Dedicazione della Basilica
Lateranense - Gv 2,13-25
Si avvicinava intanto
la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che
vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una
frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi;
gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori
di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del
Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: “Lo zelo per la tua casa mi divorerà”.
Allora i Giudei
presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?».
Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò
risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in
quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del
tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si
ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola
detta da Gesù.
Mentre era a
Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli
compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché
conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull'uomo.
Egli infatti conosceva quello che c'è nell'uomo.
Voglio premettere subito un concetto che altre volte ho ribadito, ma che
sento necessario ripetere: spiegare il vangelo di Giovanni è una cosa
completamente diversa dal fare esegesi sui vangeli sinottici (Matteo, Marco e
Luca); il fatto che sia stato scritto per ultimo (tra la fine del I secolo e l’inizio
del II secolo d.C.) unitamente alle influenze della filosofia greca, ed in
particolare gnostica1, che lo impregnano, ne fanno un vangelo che
non va mai letto per come è scritto, ma deve essere interpretato esaminando e
comprendendo le immagini simboliche e metaforiche che lo costituiscono.
La prima parte del vangelo di Giovanni, chiamata dagli studiosi “Libro
dei segni”, ha inizio subito dopo il Prologo (Gv 1,1-18) e termina con il capitolo 12. Essa si apre con una
specie di settimana inaugurale, che comprende la testimonianza di Giovanni
Battista (Gv 1,19-34), la chiamata
dei primi discepoli (Gv 1,35-51) e
infine il primo segno compiuto da Gesù, il cambiamento dell’acqua in vino a
Cana di Galilea (Gv 2,1-12). A
Gerusalemme, in occasione della Pasqua, Giovanni inserisce l’intervento di Gesù
nei confronti del Tempio, oggetto del brano di questa domenica.
Prima di esaminare il brano occorre far notare che i vangeli sinottici
pongono questo episodio nella settimana conclusiva della vita di Gesù (cfr. ad
esempio Mc 11,15-17), mentre Giovanni
lo pone all’inizio del ministero di Gesù come atto, per così dire,
programmatico.
In effetti questa irruzione nel Tempio è un eclatante atto politico
compiuto da Gesù per sottolineare l’opposizione2 che il proprio
movimento manifestava nei confronti della casta sacerdotale che usava il Tempio
di Gerusalemme come fonte di guadagno e strumento di affermazione della propria
potenza attraverso lo sfruttamento del popolo.
Ho detto atto
politico e la cosa non deve meravigliare, anzi, il lettore odierno deve cercare
di comprendere una concezione molto lontana dalla sua mentalità: la coincidenza,
o meglio l’identificazione, tra politica e religione presente nel mondo antico
ed in Iraele in modo particolare.
In questa ottica
divene comprensibile la frase iniziale del brano che suona come un’accusa: “Si avvicinava intanto la Pasqua dei
Giudei e Gesù salì a Gerusalemme”.
La Pasqua era la
commemorazione (o meglio il memoriale, l’attualizzazione) dell’uscita
dall’Egitto, dalla schiavitù; era la festa di tutto il popolo. Giovanni afferma,
però, che la Pasqua era ormai divenuta solo “dei Giudei” intendendo con questa parola non tanto gli abitanti
della Giudea, quanto gli esponenti della casta sacerdotale ed i loro
sostenitori, che aveva occupato il potere religioso, e quindi anche politico,
dalla morte di Erode il Grande3.
Le numerose
offerte che quotidianamente si facevano nel Tempio di Gerusalemme e quelle
soprattutto fatte in occasione delle feste principali, determinavano una grande
richiesta di bestie sacrificali.
A causa
delle norme di purità (cfr. Lv 3,1-17)
relative a questi animali, i pellegrini erano in pratica costretti ad
acquistarli direttamente presso il Tempio; in queste occasioni era
consuetudine, per chi poteva permetterselo, comprare anche legni preziosi,
profumi e altri oggetti di lusso da destinare alla propria casa o a doni per
amici e protettori4.
