Quarta Domenica di Pasqua –
Gv 10,11-18
Io sono il buon
pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che
non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo,
abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un
mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon
pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre
conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre
pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare.
Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per
questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo.
Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere
di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Nel brano di questa
domenica è citata una delle immagini con le quali Gesù descrive se stesso ed è
una delle immagini più mistificate della storia della spiritualità cristiana: e’
quella del Buon Pastore. Il successo(1) di questa immagine
deriva più dall’impoverimento e dallo svuotamento dell’espressione evangelica
adoperata da Gesù, che dalla sua comprensione.
Questa raffigurazione
mandò su tutte le furie gli ascoltatori dell’epoca. Gesù non aveva fatto in
tempo a definirsi il Buon Pastore che la reazione degli ascoltatori, tra
cui c’erano farisei e autorità religiose, esplode violenta: definiscono Gesù un
indemoniato fuori di sé, da eliminare. Scrive infatti Giovanni: “…di nuovo i
giudei(2) raccolsero le pietre per lapidarlo” (Gv 10,31).
Possibile che i
giudei erano tanto ottusi da fraintendere espressioni così belle, così
rassicuranti? Come mai quando Gesù si proclama Buon Pastore, questa
immagine, per noi tanto cara, fa dire loro che è un matto, uno fuori di testa e
cercano di ammazzarlo?
Prima di entrare
nell’esegesi del brano è quindi indispensabile comprendere il significato di
questa immagine nella cultura del tempo di Gesù.
Chiedo scusa ai lettori se questa esegesi sarà particolarmente lunga,
ma essa è di capitale importanza per la nostra fede.
Gesù, utilizzando
l’immagine del pastore, si riferisce a due brani dell’AT molto belli e molto
conosciuti: la denuncia del profeta Ezechiele contro i pastori di Israele (Ez 34) ed il Salmo 23: il Signore è
il mio pastore.
Esaminiamoli attentamente; cominciamo con Ezechiele (Ez
34,1-31): siamo
nel 593 a.C., un gruppo di
ebrei sono deportati a Babilonia dopo l’assedio di Gerusalemme e sperano di
poter tornare a Gerusalemme, perché sanno che Dio è con loro. Invano il profeta
Geremia invita a rassegnarsi alla deportazione e all’esilio; loro,
ingannati dai falsi profeti, non gli credono. Uno degli esiliati, un sacerdote
di nome Ezechiele, viene incaricato dal Signore di annunciare che non solo si
devono rassegnare all’esilio ma che il peggio deve ancora arrivare. Infatti una
decina di anni dopo (nel 588 a.C.) Nabucodonosor marcia contro Gerusalemme,
l’assedia per la seconda volta, la distrugge e il resto degli abitanti è
deportato a Babilonia. E’ una catastrofe, gli ebrei hanno perso praticamente
tutto: il regno promesso da Dio a Davide e che avrebbe dovuto durare per tutta
l’eternità; la terra promessa, perché sono esiliati in terra pagana; la
certezza o l’illusione di essere il popolo eletto, il popolo scelto dal
Signore; per questo è in crisi anche la loro fede verso Dio.
Di fronte a questo
disastro il profeta Ezechiele, anche lui esiliato, scrive ai confratelli
esiliati una delle pagine più belle dell’AT dove denuncia il perché di questa
tragedia e la natura di questi mali. La denuncia dice che i responsabili di
questa catastrofe sono i pastori di Israele. Con il termine pastore Ezechiele
intende(3):
- i principi,
perché divorano la gente,
- i sacerdoti che
trasgrediscono le leggi,
- i profeti che
offrono false illusioni a pagamento per accontentare la gente,
- i possidenti che
sfruttano il povero(4).
Annunzia Ezechiele “…questi
pastori saranno spodestati e verrà il Signore e sarà lui il pastore del popolo”.
