XIII Domenica del Tempo
Ordinario – Mc 7,31-37
Di nuovo, uscito
dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in
pieno territorio della Decàpoli. Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di
imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita
negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il
cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà»,
cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della
sua lingua e parlava correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma
più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano:
«Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
L’evangelista(1) introduce l’episodio con una indicazione di
luogo: “Di nuovo, uscito dalla regione di
Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio
della Decàpoli”. Anche questo episodio avviene nell’ambito delle peregrinazioni di Gesù al
di fuori del territorio palestinese causate dal suo scontro con gli ispettori
inviati da Gerusalemme. Gesù lascia la zona di Tiro, città della Fenicia, dove
aveva guarito la figlia della donna siro-fenicia, passa per Sidone e si dirige
verso il mare di Galilea, ma invece di fermarsi in questa regione, si reca
nella zona orientale (Decapoli) abitata anch’essa da popolazioni non giudaiche.
“Gli portarono un sordomuto e lo
pregarono di imporgli la mano.” La collocazione geografica
del segno che sta per narrare, non importa dove esso effettivamente sia
avvenuto, interessa a Marco per qualificare il destinatario: anche lui, come la
siro-fenicia, è un gentile, un non ebreo. A parte questa indicazione implicita
e la malattia da cui è afflitto, nulla si dice del personaggio e di coloro che
lo conducono da Gesù. Questo è un artificio letterario frequentemente usato nei
vangeli sinottici (e qualche volta anche da Giovanni) per generalizzare
l’evento e far si che qualunque lettore o ascoltatore possa liberamente identificarsi
nel protagonista del fatto.
Il personaggio è un sordomuto; noi potremmo accettare questa malattia
come un problema fisico, ma più correttamente dovremmo coglierne la valenza
simbolica: la capacità di ascoltare la parola di Dio rappresenta infatti una
delle caratteristiche principali del popolo di Dio (cfr. Dt 6,4). Ognuno di noi è chiamato non solo ad ascoltare, ma anche a
rispondere a ciò che Dio gli dice. La risposta prende forma nel culto, ma è
soprattutto nella vita, mediante l’osservanza del comandamento dell’amore (cfr.
Gv 13,34), che si manifesta la
risposta a Dio. Il sordomuto è il simbolo di chi è impedito in tutto questo da
precetti religiosi, convinzioni personali, remore ad esprimere il proprio
pensiero, senso di indegnità. L’atto di Gesù lo guarisce da tutto questo.
L’imposizione delle mani era il gesto consueto con cui si invocava la
benedizione divina su una persona, e già altre volte era stato richiesto a Gesù
o usato da lui e dai suoi discepoli per compiere un’azione straordinaria (cfr. Mc 5,23; 8,23.25; 16,18).
Alla richiesta di imposizione della mano Gesù risponde più con i gesti
che con le parole: “Lo prese in disparte,
lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò
la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!»”.
La presenza della folla viene qui menzionata in modo inaspettato. Gesù
non si sottrae alla richiesta di coloro che accompagnano l’uomo e neppure
solleva obiezioni, come aveva fatto con la donna siro-fenicia: tuttavia il
fatto di compiere il segno in disparte indica già di per sé una certa ritrosia,
dovuta certamente al fatto che si trova in territorio non abitato da giudei; è
questa forse anche la causa per cui egli, per la prima volta, fa ricorso a
gesti inusuali come il toccare gli orecchi con le dita e mettere la saliva
sulla lingua, che sono simili a quelli usati dai guaritori dell’epoca. Il
guardare verso il cielo sta però ad attestare che egli attribuisce non a questi
gesti, ma a Dio, l’opera di guarigione.
I gesti di Gesù hanno un effetto immediato: “E subito
gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava
correttamente. E comandò loro di non dirlo a nessuno”.
Gesù non vuole che si diffonda troppo la notizia della sua presenza,
anche se non si trova in Israele: qualche fondamentalista ebreo può essere in
zona per affari e le conseguenze sarebbero immaginabili. Gesù vorrebbe che il
segno rimanesse un fatto privato.
L’evangelista però osserva “Ma più egli lo
proibiva, più essi lo proclamavano e…”. Il verbo «proclamare»
traduce il greco ekerysson, che letteralmente significa «annunziare»: è
questo un verbo tipico della missione cristiana, che indica il primo annunzio
del vangelo. Usandolo in questo contesto l’evangelista mette in luce un
paradosso: mentre Gesù, essendo fuori del territorio giudaico, vorrebbe tenere
nascosto il fatto, i gentili diventano gli annunciatori del messaggio che egli
ha portato loro.
Marco osserva infine che i presenti, “…pieni
di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i
muti!»”.
Questa frase si ispira da una parte al primo racconto della creazione (cfr.
Gen 1,1-2,4a) dove si sottolinea più
volte la bontà delle cose fatte da Dio («...
e vide che era cosa buona»), e in modo speciale dell’uomo, fatto a sua
immagine e somiglianza («vide che... era
cosa molto buona»); d’altra parte le parole della folla alludono a un testo
di Isaia in cui è già presente lo stile e il messaggio del Deuteroisaia: «...si schiuderanno gli orecchi dei sordi...
griderà di gioia la lingua del muto») (cfr. Is 35,5-6). Per l’evangelista la guarigione del sordomuto, così
come, secoli prima, il ritorno dall’esilio, rappresenta una nuova creazione.
L’insegnamento di Gesù procede attraverso forti provocazioni da parte sua e interpellanze da parte dei presenti, i quali sono spinti a dibattere tra di loro le idee del Maestro. La capacità di dialogo tra coloro che compongono la comunità dei discepoli diventa così lo strumento per eccellenza dell’ascolto della parola di Dio e il segno più efficace della salvezza. Solo coloro che sanno aprirsi all’altro, ascoltando e parlando, dimostrano di essere entrati nella logica della salvezza, che implica solidarietà e comunione reciproca. L’ascolto formale e silenzioso di uno che predica in nome di Dio non è mai causa e segno convincente di un cambiamento interiore, perché non implica il superamento delle proprie barriere e l’uscita dalla propria solitudine. Senza il dialogo l’annunzio della salvezza è vuoto e inefficace(2).
L’insegnamento di Gesù procede attraverso forti provocazioni da parte sua e interpellanze da parte dei presenti, i quali sono spinti a dibattere tra di loro le idee del Maestro. La capacità di dialogo tra coloro che compongono la comunità dei discepoli diventa così lo strumento per eccellenza dell’ascolto della parola di Dio e il segno più efficace della salvezza. Solo coloro che sanno aprirsi all’altro, ascoltando e parlando, dimostrano di essere entrati nella logica della salvezza, che implica solidarietà e comunione reciproca. L’ascolto formale e silenzioso di uno che predica in nome di Dio non è mai causa e segno convincente di un cambiamento interiore, perché non implica il superamento delle proprie barriere e l’uscita dalla propria solitudine. Senza il dialogo l’annunzio della salvezza è vuoto e inefficace(2).
Note: 1. L’esegesi che segue è stata
liberamente tratta da un articolo di P. Alessandro Sacchi pubblicato su www.NICODEMO.net. – 2. Questa è una delle
cause del ridimensionamento in atto nella Chiesa Cattolica: le verità imposte
dall’alto e non frutto della discussione e della scoperta personale, perdono
ogni significato e divengono inefficaci perché prive dello Spirito.