Terza Domenica di Pasqua –
Gv 21,1-19
Dopo questi fatti, Gesù si manifestò
di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano
insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i
figli di Zebedeo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a
pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono
sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l'alba, Gesù stette
sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro:
«Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli
disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La
gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci.
Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon
Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi,
perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con
la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da
terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un
fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un
po' del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e
trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché
fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E
nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che
era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il
pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere
risorto dai morti.
Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a
Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli
rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i
miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di
Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene».
Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone,
figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza
volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto;
tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità,
in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove
volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e
ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli
avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
[Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che
Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva
domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?».
Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: «Signore, che
cosa sarà di lui?». Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io
venga, a te che importa? Tu seguimi». Si diffuse perciò tra i fratelli la voce
che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non
sarebbe morto, ma: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che
importa?».]1
L’ultimo capitolo del vangelo di Giovanni(2) fa seguito al
racconto delle apparizioni di Gesù ai discepoli nel Cenacolo (cfr. Gv 20), al termine del quale l’autore
aveva posto una breve conclusione. Sembrava quindi che il vangelo fosse
terminato. Invece viene riportato il racconto di un’ulteriore apparizione,
questa volta non più a Gerusalemme ma in Galilea. Esso proviene da un antico
frammento della tradizione giovannea, dotato di alcune caratteristiche proprie,
che è stato collocato in questo punto dell’opera al momento della sua redazione
finale, a cavallo tra il I ed il II secolo dopo Cristo.
Il testo ha un significato fortemente simbolico e riprende l’antica
tradizione, attestata dai sinottici, secondo cui le apparizioni del Risorto
hanno avuto luogo in Galilea (cfr. Mc
16,7; Mt 28,7.16). Si noti come la scena della pesca straordinaria trovi un
parallelo in Luca (cfr. Lc 5,1-11),
dove fa da sfondo alla vocazione dei primi discepoli.
Al termine il redattore finale ha posto una seconda conclusione del libro
che ha un profondo significato e che quindi riporto e commento nonostante che
il liturgista non la prenda in considerazione.
“Dopo questi fatti, Gesù si
manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade.” Con questa frase Giovanni
intende raccordare questo episodio con le apparizioni narrate precedentemente,
mostrando come esso ne rappresenti il normale sviluppo: nel v. 14 dirà che si
tratta della terza apparizione. Da notare che il verbo greco phaneroô usato
da Giovanni indica una manifestazione trascendente: in Gesù risorto è Dio
stesso che si manifesta.
“E si manifestò così: si trovavano
insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i
figli di Zebedeo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a
pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono
sulla barca; ma quella notte non presero nulla.” L’evento ha luogo sul “mare
di Tiberiade”, altrove chiamato Genesaret ed è pervaso da un senso di vuoto. I
discepoli si riuniscono ma non hanno più la guida, non sanno cosa fare. Per
tentare di riempire questo vuoto sei dei discepoli si recano con Pietro a
pescare. Essi pescano tutta la notte, ma senza risultato. La notte è simbolo
dell’assenza di Gesù, luce del mondo: per questo il risultato della pesca è
nullo.
“Quando già era l'alba, Gesù stette
sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro:
«Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No».”
Gesù si rivolge a loro con l’appellativo affettuoso di ragazzini (paidia) qui tradotto
con figlioli che non rende del tutto
il senso dell’affettuosità della parola di Gesù(3); chiede se hanno
qualcosa da mangiare. Sembra un modo come un altro per attaccare discorso, ma
nella cultura ebraica il mangiare insieme è il simbolo della comunità, un modo
intimo di scambiarsi vita, esattamente quello di cui hanno bisogno i discepoli.
“Allora egli disse loro: «Gettate la
rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano
più a tirarla su per la grande quantità di pesci.”
Sentendo che non avevano preso nulla, dice loro di gettare la rete,
indicando di farlo sul lato destro dell’imbarcazione: questa indicazione di
luogo, assente nella versione lucana dell’episodio, serve per sottolineare come
la pesca abbondante non è frutto di casualità, ma dell’intervento di Gesù, che
ha indicato lui stesso dove gettare le reti. Essi obbediscono e la rete si
riempie di pesci, senza per questo spezzarsi.