I sacrifici
e gli olocausti venivano compiuti con tre specie di animali: bestiame grosso (generalmente
bovini), bestiame minuto (pecore e capre) e uccelli (tortore e colombi), come previsto
dal libro del Levitico (Lv 1,1 e ss).
Il popolo comprava l’animale in base a quanto era in grado di spendere e quindi
i sacrifici risultavano essere ripartiti in base al censo.
Oltre a
questi venditori di animali erano presenti nel Tempio anche i cambiavalute, che
scambiavano il denaro romano5 con la moneta di Tiro, antica e sacra,
raffigurante la testa del dio pagano Melkart6, con la quale i giudei
pagavano, una volta all'anno, la tassa al Tempio (Es 30,13).
Le autorità
del tempio, che avevano il monopolio della vendita degli animali sacrificali e
che riscuotevano le tasse, avevano concesso che i mercanti potessero svolgere
la loro attività nell'atrio cosidetto dei gentili, separato con transenne e
gradinate dal resto dell'edificio (cfr. Ef
2,14). Ovviamente sia per il clero, che dava le licenze per la vendita
degli animali7, sia per i cambiavalute, che riscuotevano un aggio
sul cambio, il commercio nell'area del tempio era fonte di cospicui guadagni.
Il Tempio
era quindi il centro della vita economica e del potere religioso/politico di
Gerusalemme e, di conseguenza, di tutta la nazione giudaica: numerose persone -
le meglio pagate della città - vi lavoravano per il culto e la manutenzione.
Il fatto
stesso che tale commercio avvenisse così apertamente all'interno del tempio
stesso era sintomatico del generale decadimento che caratterizzava il complesso
della istituzione religiosa giudaica8.
Il cortile,
è vero, non era sacro, ma neppure interamente profano, e comunque,
utilizzandolo in quel modo, le autorità religiose mostravano chiaramente di
voler considerare i gentili come credenti di seconda categoria.
“Trovò nel tempio
gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora
fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e
i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi,…”. L’azione di Gesù è
improvvisa ma, contemporaneamente, selettiva: prima di tutto si munisce di una
frusta, che nella tradizione degli scribi era il simbolo del Messia venuto a
fustigare i peccatori; poi vengono scacciati a frustate “tutti”
(quindi venditori ed acquirenti, come specifica Marco) ma il trattamento più
duro lo subiscono i mercanti più ricchi e i cambiavalute, mentre quelli che
venivano incontro alle esigenze dei più poveri (venditori di colombe) sono solo
redarguiti e invitati ad andarsene: “…e ai
venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della
casa del Padre mio un mercato!»”.
Le parole con cui Gesù accompagna il suo gesto non alludono, come quelle
riportate da Marco9, a Is 56,7
(«Perché il mio tempio si chiamerà casa
di preghiera per tutti i popoli») e a Ge
7,11 («Forse è una spelonca di ladri
ai vostri occhi questo tempio che prende il nome da me?»), ma piuttosto a Zc 14,21: «In quel giorno non ci sarà neppure un cananeo10». Quindi,
secondo Giovanni, Gesù rimprovera i giudei non perché oltraggiano il Padre, ma
perché servendosi del Tempio per usi commerciali, rubano denaro ai fedeli,
sfruttandoli.
I discepoli
non sembrano partecipare attivamente all'azione, tuttavia la loro presenza è
innegabile, tant'è che nel suo vangelo, descrivendo lo stesso episodio, Marco lo
dice esplicitamente in tre versetti (Mc 11,15.19.27).
