(segue
dalla domenica precedente)
3. Il concetto di peccato.
Nella lingua greca esistono molti termini traducibili con la
parola peccato, anche con molte variazioni di significato (mancanze, sbagli,
colpe, cadute, disobbedienze, ingiustizie, trasgressioni, deviazioni, empietà, inganni,
ecc.), ma nel greco biblico sono due i termini prevalentemente usati: hamartia e adikia.
Hamartia significa
peccato inteso come un mancare il bersaglio, uno sbagliare direzione. Indica
una vita vissuta contro il progetto di Dio, un vivere nel rifiuto del dono di
vita che viene continuamente dal Padre.
L’adesione a Gesù e al suo vangelo, ossia la conversione, intesa
come cambiamento di mentalità verso il mondo, cancella questo “peccato”. I veri
discepoli di Gesù non hanno “il peccato” anche se rimangono, nel cammino di conversione,
errori, mancanze, debolezze, sbagli ecc.
Adikia è il peccato, ma anche menzogna o ingiustizia, sia contro gli
uomini che contro Dio. Nella visione veterotestamentaria il peccatore (adikos) ne assume
le conseguenze negative sia spirituali che materiali (come le malattie e la
morte), ma può raggiungere la salvezza, meritandola con riti di purificazione,
opere buone, sacrifici, sofferenze, fino al martirio. Si pensava, ed ancor oggi
si pensa, che la salvezza vada meritata e non accolta come dono di Dio. Ma
Paolo apostolo afferma con forza che gli uomini sono “giustificati per la
fede in Cristo e non per le opere della Legge; poiché per le opere della Legge
non verrà mai giustificato nessuno” (Galati
2,16).
Inoltre esistono, ma solo nel vangelo di Matteo, due eccezioni che
riguardano l’uso di altri due termini: il primo è Parabasis (dal verbo parabaino che
significa trasgredire, deviare, uscire di strada). In Matteo 15,2-3 è scritto:
“Perché i tuoi discepoli trasgrediscono
le tradizioni degli antichi?”.
Il secondo è Paraptoma (dal verbo parapipto che significa, deviare, mancare, inciampare,
cadere). Nei libri dell’AT, per indicare il peccato si preferiscono termini
come infedeltà, iniquità, deviazione, ribellione, ossia i termini intesi come
infrazioni di un ordine sociale e/o religioso voluto da Dio e trasmesso
attraverso la Legge. Il peccato allora è una colpa contro Dio: “Contro di
te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto:
così sei giusto nella tua sentenza, sei retto nel tuo giudizio” (Salmo 51,6).
Con questa visione trasgredendo una legge divina (o un
comandamento, un divieto o una prescrizione) viene infranto il patto
dell’Alleanza e la punizione del peccatore (hamartolos) diventa
una conseguenza ineludibile.
Solo una conversione, intesa come il ritorno a Dio, ristabilisce
la giustizia e la comunione con la divinità.
E quello che predica il Battista con il suo battesimo (Marco 1,4) al contrario Gesù ha sempre
preferito occuparsi di togliere agli uomini la sofferenza e condurli verso la
felicità, come vuole Dio.
Nel giudaismo viene chiamato peccatore chi vive una vita
peccaminosa, ossia chi pratica certi mestieri (pubblicani, prostitute, pastori,
perfino i conciatori di pelli ecc.) e chi non vuole (pagani e incirconcisi) o
non può, neanche volendo, osservare le 613 regole che i farisei facevano
derivare dalla Legge.
In ogni caso, con l’avvento del Messia, Dio avrebbe sterminato
tutti i peccatori (Isaia 13,9).
Nell’ebraismo, e in maniera spasmodica con il fariseismo, il
peccato e legato alla disobbedienza, che porta come conseguenza il male
spirituale e quello fisico, quello che è chiamato “il castigo di Dio”. Dice la
Scrittura: "Il male si ritorce su chi lo fa, egli non sa neppure da
dove gli venga" (Siracide 27,27)
e “la malvagità manda in rovina il peccatore” (Proverbi 13,6).
Il vangelo di Giovanni mostra come questa mentalità fosse viva al
tempo di Gesù, nell’episodio del cieco dalla nascita: “I suoi discepoli lo
interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato
cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in
lui siano manifestate le opere di Dio” (9,2-3).
“Ma i giudei insistono verso il cieco guarito: “Gli replicarono:
«Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori” (Giovanni 9,34).
Invece Gesù sostiene con forza che ciò che rende impuro l'uomo e
che pertanto rompe il contatto con Dio, sono tutti gli atteggiamenti ingiusti verso
il prossimo: "cattivi pensieri, prostituzioni, furti, omicidi,
adultèri, cupidigie, malvagità, frode, lascivia, invidia, calunnia, superbia,
stoltezza" (Matteo 7,21-22).
Il peccato è perciò qualsiasi azione rivolta contro l’uomo, ciò
che lo opprime, lo umilia, lo aliena, lo ferisce, lo violenta, e non è la
trasgressione di determinati riti o la non osservanza di precetti religiosi.
Precetti che il Signore Gesù dichiara di provenienza umana, invenzioni degli
uomini (Marco 7,7.8.13), e non
divina, come dicevano scribi e farisei.
Il peccato è quello dei violenti e dei potenti: è il male fatto
agli altri, la pretesa di esercitare il potere sull’altro con la sopraffazione,
lo sfruttamento, l’oppressione: e insomma il rifiuto della comunione di intenti
con Dio, che è amore e misericordia.
Il peccato è la violenza dell’uomo sull’uomo perché l’odio è
aggressività, indifferenza, esclusione mentre l’amore è accoglienza.