“Allora quel discepolo che Gesù amava
disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore,
si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in
mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete
piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di
metri.”
Il discepolo
che Gesù amava non è Giovanni, o meglio, non è solo Giovanni: come tutti i
personaggi senza nome dei vangeli, esso rappresenta tutte le persone che
vengono a trovarsi in situazioni simili, quindi rappresenta tutti i discepoli
passati, presenti e futuri di Gesù. Simon Pietro, al riconoscimento, non
attende che la barca accosti alla riva e si butta impetuosamente a nuoto,
mentre i discepoli sulla barca cercano di portare a riva la rete strapiena.
“Appena scesi a terra, videro un fuoco di
brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po' del
pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a
terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti,
la rete non si squarciò.”
I discepoli,
una volta a terra, trovano la colazione in parte pronta, occorre solo
arricchirla con altro pesce. Notate il protagonismo di Simon Pietro, prima si
butta in acqua perché ha fretta, poi, nonostante sulla barca ci siano cinque
discepoli, è lui che va a tirare su la rete. Vedremo più avanti come questo
protagonismo viene valutato da Gesù. L’evangelista non lo giudica male (lo
chiama sia col nome che con il soprannome), ma nemmeno lo prende come esempio.
Il numero di pesci catturati è segno dell’universalismo della missione,
in quanto sembra che esso corrisponda a quello delle specie di pesci conosciute
nell’antichità(4). Nella pesca straordinaria viene simboleggiata,
come nel brano parallelo di Luca, la missione conferita da Gesù ai discepoli:
essi sono inviati nel mondo perché invitino tutti gli uomini ad entrare nel
regno, aggregandosi alla chiesa, che ne rappresenta l’anticipazione e il nucleo
originario (cfr. la parabola della rete in Mt
13,47-50); il loro successo è assicurato, purché agiscano con Gesù e seguano
la sua parola (cfr. Gv 15,5b: “Senza di
me non potete far nulla”). In questo contesto la grande quantità di pesci
raccolti rappresenta il successo della missione. Il fatto che la rete non si
rompa simboleggia infine l’unità della chiesa (cfr. la veste senza cuciture in Gv 19,24).
“Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E
nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che
era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il
pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere
risorto dai morti.” La comunità è riunita intorno alla mensa che, anche se
non è specificato dall’evangelista, dobbiamo considerare eucaristica; a questa
comunità Gesù inizia un importante discorso e, per farlo, si rivolge a Pietro.
Questa
era la terza volta che Gesù si manifestava ai suoi discepoli dopo essere
resuscitato dai morti. Ricordo che il numero tre non va mai preso in maniera
matematica, ma sempre in maniera figurata: vuol dire che Gesù si è manifestato
completamente. “Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di
Giovanni, mi ami più di costoro?».”
Inizia
qui un racconto pieno di grande tensione, in crescendo; Gesù prende
l’iniziativa perché, se Simone è testardo, Gesù è più testardo di lui. Abbiamo
visto che questo discepolo è stato un disastro finché, spergiurando, lo ha
tradito.
Lo
chiama il figlio di Giovanni(5),
è questo il motivo che lo ha portato al tradimento, perché è rimasto legato all’idea
di un Messia trionfatore come l’aveva il Battista. E non era presente quando
Giovanni ha capito che Gesù era l’agnello di Dio che veniva a togliere il
peccato dal mondo! Pietro è rimasto discepolo di Giovanni.
“…mi ami tu più di
costoro?»”.
Il pallino fisso di Pietro è stato quello di essere il leader, il protagonista,
il portavoce, il capogruppo. Gesù gli dice: va bene, vuoi essere il portavoce,
il leader di questo gruppo? Allora ti chiedo se mi ami. E qui, nel testo greco,
c’è tutto un gioco di parole tra il verbo amare
e il verbo voler bene. Per il verbo
amare l’evangelista adopera il verbo greco ‘agapaô’
da cui deriva una parola che conosciamo tutti: agape, che significa un amore che si fa dono generoso e gratuito
nei confronti degli altri.
Ogni
volta che Gesù fa una domanda al gruppo, risponde sempre lui, lui è il solista.