E prosegue “…susciterò
per loro un solo pastore. Egli le condurrà al pascolo e sarà il loro pastore”
(Ez 34,23). Ezechiele afferma che è finita l’epoca dei pastori che pensavano
solo al proprio tornaconto, e più avanti dirà che sarà addirittura il Signore il
nuovo pastore.
Da questa esperienza
e da questa teologia di Ezechiele nasce uno dei salmi più belli, quello che
comincia con l’espressione Il Signore è il mio Pastore (Sal 23). E’ una
affermazione molto chiara e secca, anche molto drammatica: “Il Signore è il
mio pastore…”, cioè non
riconosco nessun altro pastore. Se fino ad ora i principi, i sacerdoti, i
possidenti, cioè quelli che si facevano chiamare pastori facendo i propri
interessi, si sono occupati del popolo; ora “il Signore è il mio Pastore,
non manco di nulla…”; quando
mi affido al Signore, quando mi lascio governare da lui, non manco di nulla.
Ezechiele afferma che
i pastori si sono comportati addirittura come belve. “Dice il Signore: li
strapperò dalle loro fauci…” (Ez 34,10), un termine che si adoperava per le
bestie selvatiche. Il Signore, rivendicando il ruolo del pastore attraverso il
profeta Ezechiele, afferma: “…andrò in cerca della pecora perduta e
ricondurrò all’ovile quella smarrita…” (Ez 34,16).
Sono tutte immagini
riprese dagli evangelisti ed applicate a Gesù; tuttavia bisogna porre molta
attenzione per comprenderle bene. La parabola della pecora è presentata nel vangelo
di Matteo e in quello di Luca in due forme diverse.
In Luca, che è
attento all’atteggiamento del Signore verso i peccatori, si parla della pecora
perduta, immagine dell’uomo peccatore che il Signore va a cercare. Non la
castiga, non la minaccia ma la prende in braccio con sé. Quando il Signore si
incontra con l’uomo peccatore non è mai per un giudizio ma per una
comunicazione ancora più grande di vita (Lc
15,3-6).
In Matteo si parla
della pecora smarrita (Mt 18,12-13);
il termine greco che noi traduciamo con smarrita, ha il significato di ingannata,
sviata. Gesù ne parla all’interno del discorso più tremendo fatto nel vangelo
di Matteo (cap. 18), dove l’ambizione del gruppo dei discepoli è causa di
scandalo per la gente che comincia a far parte di questo gruppo: hanno sentito
parlare della comunità di Gesù dove sono tutti fratelli e dove si vogliono tutti
bene, entrano e cosa vedono?... liti e discussioni a non finire per
l’ambizione, per sapere chi è il più importante. Allora Gesù, proprio a questi
discepoli che scandalizzano le persone offre la breve parabola della pecora
ingannata.
La pecora ingannata è
l’immagine della persona entrata a far parte della comunità cristiana dove
trova più o meno le stesse dinamiche di fuori: rivalità, inimicizie,
ambizioni, incapacità di perdono. E allora questa persona se ne va. Gesù va
in cerca della pecora ingannata ma, trovatala, non la riporta più nel gregge,
perché il gregge è diventato luogo di pericolo, la tiene con sé in un rapporto
particolare.
Il salmo afferma che
quando ci si è affidati ad altri è stato un disastro; quando ci si fida del
Signore c’è abbondanza: ad acque tranquille mi conduce, mi rinfranca, mi
guida per il giusto cammino, per amore del suo nome… cioè per la sua
reputazione. Il Signore si è fatto la reputazione di un Dio liberatore. Quando
ci si affida a un Dio liberatore, si è tranquilli e questo Dio procurerà sempre
il meglio, l’ottimo, anche se dovessi camminare in una valle oscura…
Questa espressione è
stupenda: la valle
oscura era l’immagine con la quale si indicava l’oltre tomba, il regno dei
morti, là dove si credeva che Dio non c’era. Ebbene, la fiducia del salmista
nel Signore che è suo pastore, è talmente grande che afferma: …anche se dovessi finire nell’oltretomba, tu
mi ami tanto che anche là tu sei con me.