Giovanni aggiunge che i discepoli si ricordarono una frase della
Scrittura che dice: «Lo zelo per la tua
casa mi divorerà» (cfr. Sal
69,10). Questo testo fa parte di una preghiera di supplica, nella quale un
salmista si lamenta con Dio per la persecuzione che subisce da parte dei suoi
avversari; nel versetto 10 egli sottolinea come sia pieno di un amore senza
confini per il tempio di Dio (cioè per Dio stesso), e lascia intendere che
proprio per questo è stato perseguitato: infatti nella versione dei LXX viene
usato il vocabolo greco katephagen, cioè “divorato”, al tempo verbale aoristo.
In Giovanni invece il verbo “divorare” non è all’aoristo, ma al futuro alludendo
così alla morte a cui Gesù va incontro per rispettare la volontà del Padre. In
quel momento i discepoli non potevano capirlo, ma se ne renderanno conto dopo
la sua morte.
Del tutto
inaspettato da parte delle guardie del tempio e della guarnigione romana (che
sorvegliava il tempio dall’alto della fortezza Antonia), l'attacco fu
sostanzialmente condiviso a livello popolare: gli unici a protestare furono
infatti i sommi sacerdoti, gli anziani e gli scribi (cioè i Giudei, secondo la
dizione giovannea): “Allora i Giudei
presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?».
Neppure i
mercanti reagirono. Questo a testimonianza che tantissimi ebrei nutrivano ormai
un rispetto solo formale nei confronti del Tempio e della casta sacerdotale che,
pur di restare al loro posto, aveva accettato ampi compromessi con le forze
occupanti.
Tuttavia
nessun ebreo, prima di allora, aveva mai osato prendere un'iniziativa del
genere, anche perché i mercanti e i cambiavalute agivano grazie alla copertura degli
amministratori del Tempio; chiunque l'avesse fatto avrebbe rischiato di
passare, agli occhi del potere costituito, per un nemico dell'ordine pubblico,
se non per un traditore della patria, soprattutto in quel frangente storico.
"Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre
giorni lo farò risorgere»…". Il significato di questa frase va intepretato, poiché sia la
versione di Giovanni che quella dei sinottici risentono di un intervento
redazionale chiaramente apologetico11.
La frase è
un'espressione che può voler dire molte cose. L'interpretazione tradizionale
equipara il tempio al corpo di Cristo crocifisso e i tre giorni a quelli che
occorsero agli apostoli per accorgersi della tomba vuota, e poggia la sua
validità sulla successiva glossa “Ma egli parlava del
tempio del suo corpo”;
questa validità, però, sembrerebbe solo apparente.
In realtà, ammesso
che Gesù abbia detto una frase di questo genere, è difficile pensare che, in
un'occasione così cruciale per i destini del suo movimento, egli abbia voluto posporre
la comprensione della frase, rimandandola al giorno della sua resurrezione.
Tant'è che quando i Giudei gli obiettano: “«Questo
tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai
risorgere?»”, essi dimostrano
di aver capito bene che Gesù voleva sostituirsi al primato del tempio12.
Senonché per loro era meglio avere un tempio corrotto ma potente, piuttosto che
un leader onesto e coraggioso ma privo di autorità ufficialmente riconosciuta.
Qui dunque
si può solo ipotizzare che il significato di quell'espressione sia stato un
invito pressante a eliminare lo sfruttamento del popolo e il collaborazionismo con
i romani di chi amministrava il Tempio13.
D'altra
parte gli ambienti esseno, battista e zelota avevano già capito che aveva poco
senso fare riferimento al primato politico-religioso del Tempio quando, di
fatto, esso era già stato distrutto dalla corruzione di chi lo
amministrava.
Il vero
problema era diventato come trasformare l'uomo in "tempio di se
stesso" (anche il Battista, con la pratica del battesimo, puntava allo
stesso obiettivo): la rigenerazione morale degli uomini e la conseguente
capacità di giudicare in autonomia - preludio della rivoluzione politica -
avrebbe dovuto sostituire la difesa ad oltranza di un'istituzione ormai morente
(Gesù lo dirà chiaramente alla samaritana del pozzo di Giacobbe14).