“Mi ami più di tutti questi?”. E figuratevi se il povero Simone può rispondere:
è l’unico in questo vangelo, a parte Giuda, che lo ha rinnegato. Gesù gli
chiede: “che credenziali hai per essere il capogruppo, il leader: mi ami di un
amore incondizionato più di tutti gli altri?”. In Simone l’evangelista fotografa
tutti noi, sempre furbi, sempre abili a svicolare le richieste del Signore.
“Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse:
«Pasci i miei agnelli».”
Attenti
a quelli che rispondono “sì, Signore.” Nei vangeli sono sempre quelli che
fregano, meglio quelli che dicono no, ma poi lo fanno. Pietro non può dire a
Gesù che lo ama e usa il verbo volere bene che in greco è ‘phileô’, da cui filantropia,
filosofia, che significa un voler bene di amicizia, un affetto che però
richiede un contraccambio, e cioè: “io voglio bene al mio amico perché anche
lui ne vuole a me”.
Gesù
sembra accettare la risposta e lo invita a “pascere” (letteralmente
“alimentare”) i suoi agnelli. Tutte le volte che Gesù parlerà di agnelli e di
pecore, dirà sempre: sono mie, non scordarti, tu non sei il padrone del gregge.
Ma
Gesù non è soddisfatto e torna alla carica. “Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi
ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse:
«Pascola le mie pecore».”
La
domanda è identica alla prima, ma Gesù evita la comparazione con gli altri. Anche la risposta di Simone è identica
alla precedente. Gesù accetta anche questa risposta e dice letteralmente (è un
po’ difficile tradurre letteralmente): “Pastura
le mie pecore”. Prima aveva
parlato degli elementi deboli, gli agnelli, adesso degli altri elementi della
comunità. Agnelli e pecore significano tutta quanta la comunità. Al posto di
pascere c’è un verbo, che è difficile da usare in italiano: essere pastore,
pasturare, verbo che si rifà all’attività del pastore con un particolare
accento sulla cura e sulla protezione del gregge. Di conseguenza, il volere
bene a Gesù si dimostra nel farsi alimento per gli altri e nel proteggere gli
altri.
Ma
Gesù non è ancora soddisfatto. Simone non ha risposto a quello che Gesù gli ha
chiesto. “Gli disse per la terza volta:
«Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per
la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu
conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie
pecore.”
Per
due volte Gesù gli ha chiesto: Mi ami? E lui per due volte ha risposto: “Si
Signore, ti voglio bene”. Il povero Pietro sembra un pugile ormai suonato alle
corde, è frastornato, Gesù lo ha veramente demolito con questo incontro. Per
due volte gli ha chiesto se lo ama e per due volte Pietro ha risposto che gli
vuole bene. Adesso, la terza volta, Gesù gli chiede: «Mi vuoi bene?» E
finalmente assistiamo al crollo di Simone.
Finalmente
compare il dolore(6) e crolla: era ora! Lui ha sempre ritenuto di
conoscersi più di quello che il Signore sapesse di lui. Gesù aveva detto: voi
tutti mi tradirete e lui: io, no! - “Signore
tu sai tutto”. E non può dire che lo ama, non può dire che lo ama
incondizionatamente, generosamente, e dice: “Tu sai che ti voglio bene”.
Si ferma a questo livello, non è capace di dire che lo ama.
“Gli rispose Gesù: «Pasci le mie
pecore.” La risposta di Gesù
racchiude il verbo adoperato nella prima risposta, nutri, pascola e il nome
della seconda, non gli agnelli ma le pecore. Questa unione riassume il compito
di Pietro: procurare vita e proteggere il gregge di Gesù. Gesù non lo chiama
alla funzione di pastore! Nel vangelo di Giovanni l’unico pastore è il Cristo.
Quando Gesù parla di sé con quella inesatta traduzione “io sono il buon pastore”, non intende una qualità morale del pastore: lui è buono e gli
altri sono cattivi. Il termine che traduciamo con “buono”, significa
l’eccellenza. Gesù dice: io sono il pastore per eccellenza, nessun altro può
esercitare questo ruolo.