Noi non ci rendiamo
conto della potenzialità di questa immagine, forse dovremmo tradurla in una
maniera comprensibile in questi termini: …io
sono sicuro, Signore, che tu mi ami tanto e mi vuoi tanto bene che, anche se
dovessi andare all’inferno, tu verresti all’inferno con me; tu non mi
abbandoni.
Quindi è l’immagine
della totale fiducia nel Signore come pastore.
Questo ambiente
culturale di Ezechiele e del Salmo è ripreso da Giovanni nel brano in esame
dove Gesù si proclama il pastore.
Il contesto nel quale
Gesù si proclama pastore è quello dello scontro con le autorità giudaiche dopo
che Gesù ha aperto gli occhi al cieco nato (Gv
9,1-41). I capi religiosi non possono tollerare che si sia potuta compiere
una azione positiva, trasgredendo il comandamento più importante, quello che
Dio stesso osservava, cioè il comandamento del riposo del sabato.
Non possono ammettere
nessuna crepa nella loro teologia. E allora spingono colui che era stato cieco
a dover ammettere che per lui sarebbe stato meglio rimanere cieco piuttosto che
aver riconquistato la vista ad opera di un peccatore.
L’ex cieco, con una
profonda ironia, e con una grande ricchezza teologica dice: “Se egli sia un
peccatore, non so; una cosa so, che ero cieco e ora ci vedo…” (Gv 9,25). E’
come se dicesse: sentite… io di
teologia non me ne intendo, non capisco e la lascio a voi. So che prima ero
cieco e adesso ci vedo. Per me va bene così. L’evangelista sta dicendo
che (ed è qualcosa di tremendo perché fa tremare le fondamenta dell’istituzione
religiosa, di qualsiasi istituzione religiosa) l’esperienza dell’uomo è più
importante di qualunque verità teologica, di qualunque dogma.
Non potendo ammettere
contraddizione nella loro teologia, i farisei lo cacciano fuori. Ma l’esser
stato cacciato fuori dalla sinagoga non è stato un danno perché ha incontrato
Gesù che lo ha accolto nella sua comunità. Ed è in questo contesto che Gesù si
definisce pastore.
“Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria
vita per le pecore.”
Incomincia dicendo Io
sono.
Io sono, nell’AT era il nome
di Dio. Quando Mosè nel roveto ardente ha chiesto alla divinità il nome, il
Signore non ha risposto col nome, con l’identità, ma con una attività che lo
rende conoscibile: io sono(5), espressione che in tutta la tradizione ebraica veniva sempre
interpretata come: io sono sempre vicino al mio popolo.
Gesù rivendica per sé
la condizione divina. L’azione che lui ha fatto non è l’azione di un peccatore,
ma è l’azione di Dio, perché Dio non tollera che le persone soffrano. Mentre
per le autorità religiose la sofferenza non interessa perché la religione rende
disumani. Tra il bene dell’uomo e il rispetto della legge divina, loro non
hanno dubbi nell’affermare che è più importante la legge divina, anche se fa
soffrire la persona: basta offrire le proprie sofferenze al Signore.
L’importante è il rispetto della legge di Dio.
Questa legge di Dio è
lo scudo, il paravento dietro il quale l’istituzione religiosa copre il proprio
interesse. Gesù denuncerà che i capi sono i primi a non credere alla legge
quando va contro i loro interessi. Ma se ne fanno scudo per mantenere e, se
possibile, rafforzare il proprio dominio e il proprio prestigio.
Dai vangeli emerge
semplicemente che la legge di Dio non
esiste, perché Dio non fa leggi: Dio è amore e se c’è una cosa che non può
essere codificata è l’amore. Per cui parlare di legge di Dio è un non
senso.
Nel testo originale
greco l’evangelista non scrive io sono il buon pastore, ma scrive io
sono il pastore, quello bello.