La differenza tra Gesù e il Battista stava tutta nel fatto che quest'ultimo non
arrivò mai a compiere il passaggio decisivo dalla strategia pre-politica,
vissuta lungo le acque del Giordano e nel deserto, a quella propriamente
politica vissuta nel cuore stesso della capitale.
Purtroppo la
reazione dell'intellighenzia politica al gesto di Gesù non fu così positiva
come ci si sarebbe potuti attendere: la maggior parte del movimento battista
non ebbe il coraggio di appoggiare pubblicamente l'iniziativa, pur
condividendone le motivazioni etiche, perché si era impoverito in quanto alcuni
capi avevano già lasciato il movimento battista per diventare seguaci Gesù (cfr. Gv 1,37 e ss.). Solo una minoranza del
movimento fariseo (capeggiata da Nicodemo) si limitò a incontrare Gesù
privatamente, in forma del tutto ufficiosa (Gv
3,1-21), continuando a vedere nel Tempio una delle risorse insostituibili
per l'aggregazione del popolo, specie in occasione delle grandi feste e
ricorrenze, nonostante che proprio i farisei avessero sviluppato molto l'uso delle
sinagoghe, in luogo del Tempio, nelle zone decentrate del paese. Dell'atteggiamento
tenuto dal movimento zelota, i vangeli non parlano15.
Probabilmente
i farisei rappresentavano allora il movimento popolare tradizionale più
rappresentativo o almeno quello più influente sulle masse. Essi tuttavia erano
molto scettici sulla possibilità di liberarsi dei romani, o comunque aspiravano
a un mutamento che non stravolgesse le istituzioni della società giudaica, al
cui interno, essi, non senza fatica, si erano costruiti una loro identità
politica: Gesù, per loro, appariva troppo "radicale". Gli fecero
infatti capire che avrebbero accettato le conseguenze della "purificazione
del tempio" solo a condizione di vedere un altro gesto ancora più
significativo, che dimostrasse in maniera inequivoca ch'egli era il messia
tanto atteso. In Gv 3,18 la domanda
che gli pongono è abbastanza eloquente: "Quale segno ci mostri per fare queste cose?".
L'ipocrisia
stava proprio in questo: che da un lato i farisei si rendevano conto delle
contraddizioni insostenibili del Tempio, e dall'altro non si aveva il coraggio
di risolverle in maniera decisiva e, nonostante ciò, ci si opponeva a chi
prendeva una decisione senza avere ottenuto il loro consenso preventivo.
La domanda
che nei sinottici Gesù rivolge alle autorità, in merito al destino del Battista16,
può, sotto questo aspetto, essere interpretata nel modo seguente: "Se quello
che ho fatto nel tempio lo considerate moralmente inaccettabile o
giuridicamente illecito o politicamente inopportuno perché chiedere un segno
che ne legittimi il senso e non intervenite immediatamente per eliminare lo
scandalo dello sfruttamento del popolo?"
Atteggiamento
analogo i farisei avevano tenuto nei confronti del Battista (Gv 1,19 e ss). Ai farisei interessava
non tanto il messaggio di Giovanni quanto piuttosto il consenso che il suo
programma religioso-politico poteva avere nelle masse.
I farisei,
con Nicodemo, s'erano limitati a un incontro informale; successivamente invece,
essendosi accorti che, in seguito della sua azione, Gesù stava facevano più
discepoli di Giovanni17, volevano negoziare un'intesa vera e
propria. Per tutta risposta Gesù, che non si fidava più di loro, lasciò la
Giudea coi suoi discepoli e si diresse di nuovo verso la Galilea.
Per
concludere, l'epurazione del tempio fu l'evento più importante del primo anno
di diffusione del vangelo di liberazione. Praticamente si erano poste le basi
di quella che sarebbe potuta diventare una rivoluzione non solo religiosa ma
anche politica.