Il
pastore è colui che guida il suo gregge e quindi l’unica guida della comunità è
Gesù, nessun altro deve prendere il suo posto. Poi ci sono discepoli che
possono collaborare con Gesù in questa attività. Ecco che Gesù dice allora: fai
l’erba, dai da mangiare e proteggi questo gregge. Ma l’unico pastore della
comunità è Gesù.
Gesù
gli fa capire che si può procurare agli altri la vita soltanto quando si è
capaci di donare la propria. Donare la propria vita agli altri significa
orientarla al servizio degli altri, orientarla al bene degli altri. Solo così
si trasmette vita. Quanti sono dominati, come Pietro, dall’ambizione, dalla
carriera, dal successo, possono vestire paramenti religiosi o liturgici
importanti ma non trasmettono vita e il contrario della vita è trasmettere
morte. Soltanto quando una persona orienta la propria esistenza verso il bene
degli altri trasmette vita.
Per
questo Gesù aggiunge ora una predizione della morte del discepolo. “In verità, in verità ti dico:…”; quando
incontriamo l’espressione “in verità, in verità” specie nel vangelo di
Giovanni, significa una affermazione sicura da parte di Gesù, potremmo
tradurre, in termini più comprensibili per noi, “vi assicuro”.
Ecco
la predizione(7) della morte di Pietro: “…quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando
sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu
non vuoi».”.
Il
condannato alla crocifissione doveva portare il patibolo e poi era condotto sul
luogo della esecuzione. Proprio quella croce che Pietro aveva evitato per tutta
la sua esistenza ed era stata la causa del suo rinnegare Gesù, Gesù gliela
mette come obiettivo finale del suo seguire. Pietro tenderà le mani sul
patibolo, verrà condotto sul luogo del supplizio, ed il destino di Pietro sarà
la croce come Gesù e non il successo con il Messia.
Pietro
non seguiva Gesù, lo accompagnava. Nei vangeli si sottolinea la differenza tra
il seguire (che vuol dire accogliere l’individuo e il suo messaggio) e
l’accompagnare. Lui accompagnava Gesù, animato dai sui desideri di gloria e di
predominio.
“Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio.” Qui c’è una
stranezza, ma è la linea dei vangeli. Sembra strano, un avvenimento come la morte
(e qui si tratta di una esecuzione, di una crocifissione!) Gesù la associa alla
glorificazione di Dio. Gesù qui usa l’identica espressione per indicare la sua
morte in croce: “quando io sarò elevato
da terra attirerò tutti a me. Questo diceva per indicare con quale morte stava
per morire”. La stessa morte in croce sarà la fine del discepolo, morte che
non sarà il fallimento di una esistenza, ma il momento culminante
dell’esistenza dell’uomo nel quale si manifesta la gloria di Dio, che si rende
visibile nel momento in cui c’è il dono della propria vita per gli altri.
È
la linea teologica di Giovanni, un evangelista che ubriaca i credenti,
portandoli a grandi altezze. Secondo l’evangelista, ogni persona che accetta
Gesù e come lui orienta la propria esistenza verso il bene degli altri, diviene
l’unico vero santuario nel quale si manifesta e si irradia la gloria di Dio.
Gloria significa la manifestazione visibile di ciò che è Dio. Dio non è più da
cercare nel tempio, ma dove ci sono persone che volontariamente, liberamente,
per amore, mettono la propria esistenza a servizio degli altri, lì si manifesta
Dio.
“E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».”
Gesù,
nel vangelo di Giovanni, non invita Pietro a seguirlo quando lo incontra,
perché sa cosa c’è in questo uomo. Soltanto ora che gli ha messo in chiaro che
anche lui passerà per la croce - e già Gesù è passato attraverso il supplizio
dei maledetti da Dio - soltanto adesso gli dice: “segui me”. Adesso sai che seguire me non significa fare carriera,
andare a regnare, ma significa passare attraverso l’ignominia della croce. Occorre
però comprendere che, nel vangelo di Giovanni come negli altri evangelisti,
Gesù non è una vittima sacrificale. L’immagine del Cristo che porta la croce
nella via crucis e cade tre volte (teniamola, se proprio volete, come
devozione!) non esiste: nei vangeli il Cristo crocifisso non è una vittima che
viene portata al supplizio, ma è l’eroe che trionfa, che non vede l’ora,
attraverso questo supplizio, di manifestare tutto l’amore di Dio per l’umanità.