Infatti il termine greco che corrisponde all’italiano buono è agatos,
mentre nel testo si usa il
termine kalòs, che in italiano significa bello. Usando questa parola l’evangelista
non sta indicando la bellezza fisica di Gesù, ma l’insieme delle sue qualità
che lo rendono bello, cioè dichiara Gesù il pastore ideale, l’eccellente, il
migliore. Questo fa coincidere
Gesù con il pastore indicato da Ezechiele che si occuperà del popolo di
Israele; ecco perché alla fine di questo discorso i Giudei dicono che
Gesù è pazzo e cercano di ammazzarlo, in quanto l’avvento del pastore di Dio
comporterà la fine del potere dei sacerdoti, dei principi e dei possidenti.
“Il buon pastore dà la propria vita per le pecore”. Nei vangeli non
esiste il ruolo di pastore applicato ad altri personaggi. Gesù è indicato
come il modello di pastore, questo significa essere disposto a dare la vita e
per sottolineare questo conetto, per quattro volte verrà ripetuta l’espressione
offrire la vita.
Quello che Gesù dice
lo metterà anche in pratica. Pensiamo al momento dell’arresto: era in una
posizione vantaggiosa e quella sera avrebbe potuto salvarsi la vita. Era nel
Getsemani, alle pendici del monte degli ulivi con tanti galilei che dormivano
nelle grotte all’intorno. Quando vide arrivare da lontano, dalla casa del Sommo
Sacerdote, la truppa di circa 800 soldati per catturarlo provvisti di armi e di
torce, avrebbe potuto dire ai suoi discepoli e ai conterranei di coprirgli le
spalle, e così avrebbe potuto fuggire sul monte degli ulivi. A breve distanza,
dopo il monte degli ulivi, inizia immediatamente il deserto ed è una miriade di
caverne e di cunicoli dove una persona diviene introvabile.
Gesù avrebbe potuto
salvarsi la vita anche perché i discepoli gli avevano garantito che erano
pronti a dare la vita per lui (Gv 13,37-38). Erano pronti ma non avevano
capito che non c’è da dare la vita per lui, ma con lui e come lui dedicarla
agli altri.
Gesù, la notte
dell’arresto, resta in attesa e quando arrivano per arrestarlo dice: se
cercate me, lasciate che questi se ne vadano (Gv 18,8). E’ il pastore che da la vita per le
pecore.
“Il mercenario - che
non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo,
abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un
mercenario e non gli importa delle pecore”.
Il lupo rappresenta
una minaccia per entrambi, sia per il mercenario che per il pastore, ma il
pastore, quello ideale, “bello” secondo l’espressione dell’evangelista - al
quale l’incolumità delle pecore sta a cuore più della sua esistenza e il cui
compito è che nessuno vada perso - è capace di dare la vita per le proprie
pecore. Il mercenario no; lui abbandona le pecore perché esercita il compito di
pastore per il proprio tornaconto e interesse.
Il mercenario non è
un cattivo pastore in quanto non è considerato nemmeno un pastore: Gesù non gli
riconosce un ruolo che, se pure degenerato, avrebbe implicato un incarico,
quello di pastore da parte di Dio, ma lo accomuna ai ladri e ai briganti, nomi
che in precedenza Gesù aveva attribuito ai dirigenti del popolo (Gv 10,8); ladri perché si sono
impossessati del gregge che era di Dio ed assassini perché per rubare il gregge
ammazzeranno il pastore legittimo, Gesù il figlio di Dio.
“Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie
pecore conoscono me,…“
Gesù si definisce buon pastore per la terza volta. Il tre è il numero che
indica completezza. Gli uomini nella religione erano abituati ad una relazione
di sottomissione nei confronti di un Dio da servire e da temere, al quale si
doveva offrire. Gesù inaugura una nuova relazione con Dio attraverso la sua
persona che è quella di una esperienza intima e profonda. L’espressione “conosco
le mie pecore”, nella cultura
ebraica indica addirittura un rapporto coniugale, il che significa che
Gesù ha con i suoi un rapporto di grandissima intimità. Per sottolineare la
profonda relazione tra il pastore e le sue pecore Gesù aveva in precedenza
detto che il pastore le chiama una per una (Gv 10,3). Questa indicazione è importante per la
nostra fede in quanto sottolinea il rapporto personale di Dio con ciascuno di
noi come singola persona e non come componenti di un popolo. Infatti nel
mondo palestinese è normale vedere pastori, beduini che conducono al pascolo
centinaia di pecore; per noi sono un gregge, per loro no: ogni pecora ha il suo
nome perché ha una sua caratteristica (Bianchina, Brunetta, Riccioluta…). Il
pastore non ha un rapporto con un gregge, ma avendole viste nascere ha un
rapporto con ognuna delle sue pecore. Quindi una conoscenza profonda, intima.
“…così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e
do la mia vita per le pecore”. L’evangelista approfondisce questa immagine e
la relazione che Gesù ha con il suo gregge nasce dall’intimità che lui ha con
il Padre. La distanza che c’era tra Dio e gli uomini, una distanza voluta e
mantenuta dall’istituzione religiosa, ora è stata annullata.
Secondo la religione
l’uomo non può rivolgersi direttamente a Dio; ha bisogno di un mediatore (il
sacerdote), ha bisogno di un luogo particolare (il tempio), ha bisogno di una metodologia
di incontro ben precisa (il culto), ha bisogno di uno schema di vita che sia
chiaro, ordinato (la legge); sono tutte le mediazioni che l’istituzione
religiosa ha creato per mantenere la distanza tra gli uomini e Dio. Con Gesù
tutto questo è annullato.
Gesù vuole che la
stessa intimità esistente tra lui e il Padre esista anche tra lui e il suo
gregge. Quindi il ricorso alle mediazioni delle istituzioni religiose che si
credeva favorissero la comunione con Dio, non solo non la favorisce ma la
impedisce.
“E ho altre pecore che non provengono da questo recinto:
anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo
gregge, un solo pastore”.
Non è solo il recinto
del giudaismo ad aver terminato la propria funzione, ma ogni altra istituzione
che impedisca la piena libertà agli uomini. Gesù è entrato nell’ovile del
giudaismo per svuotarlo e per condurre fuori le sue pecore. E’ l’immagine
dell’esodo e della liberazione.
Ma per Gesù non basta
questo ovile. Il mondo è pieno di ovili e anche lì deve far risuonare la sua
voce perché quelle che lo ascoltano possano seguirlo.
Il termine ovile adoperato
dall’evangelista, nell’AT indica l’atrio del santuario del tempio, luogo
dell’istituzione religiosa. L’ovile dona sicurezza in cambio della libertà.
Ecco il fascino della religione e dell’istituzione religiosa. Ecco l’attrattiva
che hanno gruppi religiosi rigidamente regolati: il baratto. Dammi la tua
libertà e ti do la sicurezza. Dal momento che entri a far parte di questo
recinto non devi più pensare a niente: ti sarà detto tutto quello che devi
fare, cosa devi pensare e come devi agire, quello che è bene e quello che è
male. Tu devi solo obbedire. Ci sarà sempre una persona che ti dirà come ti
devi comportare.
Gesù è venuto a
liberarci da tutto questo; è venuto a offrire la piena libertà perché una
persona non cresce fintanto che non è libera.
La religione ha
bisogno di mantenere le persone in una condizione infantile: infatti solo il
bambino, la persona infantile, ha bisogno di una guida. La religione teme la maturità
delle persone, per cui le mantiene sempre in una situazione di sottomissione in
modo che si abbia sempre bisogno di una figura a cui chiedere permesso e
chiedere cosa fare e come fare.
Gesù invece dice che
tutte quelle istituzioni che tengono le persone rinchiuse, eliminando la loro
libertà e barattandola per la sicurezza, sono oggetto della sua missione. Gesù
sa che ha una forza capace di sconfiggere e di buttare all’aria tutti i recinti
e tutte le sicurezze. E questa forza è la sua voce.