Però, come
"prova generale" della imminente sollevazione antiromana, fu un
fallimento e tuttavia molti cominciarono a vedere in Gesù un nuovo leader
politico. Fra questi i più convinti furono i galilei, giunti a Gerusalemme a
motivo della Pasqua18.
Al termine del racconto l’evangelista osserva: “Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa,
molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù,
non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno
desse testimonianza sull'uomo. Egli infatti conosceva quello che c'è nell'uomo”.
A Gerusalemme i segni da lui operati hanno suscitato interesse ed talora entusiasmo.
Essi però si rivelano segni essenzialmente ambigui: vedendoli si inizia a
credere in Gesù e grazie ad essi si può andare incontro al Maestro, al Profeta,
o anche al Messia a seconda della propria comprensione; ma questo primo
movimento di simpatia testimonia una fiducia ancora imperfetta, perché porta ad
ammirare il taumaturgo oppure il rabbì o l’uomo politico senza raggiungere il figlio di Dio, l’unico oggetto possibile
della fede secondo Giovanni. È questo che egli suggerisce con l’opposizione
letteraria tra il «credettero nel suo
nome» e il «non si fidava (non credeva
in) di loro». Utilizzando il medesimo
verbo greco «credere» (pisteuein) in due significati differenti, il
narratore orienta il lettore verso uno dei punti centrali dei due episodi
successivi (vedi capitoli 3 e 4): all’apparizione di Dio in Gesù si può e si
deve reagire solo con una fede sincera e autentica.
Note: 1. Gnosi, dal greco gnosis
("conoscenza"). La gnosi è la conoscenza pervenuta al sapiente per
vie divine o sapienziali. Lo gnostico era in epoca antica il sapiente, colui il
quale possedeva la conoscenza per averla ricevuta direttamente da una
rivelazione degli dei. Nel II secolo d.C. la filosofia gnostica fu la corrente
religiosa che predicava la possibilità di attingere ai motivi più profondi del Cristianesimo
attraverso la ragione (atteggiamento razionale). – 2. L’ostilità di Gesù nei confronti del Tempio ha un altro
esempio in Mc 12, 41-44 e in Lc 21, 1-4. Entrambi gli episodi,
relativi alla vedova che dona al Tempio pochi spiccioli, sono inseriti tra due
invettive contro gli scribi ed il Tempio (tecnica del trittico). – 3. Erode il Grande (73 a.C.– 4 a.C.) fu re della
Giudea sotto il protettorato romano dal 37 a.C. fino alla morte. – 4. E’
probabile che questa sia la sorgente principale, anche se non l’unica, della
nostra abitudine a scambiarci regali in occasione del Natale. – 5. Queste
monete avevano corso legale in Israele, ma non potevano entrare nel Tempio per
questioni di purità poiché recavano incisa l'effige dell'imperatore romano. Da
notare l’incongruenza: la moneta del Tempio, considerata sacra, recava incisa l’effige di un dio fenicio!!
(vedi nota seguente).
- 6. Una moneta usata per il pagamento
della tassa del tempio è stata rinvenuta per la prima volta in Gerusalemme nel
febbraio del 2008 durante gli scavi diretti da Eli Shukron dell'Israel
Antiquities Authority e dal professor Ronny Reich dell'Università di Haifa. La
moneta, del valore di mezzo shekel (sciclo), pesa 13 grammi, raffigura sul
diritto la testa di Melqart, il dio principale della città di Tiro, e sul
rovescio un'aquila sulla prua di una nave. Melqart (oppure meno accuratamente Melkart, Melkarth
o Melgart), in accadico Milqartu, era il nume tutelare della
città fenicia di Tiro. Il nome deriva da una leggera compressione del fenicio Milk-Qart
che significa "Il Re della Città". È probabile che Melqart sia quel
particolare Baal che si trova in 1Re 16,31.18,25-26
il cui culto fu introdotto in Israele dal Re Achab (prima metà del IX secolo
a.C.) e poi quasi totalmente sradicato dal Re Jehu (seconda metà del IX secolo
a.C.). – 7. Fonti
rabbiniche citano la famiglia del sommo sacerdote Anna come fortemente
coinvolta in questi commerci. – 8. Marco,
narrando lo stesso episodio (Mc 11,15-16) così si esprime: “Ed
entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano nel
tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe
e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio”, a
testimonianza che le usanze primigenie non prevedevano un uso commerciale delle
aree del tempio, altrimenti vi sarebbero state previste vie di accesso diverse.