Non è una sconfitta, non è un patibolo, ma è un trionfo. Gesù, sulla croce, non
solo non viene distrutto, ma manifesta tutto sé stesso.
“«Seguimi».”
Credete che l’abbia seguito? Non per niente lo chiamavano Pietro, il Testardo.
Per questo dicevo all’inizio che era opportuno riportare e commentare anche i
versetti finali del capitolo.
L’evangelista
qui è quasi comico: “Pietro si voltò e
vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era
chinato sul suo petto e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti
tradisce?».” Gesù gli dice: segui me e lui si volta da un’altra parte! Fino
all’ultimo, ma lo vedremo poi negli Atti degli Apostoli, per decenni Pietro
continuerà in questo atteggiamento. Per questo penso che è una figura
consolatoria: se Gesù c’è riuscito con Pietro, ci riuscirà senz’altro anche con
noi.
Pietro
ha sbagliato tutto, ha fallito tutto, non ne ha imbroccata una giusta. Quando
l’evangelista dice: “il discepolo che Gesù amava”, non è che Gesù aveva un
discepolo prediletto, ma l’amore è la relazione normale di Gesù con qualunque
suo discepolo. Gesù amava questo discepolo come amava Lazzaro, amava Marta,
amava Maria. Non c’è il discepolo prediletto. L’unico prediletto nei vangeli è
Gesù, che è il prediletto del Padre.
“Pietro dunque, come
lo vide, disse a Gesù: «Signore, che cosa sarà di lui?».”.
Qui
la traduzione è sinceramente un po’ arzigogolata; la traduzione più semplice è
«Signore, è lui?». Pietro si trova ad un bivio, ha combinato un disastro, non
ne ha imbroccata una e di fronte a Gesù che gli dice: «Segui me», guarda il
discepolo che non ha mai sbagliato! Dice: è lui? Cioè: voglio seguire te, però
voglio camminare dietro a lui.
In
maniera un po’ umoristica, Pietro vuole un padre spirituale, vuole qualcuno che
lo consigli esattamente su cosa, come e quando fare. Pietro, il discepolo che
non è stato capace di seguire Gesù, che ha finito col rinnegarlo, vuole avere
come guida spirituale il discepolo che invece gli è stato sempre fedele. Adesso
che finalmente Gesù lo ha invitato a seguirlo e sa che questo itinerario finirà
sulla croce, vuole seguire il discepolo, quello che – lui sì - era presso la
croce. A Gesù che gli ha chiesto di seguirlo, Pietro dice: sì, ma preferisco
camminare dietro l’altro.
“Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io
venga, a te che importa? Tu seguimi».” La frase è un po’ complessa, vediamo di
spiegarla: Gesù dice a Pietro che non deve interessargli il fatto che un altro
discepolo lo segue, l’importante è che Pietro segua Gesù. Quello che Gesù dice
a Pietro, lo dice ad ogni credente. Gesù gli rinnova l’invito, che viene
ripetuto con maggiore forza: prima gli aveva detto: “seguimi”, adesso dice: “tu
segui me”.
Pietro
non deve seguire l’altro discepolo; questa è una indicazione importante anche
per la comunità cristiana: ognuno ha il suo cammino diverso da compiere, ma
tutti devono seguire l’unico Gesù. Nessuno, in questo seguire Gesù, è chiamato
a imitare un’altra persona per quanto santa possa essere, per quanto grande
possa essere la sua fedeltà e la sua santità. Gesù sa che ognuno di noi è una
realtà unica, irripetibile e nessuno deve scimmiottare un’altra persona. Ognuno
deve realizzare pienamente sé stesso attraverso la sequela di Gesù. Gesù non
ammette che lo si possa seguire attraverso un mediatore, un intermediario,
fosse pure il discepolo modello, quello più vicino a lui. Ogni imitazione di
discepoli (parliamo pure di imitazione di santi) sarebbe di ostacolo alla piena
e intima comunicazione che Gesù vuole con i suoi.
Ognuno
di noi deve realizzare sé stesso, non deve imitare un altro. Chi fa questo
rovina la propria esistenza, perché pensa che così com’è non è gradito al
Signore, l’altro invece ha dei pregi, lui solo difetti e si sforza, violenta sé
stesso per essere simile all’altro. Gesù non accetta questo.
