maria, madre del giovane Giovanni-Marco, il
futuro evangelista, dove presero poi a radunarsi abitualmente quando erano in
città.
Erano affluiti a Gerusalemme gli ebrei in gran numero
per festeggiare la Pentecoste con il prescritto pellegrinaggio. «…Mentre stava per compiersi il giorno di
Pentecoste», si legge, «si trovavano
tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come
di vento che si abbatte gagliardo e riempì tutta la casa dove si trovavano. Apparvero loro lingue di fuoco, che si
dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di
Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito
dava loro di esprimersi. Si trovavano allora in Gerusalemme giudei osservanti,
di ogni nazione che è sotto il cielo. Venuto quel fragore, la folla si radunò e
rimase sbigottita, perché ciascuno li sentiva parlare nella propria lingua.
Erano stupefatti e, fuori di sé per lo stupore, dicevano: “Costoro che parlano
non sono forse tutti Galilei? E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la
nostra lingua nativa? …».
Alcuni aspetti della discesa dello
Spirito Santo (il fragore e il fuoco) ricordano la teofania di Dio sul monte
Sinai descritta in Es 19,16-18 mentre
in alcune parti dell'Antico Testamento, come in Gn 1,1-2 e 1Re 19,11-13,
il vento impetuoso è simbolo della potenza di Dio. La predicazione degli
apostoli in altre lingue è invece un elemento nuovo e significa che il
messaggio di Gesù non è destinato solo agli ebrei ma è universale(1).
Al di là del significato teologico e
simbolico, non è possibile provare la storicità dell'evento. Secondo Hans Küng, è tuttavia possibile che i discepoli
di Gesù si siano riuniti durante la festa ebraica della Pentecoste e che in
quell'occasione si sia verificata un'estasi mistica collettiva; la tradizione
dell'evento si sarebbe tramandata e sarebbe stata poi rielaborata da Luca(2).
Dopo aver descritto i fenomeni uditivi e
visivi che accompagnavano l'irruzione dello Spirito sul gruppo apostolico e
dopo aver annunciato il prodigio del loro parlare in «lingue» straniere, il
narratore descrive le reazioni che tale evento provoca. Lo sguardo
dell'evangelista si sposta, dal gruppo apostolico radunato «nella casa», ai
«Giudei osservanti» che abitavano la città di Gerusalemme e che provenivano «da
ogni nazione che è sotto il cielo».
Ci pare utile non passare inosservate
queste annotazioni introduttive che riguardano i testimoni dell'evento di
Pentecoste. Essi sono qualificati «Giudei osservanti», si tratta dunque di
circoncisi per nascita o per religione (cf v. 11 «proseliti»), che si erano
stabiliti a Gerusalemme per vivere all'ombra del tempio. L'espressione «uomini
osservanti» (àvdres eùlabeîs) tanto
cara all'evangelista, rende l'idea della loro religiosità fatta essenzialmente
di timore di Dio e di osservanza scrupolosa e amorevole della «Legge» dei
padri. La loro devozione o pietà evoca quella di Simone (Lc 2,25), di Anania (22,12)
o dei seppellitori di Stefano (22,12). Essi, pur provenendo da nazioni pagane («tutte
le nazioni che sono sotto il cielo»), hanno sempre mantenuto la loro identità
giudaica ed appartengono a pieno titolo al popolo d'Israele.
Ecco infatti cosa accade: il «fragore»
della discesa dello Spirito che ha «riempito tutta la casa» (v. 2) dove
abitava il gruppo apostolico, viene percepito anche all'esterno: la
«moltitudine(3)» dei giudei si raduna, eccitata e confusa. Il
narratore riferisce le loro reazioni e sottolinea con insistenza «l'effetto sorpresa»
provocato su di loro dai discorsi degli apostoli. I termini che parlano di
stupore e di meraviglia si accavallano l'uno all'altro. La moltitudine è presentata
al v. 6 come «stupefatta», in piena confusione (sunechùthe) perché «ciascuno li udiva parlare la propria lingua»(4),
poi al v. 7 si ripete che essi erano «stupiti» e «meravigliati», e
ancora al v. 12, dopo l'enumerazione dei popoli rappresentati nell'uditorio,
si dice: «Tutti erano stupiti e perplessi». Questa meraviglia si traduce in
movimento, in concitate gesticolazioni e in esclamazioni poi si formulano una
serie di domande che riguardano il prodigio del parlare in lingue. Essi
sottolineano dapprima la stranezza del fenomeno, per il fatto che il gruppo
apostolico è formato da Galilei: «costoro che parlano non sono forse tutti Galilei?» (v. 7);
si domandano poi come mai i presenti li sentano parlare nella lingua del loro
paese di provenienza: «E come è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua
nativa?» (v. 8); e successivamente le loro parole si precisano ulteriormente:
«li udiamo parlare nelle nostre
lingue delle grandi opere di Dio» (v. 11). È interessante notare
come il verbo «parlare» è
ripetutamente riferito al gruppo dei discepoli ed è specificato dalle
espressioni «la nostra lingua nativa» (v. 8) e «nelle nostre lingue delle
grandi opere di Dio» (v. 11).