Credo che tanti di
noi, nel tempo, abbiano sperimentato la voce di Gesù: la voce di Gesù è la
formulazione perfetta del desiderio di pienezza di vita che ognuno di noi si
porta dentro. Le cose che Gesù ha detto non sono nuove. Ognuno di noi le aveva
dentro, ma le aveva tenute represse, come soffocate perché aveva perfino paura;
queste cose corrispondenti al desiderio di pienezza di vita, erano considerate
dalla religione, quando andava bene, un’eresia o addirittura un peccato e si
aveva timore di dirlo.
Gesù, paradossalmente,
non dice nulla di nuovo che già avevamo dentro di noi, Gesù l’ha solo
formulato. Noi già lo sentivamo perché l’uomo, creato a immagine e somiglianza
di Dio, ha dentro di sé la condizione divina e appena sente la voce del pastore
dice: … questo è ciò che m’aspettavo.
Un’esperienza che
tante volte ho vissuto: persone che, ascoltando queste spiegazioni dicono: …queste
cose io le sapevo da sempre, le avevo dentro di me. Finalmente adesso le sento
formulare. Ecco perché Gesù dice: “Ascolteranno
la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.”
Purtroppo un errore
di traduzione di questa espressione commesso nel passato ha provocato tragedie;
probabilmente è stato S. Girolamo, grandissimo traduttore e grandissimo santo, ma
che, traducendo, ha confuso il termine precedente ovile col termine
successivo che invece va tradotto gregge. La traduzione è quindi
divenuta: …e diventeranno un solo ovile” esattamente il contrario di quello che Gesù voleva dire.
Gesù ha detto che è
finita l’epoca degli ovili, è finita l’epoca dei recinti, per quanto sacri
possano essere. Gesù non limita la libertà delle persone, ma la potenzia dando
loro la piena libertà dei figli di Dio. Gesù non fa uscire le pecore dal
recinto del giudaismo per ricondurle in un altro, ma le fa uscire per
restituire loro la libertà.
A rafforzamento di
questa spiegazione aggiungo un altro particolare: quella che noi chiamiamo la Bibbia
di Gerusalemme è in realtà la Bibbia della CEI con le note della Bibbia di
Gerusalemme, ma non le riporta tutte. Qualche nota agli zelanti italiani
curatori di questa Bibbia non è piaciuta. In riferimento al versetto che stiamo
commentando, la nota originale della Bibbia di Gerusalemme dice: Gesù non
toglie le pecore da un recinto per portarle in un altro ma per dare loro piena
libertà. Nella Bibbia della CEI questa nota non c’è.
Infatti l’errata
traduzione (un solo ovile…) offrì alla Chiesa la pretesa di essere
l’unico ovile. Questo causò le guerre di religione e una devastante teologia
ancora in vigore fino agli anni sessanta del secolo scorao (extra ecclesiam
nulla salus:… fuori dalla Chiesa
non c’è salvezza).
Nei manuali della
teologia fino agli anni sessanta, questa espressione veniva giustificata in
quanto Gesù parla di un solo ovile e un solo pastore. Essendoci dunque
un solo ovile si è incominciata la lotta con gli altri ovili, è iniziata la
collocazione forzata delle persone dentro questo ovile. Questo ha prodotto la
tragedia del nostro cristianesimo: per secoli abbiamo avuto cristiani precettati,
cristiani diventati tali non per libera scelta, ma perché non avevano altra
soluzione.