Scrive Ernesto Balducci(1): “Il peccato è la divisione,
è l’incapacità di riconciliarci con gli altri ed il mondo intero”.
Nei vangeli Gesù mostra come la concezione del peccato come offesa
alla legge di Dio sia falsa e, nella parabola del fariseo e del pubblicano al
Tempio (Luca 18,9-14) dice “questa
parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e
disprezzavano gli altri”, dove il termine giusto (zaddiq in ebraico) indica colui che rispetta tutti i precetti e le
prescrizioni della Legge.
Ma quale è l’immagine nuova, inconcepibile per quella cultura, del
perdono che Gesù è venuto a portare? Come gli uomini possono ottenere il
perdono dei peccati? E quella della remissione, della cancellazione dei
peccati, cosi come si evince dalle parole inequivocabili di Gesù che dice che
“se perdonate sarete perdonati, se non perdonate non sarete perdonati”.
Matteo enuncia il principio in 6,14 (Se
voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei
cieli perdonerà anche a voi) ed esemplifica in 18,34-35 (Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini,
finché non avesse restituito tutto il dovuto. Così anche il Padre mio celeste
farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello).
Marco (11,25) dichiara inutile una
preghiera formulata senza perdono preventivo del prossimo (Quando vi mettete
a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre
vostro che è nei cieli perdoni a voi le vostre colpe). Nel vangelo di Luca
sono riportate le parole di Gesù che invita a comportarsi come Dio, non solo
non condannando ma anche non giudicando e anzi perdonando: “Siate
misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete
giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati”
(6,36-37).
Ogni buon discepolo perdona, non fosse altro per essere stato
perdonato; infatti Dio cancella le nostre colpe, non perché noi siamo diventati
buoni (ossia per i nostri meriti) ma perché lui è buono, perché egli dona, dà
senza precondizioni, senza discriminare fra chi lo merita e chi no: “Ma io
vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano,
affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo
sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Matteo 5,44-45).
Asserisce, giustamente, Carlo Molari(2): “Rimettere i
peccati vuol dire offrire alla persona che esprime il male della propria vita,
spinte positive, offerte di vita, dinamiche di amore, di benevolenza, di
misericordia”.
Giovanni (20,23) riporta
le parole di Gesù ai discepoli: “A coloro a cui perdonerete i peccati,
saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”.
Il che non può certo significare che qualcuno decide cosa Dio debba rimettere o
non rimettere, ma significa piuttosto che se la comunità fa splendere la luce
dell'amore di Dio, coloro che l'accoglieranno possono essere liberati dal
peccato (ossia da un passato di ingiustizia, dal rifiuto alla pienezza di vita)
e dalle conseguenze di questo rifiuto (i peccati, ossia le colpe legate alle
nostre debolezze).
Infatti Gesù dona lo Spirito che, se accolto, permette alla
comunità (nella sua interezza) di saper riconoscere chi ha effettivamente
chiuso con il proprio passato di ingiustizia, cambiando mentalità e vita
(conversione).
Per molti secoli, anche nel cristianesimo, il peccato è stato
interpretato con modelli giuridici, cioè come “offesa a Dio” come una
“trasgressione della sua legge” ecc.; anche le conseguenze del peccato e la sua
riparazione venivano interpretate con lo stesso criterio. Si parlava, infatti,
di pena (temporale o eterna), di punizione da subire, di soddisfazione da
offrire a Dio, di espiazione per le proprie colpe, di meriti da acquistare ecc.
In questo orizzonte erano sorte le pratiche penitenziali (digiuni, recita del
salterio, pellegrinaggi ecc.) con relative commutazioni, riduzioni,
“indulgenze” e “perdonanze”.
Ma peccare
non è offendere Dio ma un auto-distruggersi. Lo avevano ben capito i
profeti: “Ma è proprio me che offendono – oracolo del Signore - o non
piuttosto se stessi, a loro stessa vergogna?” (Geremia 7,19).
Per Gesù, il peccato è il male che, volontariamente e
coscientemente, si compie nei confronti dell’altro per danneggiarlo. E’
l’idolatria delle cose e di se stesso, l’arroganza del potere, la ricerca di
denaro e privilegi (mammona), il rifiuto di ogni rapporto d’amore(3).
Da questo peccato originano tutti i peccati.
Egli sostiene con forza che ciò che rende impuro l'uomo e che
pertanto rompe il contatto con Dio, sono gli atteggiamenti ingiusti verso il
prossimo: “E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro
l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi
di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno,
dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive
vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo»” (Mc 7,20-23).
Siccome Dio si è umanizzato (si è fatto carne) in Gesù, il peccato
è la disumanizzazione verso se stesso o gli altri.
Note:
1. Ernesto Balducci (Santa Fiora
1922 – Cesena 1992) è stato un presbitero, editore, scrittore ed intellettuale
italiano. – 2. Carlo Molari, (Cesena 1928, vivente) è diventato sacerdote nel
1952. Laureato in Teologia dogmatica e in utroque iure nella Pontificia
Università Lateranense, ha insegnato teologia nella medesima Università
(1955-1968), nella Facoltà teologica della Università Urbaniana di Propaganda
Fide (1962-1978) e nell'Istituto di scienze religiose della Università
Gregoriana (1966-1976). – 3. E’ proprio basandosi su questo principio che
recentemente Papa Francesco ha dichiarato peccato gravissimo quello commesso
dall’imprenditore che licenzia parte del personale della sua impresa per
aumentare i propri profitti.
(segue la prossima
domenica)