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Le esegesi riportate in questo blog non sono frutto delle mie capacità, in realtà molto modeste. Le ricavo leggendo diversi testi dei più importanti specialisti a livello mondiale, generalmente cattolici, ma non disdegno di verificare anche l’operato di esegeti protestanti, in particolare anglicani. Se si escludono alcuni miei approfondimenti specifici, per la parte tecnica dell’analisi critica il mio testo di riferimento è questo:

- Giovanni Leonardi
, Per saper fare esegesi nella Chiesa, 2007 Ed. Elledici (testo promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale). Questo testo è molto semplice, veramente alla portata di tutti; per migliorare la capacità di analisi deve essere affiancato da altri due testi per la parte linguistica, anch’essi a livello divulgativo:

- Filippo Serafini,
Corso di greco del nuovo testamento, 2003 Ed. San Paolo.
- Luciana Pepi, Filippo Serafini,
Corso di ebraico biblico, 2006 Ed. San Paolo (da usare solo nel caso si voglia approfondire l’etimologia semitica sottesa ai vocaboli greci).

I testi della Bibbia in lingua originale sono pubblicati da varie case editrici; in particolare per i Vangeli segnalo l'ottimo testo della Edizioni Enaudi e quello sinottico della Edizioni Messagero in quanto hanno i testi greco ed italiano a fronte. Si trovano anche in vari siti in rete, ma non sempre sono testi aggiornati con le ultime scoperte a livello archeologico o paleografico.
Per la parte sostanziale normalmente faccio riferimento a documenti prodotti dalle fonti seguenti, che riporto in ordine decrescente di frequenza di utilizzo:

- École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), retto dai Domenicani e dove ha lavorato anche il Card. Martini.
- Centro Studi Biblici “G. Vannucci” – Montefano (An), retto dall’Ordine dei Servi di Maria.
- Sito www.Nicodemo.net gestito da P. Alessandro Sacchi.
- Università degli studi di Torino – Corso di Letteratura cristiana antica – Prof.essa Clementina Mazzucco.
- Fr. Dante Androli, OSM, docente di esegesi alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum – Roma
- Università degli studi La Sapienza di Roma – Corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Prof.essa Emanuela Prinzivalli.
- Biblia, Associazione laica di cultura biblica – Settimello (Fi)