Nel 1442, sotto il
papa Eugenio IV, il Concilio di Firenze dichiara: «[La Santa Chiesa Romana]
... crede fermamente, professa e predica che nessuno al di fuori della Chiesa
Cattolica, non solo i pagani, nessun giudeo, nessun eretico o scismatico,
possono partecipare alla vita eterna; essi saranno "nel fuoco eterno
preparato per il diavolo ed i suoi angeli " (Mt 45,23), a meno che, prima
del termine della loro vita, essi non trovino rifugio nella Chiesa. Poichè
l'unione col corpo della Chiesa è così fondamentale che i sacramenti della
Chiesa non sono efficaci che per coloro che dimorano nel suo seno; e digiuno,
elemosina ed altre opere di pietà ed esercizi di vita cristiana militante
accordano l'eterna ricompensa solo ad essi. E nessuno può essere salvato, anche
se dà il suo sangue in nome di Cristo, a meno che non sia in seno alla Chiesa
cattolica ed unito ad essa.»(6)
I tempi della Chiesa
sono un po’ lenti ma prima o poi ci arriva: ci son voluti cinque secoli. Il
Concilio Vaticano II, cinque secoli dopo, ha ripreso questo pensiero del
Concilio di Firenze cambiandolo al positivo: «Dio, come salvatore vuole che
tutti gli uomini siano salvi. Infatti, quelli che senza colpa ignorano il
Vangelo di Cristo e la sua chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio, e con
l’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio,
conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la
salvezza eterna»(7).
Un altro esempio di
traduzione errata che ha provocato danni è l’invito di Gesù: se non vi
convertite… convertirsi significa orientare diversamente la propria
esistenza: smettere di vivere centrati
su se stessi e iniziate a vivere per gli altri. L’invito venne tradotto
con se non fate penitenza, dando
così la stura al masochismo delle persone: più si soffre più il
Signore è contento. Una vera bestemmia!
Mai Gesù invita alla penitenza,
alla mortificazione o alla sofferenza. Gesù vuole che gli uomini siano felici.
Ma quale padre può essere felice vedendo che il figlio si infligge dei
patimenti e delle sofferenze per essergli gradito?
“Per questo il Padre mi ama: perché io do la
mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me
stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il
comando che ho ricevuto dal Padre mio»”.
Dopo la parentesi del versetto 16, l’evangelista riprende il filo del
discorso, questa volta però sul versante dei rapporti di Gesù con il Padre.
Gesù afferma che il Padre lo ama, poiché depone la sua vita per prenderla di
nuovo. e subito aggiunge che nessuno gliela toglie, perché ha il potere di
offrirla e di riprenderla. Con queste parole sottolinea la libertà e la
volontarietà con cui ha accettato la morte: non è il Padre che, come nei
sinottici, “consegna” il Figlio, ma è Gesù stesso che “depone” la sua vita con
decisione libera e autonoma. Anche nel racconto della passione l’evangelista
sottolinea la libera iniziativa di Gesù per dare compimento al progetto del
Padre. Ma come ha il “potere” di donare la propria vita, così ha pure il potere
di riprenderla. La morte di Gesù è strettamente congiunta alla sua
risurrezione, tanto da formare un unico atto salvifico. Il deporre per poi
riprendere la propria vita rappresenta per Gesù l’obbedienza a un comando che
ha ricevuto dal Padre. Dal contesto appare però che si tratta di un comando in
senso puramente metaforico, in quanto la volontà del Padre coincide esattamente
con la decisione presa da Gesù. La sua perfetta libertà si esplica
nell’obbedienza più totale all’ordine ricevuto dal Padre.
Note: 1. L’esegesi che segue è
liberamente tratta da un appunto di Padre Alberto Maggi redatto nel febbraio
2010. – 2. Nel angelo di Giovanni con il termine Giudei
si intendono le autorità giudaiche, sia religiose che civili. – 3. Interpretazione ricavata esaminando l’intera opera di
Ezechiele riportata nell’AT. – 4. Come si vede, nulla di nuovo sotto il sole.
Nella storia umana i mali dei popoli sono sempre derivati da questi motivi. –
5. Gli esperti di ebraico oggi ritengono che sia più corretto tradurre “io sarò” sottolineando così l’esistenza
dinamica di Dio. La cosa è possibile in quanto nella lingua ebraica la voce
verbale dell’indicativo presente e quella del futuro coincidono. – 6. Bulla
unionis Coptorum Aethiopiumque – Cantate Domino – Decretum pro Iacobitis. Denz.
714. – 7. Lumen Gentium 16.