Il lettore si accorge che il racconto
non lascia più alcun dubbio sul significato da dare al prodigio. Il narratore
intende sottolineare che lo Spirito rende capaci i discepoli di parlare nelle
lingue delle diverse nazioni alle quali appartenevano questi Ebrei pii ed osservanti.
Nasce il linguaggio nuovo della fede, che tutti comprendono e che raggiunge
questa moltitudine stupefatta.
Infatti la lista dei popoli e delle
regioni, elencate al centro delle insistite affermazioni sullo stupore dei
presenti (vv. 9-11), pur non essendo esaustiva di tutto il mondo allora
conosciuto, è stata inserita dal narratore con un chiaro significato
universalistico: esso rappresenta la pienezza d'Israele, ora simbolicamente
radunato come le profezie veterotestamentarie avevano annunciato per gli ultimi
tempi: «Vi prenderò tra le genti, vi
radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo ... porrò il mio spirito
dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e
mettere in pratica le mie leggi ... » (Ez
36,24ss). Questa promessa che sembrava già essersi realizzata
quando Israele giunse al Sinai (cf Dt
1,10; 10,22) ha invece in
questo momento il suo vero compimento, perché tutta questa «moltitudine»,
proveniente «da tutte le nazioni che sono sotto il cielo», è anche
simbolicamente rappresentativa di tutti i popoli pagani, ai quali gli apostoli
porteranno la loro testimonianza. Il narratore vuole dunque affermare,
attraverso questa lista, non solo che l'intero Israele, lì radunato, è il
primo destinatario del prodigio dell'effusione dello Spirito, ma che esso farà
da legame tra Gerusalemme e il resto del mondo. Dunque in questa moltitudine
radunatasi a Pentecoste occorre vedere tutta l'umanità. Il linguaggio della
fede, parlato dal gruppo apostolico a Pentecoste è destinato a raggiungere gli
uomini di ogni popolo e di ogni cultura, perché il linguaggio dello Spirito è
un linguaggio universale!
Ma lo stupore dei presenti non riguarda
solo il fenomeno del parlare in lingue straniere, ma anche e soprattutto,
«l'annuncio» sorprendente che viene loro rivolto. Il gruppo apostolico
parlando nella lingua stessa degli uditori, proclama con forza e con parole
persuasive, intelligibili e comprensibili a tutti «le grandi opere di Dio» (tà megaleîa toû Theoû, 2,11).
Finalmente il contenuto della predicazione apostolica è ora formulato
apertamente e condensato in questa ricca espressione, in cui Dio, il Padre di
Gesù, è al centro della lode, così come lo era nei cantici proclamati da
alcuni personaggi dei vangeli dell'infanzia. Infatti, sotto l'impulso dello
Spirito il gruppo dei discepoli incomincia a lodare Dio e a cantare le sue
meraviglie. Si tratta di un parlare estatico, pieno di gioia che assomiglia
alla proclamazione di un cantico che tutti comprendono. Come era avvenuto per
Zaccaria che ripieno di Spirito Santo profetava dicendo: «Benedetto il Signore
Dio d'Israele» (Lc 1,67ss)
o per Maria (o, più probabilmente, Elisabetta) nel cantico del Magnificat: «L'anima
mia magnifica (megalùnei) il
Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore» e «Grandi cose (megala) ha fatto in me
l'Onnipotente... » (Lc 1,46.49),
così essi proclamano le meraviglie di Dio, in mezzo alle nazioni! (cf Rm 15,9).
Lo Spirito infatti, riempiendo i loro
cuori, li fa traboccare di gioia, di ammirazione e riconoscenza verso Dio, li
«travolge» e li fa «parlare»! Pietro, nel successivo discorso «profetico» che
lo Spirito gli farà proclamare (2,14-36) espliciterà così il senso delle «grandi
opere di Dio» di cui i presenti sono testimoni: il Padre ha risuscitato Gesù,
lo ha innalzato alla sua destra e ha effuso il suo Spirito come essi stessi
possono vedere e udire (2,33). È proprio questo dono che viene «dall'alto» che
ora permetterà a tutti di proclamare che «Gesù è il Signore» e di gridare, come
dirà Paolo, «Abbà, Padre!» (Rm
8,15). L'evento della passione e morte di Gesù che sembrava prima
un enigma e una tragedia inspiegabile (cf Lc
24) viene ora compreso come il punto di arrivo di un disegno di
misericordia e di salvezza per tutti loro. Il dono dello Spirito, infatti, dà
al gruppo apostolico un'intelligenza «piena» del senso degli avvenimenti della
Pasqua (cf Gv 15,26).