Seguire
Gesù significa che ogni persona è chiamata a realizzare pienamente sé stesso,
così com’è, con i propri limiti, come vediamo con Pietro, con i propri difetti.
Qualunque imitazione è negativa, perché impedisce lo sviluppo della persona.
Note: 1. Questa parte del brano non è compresa nella liturgia
del giorno, ma è stata aggiunta per migliorare la comprensione degli
avvenimenti descritti nel brano liturgico. – 2. L’esegesi di questo brano è
stata, in parte, liberamente tratta da un articolo di P. Alessandro Sacchi
pubblicato su Nicodemo.net. – 3. Da notare che la parola figlioli usata dal traduttore comporta una nota paternalistica del
tutto assente nelle intenzioni di Gesù che, semmai, si pone più nella posizione
di un fratello che di un padre. – 4.
Questo è il parere di Girolamo In Ezechielem (PL 25, 294-295): “…
i quali pesci, al comando del Signore, Pietro tirò su dal lato destro: erano
153, tanto che per la loro quantità le reti minacciavano di rompersi. Coloro
che hanno scritto circa la natura e le proprietà degli animali e che, sia di
lingua greca sia di lingua latina, hanno studiato gli “alieutika” (fra i quali è Oppiano di Cilicia, poeta dottissimo),
dicono che i generi di pesci sono 153 e che tutti furono catturati dagli
apostoli, così che nulla rimase di non pescato, mentre nobili e ignobili,
ricchi e poveri, e ogni genere di uomini vengono pescati dal mare di questo
mondo”. Anche Agostino ha provato a
spiegarlo in “De Diversis Quaestionibus
Oc Toginta Tribus” 57, 1-3, ma si è talmente impappinato nei calcoli che
non si capisce dove è andato a parare. Cito invece una spiegazione di Enzo
Bianchi che sembra più convincente: "Gesù
chiede ai discepoli di portare anche il pesce che avevano preso, ed è Pietro
che, riemerso dalle acque, esegue l’ordine e «trae a terra la rete piena di 153
grossi pesci» (Gv 21,11). Nella profezia sul tempio escatologico Ezechiele
aveva contemplato sul lato destro del tempio acque pescose e sulle rive di
En-Eglaim una distesa di reti (cf. Ez 47,1.8-10); forse nell’annotazione sui
153 pesci vi è un rimando a questo brano, perché il calcolo numerico delle
lettere ebraiche che compongono il toponimo En-Eglaim, la cosiddetta ghematria, dà come risultato
proprio 153. Saremmo così condotti alla visione della chiesa come tempio
escatologico, della comunità cristiana come luogo della missione universale e
della presenza di Dio manifestata dal Risorto. Secondo Girolamo, d’altra parte,
i 153 pesci simboleggiano tutte le genti della terra, essendo questo il numero
delle specie di pesci marini esistenti. In ogni caso, quella che qui viene
evocata è l’universalità della missione della chiesa e
l’universalità della raccolta degli uomini intorno al Risorto e alla sua
comunità." – 5. Qui si intende Giovanni il Battista, del
quale Pietro era discepolo. – 6. Il dolore che non
era apparso al momento del triplice rinnegamento, compare qui per la prima
volta. Quando Pietro ha tradito Gesù, non si parla di dolore per il tradimento,
si parla di scomparsa dell’uomo. Gesù, pienamente libero, perché la libertà è
interiore, di fronte ai suoi carcerieri che lo stanno per arrestare risponde:
«Io sono». Io sono era il nome di Dio. Simon Pietro che è apparentemente
libero, ma è legato dalle sue paure risponde: «Non sono». Gesù conferma la sua
identità e dignità, Pietro perde identità e dignità. Chiamato da Gesù ad essere
libero, è incapace di seguirlo e, anziché stare con Gesù, libero, sta con i
servi. È chiamato ad essere libero, invece sta con i servi; chiamato a stare
con Gesù, si è messo dalla parte dei suoi nemici. – 7. Questo vangelo è scritto almeno 40 anni dopo la morte
di Pietro; più che una preddizione è una cronaca.