Gli Esseni, proprio a causa della corruzione introdotta dai sommi
sacerdoti, rifiutavano nettamente i sacrifici degli animali, anzi non
partecipavano a nessun culto, e dalla loro comunità, che viveva nel deserto, sembra
siano usciti i discepoli del Battista, che battezzavano lungo il Giordano,
continuando a rifiutare il culto e i sacrifici del tempio; Gesù, con alcuni
discepoli del Battista costituirà il movimento nazareno, la cui prima
iniziativa politica, secondo Giovanni, fu proprio l'epurazione del Tempio
descritta in questo brano. – 9. Mc
11,17: «Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per
tutte le genti? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!» - 10. Sia Aquila (Targum), che la Volgata riportano, al
posto di un cananeo, la parola mercante e con questo la frase
calzerebbe a pennello. – 11. Per apologia
si intende un discorso in difesa di una persona o di un’idea. Con il tempo il
vocabolo ha assunto anche il significato di atto commemorativo o di lode. – 12.
La frase «Distruggete
questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere»
sembra evidentemente un modo allegorico di dire: “Eliminate il potere della
casta sacerdotale (Tempio) e immediatamente (tre giorni) affidatevi a me”. –
13. Vedi nota precedente. – 14. Gv
4,21-24: “Le dice Gesù: «Credimi, donna, che viene un'ora in cui né su questo
monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete; noi
adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene
un'ora, ed è adesso, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e
verità; infatti il Padre cerca tali persone che l'adorino. Dio è Spirito e coloro
che lo adorano, devono adorarlo in Spirito e verità »”. 15. Il movimento zelota si farà parte attiva nella rivolta
del 69-70 d.C. e verrà spazzato via dalla reazione romana dopo aver combattuto
valorosamente nella difesa di Gerusalemme. – 16. Ad esempio Mc 11,27-33: “Andarono di nuovo a
Gerusalemme. E mentre egli si aggirava per il tempio, gli si avvicinarono i
sommi sacerdoti, gli scribi e gli anziani e gli dissero: «Con quale autorità
fai queste cose? O chi ti ha dato l’autorità di farlo?». Ma Gesù disse loro:
«Vi farò anch’io una domanda e, se mi risponderete, vi dirò con quale potere lo
faccio. Il battesimo di Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini?
Rispondetemi». Ed essi discutevano tra sé dicendo: «Se rispondiamo “dal cielo”,
dirà: Perché allora non gli avete creduto? Diciamo dunque “dagli uomini”?».
Però temevano la folla, perché tutti consideravano Giovanni come un vero
profeta. Allora diedero a Gesù questa risposta: «Non sappiamo». E Gesù disse
loro: «Neanch’io vi dico con quale autorità faccio queste cose»”. – 17. Cfr. Gv
4, 1-3: “Quando il Signore venne a sapere che i farisei avevan sentito dire:
Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni - sebbene non fosse Gesù in
persona che battezzava, ma i suoi discepoli -, lasciò la Giudea e si diresse di
nuovo verso la Galilea”. – 18. Cfr. Gv 4,45: “Quando però giunse in Galilea, i Galilei lo accolsero con
gioia, poiché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme durante
la festa; anch’essi infatti erano andati alla festa”.