Pietro dirà senza esitazione alcuna: «Sappia dunque con certezza tutta la casa
d'Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete
crocifisso» (2,36).
Il crocifisso è dunque il risorto, il Kyrios, della storia. La
realtà interiore dello Spirito, donato dal Signore Gesù, che essi hanno così fortemente
sperimentato non può più essere trattenuta. La bontà incondizionata del Padre
che si è rivelata nel Figlio va proclamata a ogni uomo! Nasce in loro la
coscienza che la vicenda di Gesù di Nazaret non è più circoscrivibile dentro
un arco di tempo limitato, ma supera i limiti del tempo e dello spazio per
raggiungere ogni uomo e ogni popolo, vicini e lontani. Essi dunque diventano
«apostoli» e «profeti» nel senso pieno della parola. Incomincia in questo
momento il tempo «dell'annuncio della Parola»: è l'inizio dell'evangelizzazione!
Sembra, dunque, che siano proprio e
soprattutto l'«annuncio» della bontà incondizionata di Dio e la scoperta della
sua paternità e del suo perdono a suscitare stupore e meraviglia. L'ultima
domanda «Che significa questo?» (2,12) manifesta il desiderio di comprendere
ancora di più «la Parola» sorprendente degli apostoli. Questo stupore dei
presenti, che testimonia in modo molto efficace la natura straordinaria
dell'avvenimento, è preambolo della fede.
La narrazione dell'evento di Pentecoste
termina riportando però, anche reazioni opposte, di chiusura e di perplessità.
Alcuni dei presenti commentavano l'evento dicendo: «Si sono ubriacati di mosto»
(2,13b). Questa espressione riassume probabilmente quell'esperienza di rifiuto
e di derisione che la chiesa subirà in seguito, quando proclamerà la notizia
straordinaria del crocifisso risorto (At
17,32; 26,24). Perché da queste prime reazioni si arrivi alla conversione,
sono necessari però, due ulteriori passi: il primo accedere al «significato»
profondo dell'evento e il secondo aderirvi con una risposta personale. Sarà
proprio questa «Parola» annunciata da Pietro a condurre a questa meta.
Rispondendo agli interrogativi e alle provocazioni degli uditori, Pietro proclamerà
con forza che lo Spirito, dono del Signore risorto, è ora effuso su tutti,
come la profezia del profeta Gioele aveva annunciato e inviterà i presenti ad
accogliere l'opera meravigliosa del Padre, che ha risuscitato colui, che da
loro è stato crocifisso.
Il narratore concluderà il discorso
dando un'altra notizia straordinaria: coloro che accolsero la Parola
dell'apostolo furono battezzati e «in quel giorno si unirono a loro circa
tremila persone» (2,41). È lo Spirito che ha fatto nascere la prima comunità
di credenti! Il gruppo apostolico sperimenterà così il pieno compimento della
promessa fatta ad Abramo di renderlo padre di una «moltitudine di popoli» (Gn 17,4-5; cf Dt 26,5; Eb 11,12) e il popolo
d'Israele qui radunato e rappresentato da questi giudei, accoglierà la Nuova
Alleanza, proclamata a loro per la prima volta pubblicamente. L'esegesi
cristiana vedrà in questo avvenimento di Pentecoste l'opposto di quanto si
verificò a Babele (Gn 11,1-9). Il dono dello Spirito
restituisce agli uomini e ai popoli quell'unità che essi avevano perduto,
perché la lingua dello Spirito è l'unica capace di unire. Da questo momento la
Parola di Dio inizierà la sua corsa per conquistare tutte le genti, cominciando
da Gerusalemme per poi raggiungere progressivamente la Giudea, la Samaria ed
arrivare fino agli estremi confini della terra (1,8) (5).
Note: 1. Pietro Rossano, Gianfranco Ravasi, Antonio Girlanda, Nuovo
dizionario di teologia biblica, Edizioni Paoline, 1989 – 2. Hans Kung, Essere
cristiani, Mondadori, 1976 – 3. Si mantene il termine «moltitudine» che traduce il greco plèthos, invece di «folla» (CEI)
perché il narratore vuole probabilmente creare un collegamento con la promessa
di Abramo (Gn 17,4-5). – 4. L'espressione «la
propria lingua» (2,6) va tradotta letteralmente «nel proprio dialetto». – 5.
Quanto riportato è stato scritto rielaborando un articolo pubblicato in Parole di vita, n. 1, 1998.