lunedì 20 aprile 2015

Quarta Domenica di Pasqua



Quarta Domenica di Pasqua – Gv 10,11-18
Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Nel brano di questa domenica è citata una delle immagini con le quali Gesù descrive se stesso ed è una delle immagini più mistificate della storia della spiritualità cristiana: e’ quella del Buon Pastore. Il successo(1) di questa immagine deriva più dall’impoverimento e dallo svuotamento dell’espressione evangelica adoperata da Gesù, che dalla sua comprensione.
Questa raffigurazione mandò su tutte le furie gli ascoltatori dell’epoca. Gesù non aveva fatto in tempo a definirsi il Buon Pastore che la reazione degli ascoltatori, tra cui c’erano farisei e autorità religiose, esplode violenta: definiscono Gesù un indemoniato fuori di sé, da eliminare. Scrive infatti Giovanni: “…di nuovo i giudei(2) raccolsero le pietre per lapidarlo” (Gv 10,31).
Possibile che i giudei erano tanto ottusi da fraintendere espressioni così belle, così rassicuranti? Come mai quando Gesù si proclama Buon Pastore, questa immagine, per noi tanto cara, fa dire loro che è un matto, uno fuori di testa e cercano di ammazzarlo?
Prima di entrare nell’esegesi del brano è quindi indispensabile comprendere il significato di questa immagine nella cultura del tempo di Gesù.
Chiedo scusa ai lettori se questa esegesi sarà particolarmente lunga, ma essa è di capitale importanza per la nostra fede.
Gesù, utilizzando l’immagine del pastore, si riferisce a due brani dell’AT molto belli e molto conosciuti: la denuncia del profeta Ezechiele contro i pastori di Israele (Ez 34) ed il Salmo 23: il Signore è il mio pastore.
Esaminiamoli attentamente; cominciamo con Ezechiele (Ez 34,1-31): siamo nel 593 a.C., un gruppo di ebrei sono deportati a Babilonia dopo l’assedio di Gerusalemme e sperano di poter tornare a Gerusalemme, perché sanno che Dio è con loro. Invano il profeta Geremia invita a rassegnarsi alla deportazione e all’esilio; loro, ingannati dai falsi profeti, non gli credono. Uno degli esiliati, un sacerdote di nome Ezechiele, viene incaricato dal Signore di annunciare che non solo si devono rassegnare all’esilio ma che il peggio deve ancora arrivare. Infatti una decina di anni dopo (nel 588 a.C.) Nabucodonosor marcia contro Gerusalemme, l’assedia per la seconda volta, la distrugge e il resto degli abitanti è deportato a Babilonia. E’ una catastrofe, gli ebrei hanno perso praticamente tutto: il regno promesso da Dio a Davide e che avrebbe dovuto durare per tutta l’eternità; la terra promessa, perché sono esiliati in terra pagana; la certezza o l’illusione di essere il popolo eletto, il popolo scelto dal Signore; per questo è in crisi anche la loro fede verso Dio.
Di fronte a questo disastro il profeta Ezechiele, anche lui esiliato, scrive ai confratelli esiliati una delle pagine più belle dell’AT dove denuncia il perché di questa tragedia e la natura di questi mali. La denuncia dice che i responsabili di questa catastrofe sono i pastori di Israele. Con il termine pastore Ezechiele intende(3):
- i principi, perché divorano la gente,
- i sacerdoti che trasgrediscono le leggi,
- i profeti che offrono false illusioni a pagamento per accontentare la gente,
- i possidenti che sfruttano il povero(4).
Annunzia Ezechiele “…questi pastori saranno spodestati e verrà il Signore e sarà lui il pastore del popolo”. E prosegue …susciterò per loro un solo pastore. Egli le condurrà al pascolo e sarà il loro pastore” (Ez 34,23). Ezechiele afferma che è finita l’epoca dei pastori che pensavano solo al proprio tornaconto, e più avanti dirà che sarà addirittura il Signore il nuovo pastore.
Da questa esperienza e da questa teologia di Ezechiele nasce uno dei salmi più belli, quello che comincia con l’espressione Il Signore è il mio Pastore (Sal 23). E’ una affermazione molto chiara e secca, anche molto drammatica: “Il Signore è il mio pastore…”, cioè non riconosco nessun altro pastore. Se fino ad ora i principi, i sacerdoti, i possidenti, cioè quelli che si facevano chiamare pastori facendo i propri interessi, si sono occupati del popolo; ora “il Signore è il mio Pastore, non manco di nulla…”; quando mi affido al Signore, quando mi lascio governare da lui, non manco di nulla.
Ezechiele afferma che i pastori si sono comportati addirittura come belve. “Dice il Signore: li strapperò dalle loro fauci…” (Ez 34,10), un termine che si adoperava per le bestie selvatiche. Il Signore, rivendicando il ruolo del pastore attraverso il profeta Ezechiele, afferma: “…andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita…” (Ez 34,16).
Sono tutte immagini riprese dagli evangelisti ed applicate a Gesù; tuttavia bisogna porre molta attenzione per comprenderle bene. La parabola della pecora è presentata nel vangelo di Matteo e in quello di Luca in due forme diverse.
In Luca, che è attento all’atteggiamento del Signore verso i peccatori, si parla della pecora perduta, immagine dell’uomo peccatore che il Signore va a cercare. Non la castiga, non la minaccia ma la prende in braccio con sé. Quando il Signore si incontra con l’uomo peccatore non è mai per un giudizio ma per una comunicazione ancora più grande di vita (Lc 15,3-6).
In Matteo si parla della pecora smarrita (Mt 18,12-13); il termine greco che noi traduciamo con smarrita, ha il significato di ingannata, sviata. Gesù ne parla all’interno del discorso più tremendo fatto nel vangelo di Matteo (cap. 18), dove l’ambizione del gruppo dei discepoli è causa di scandalo per la gente che comincia a far parte di questo gruppo: hanno sentito parlare della comunità di Gesù dove sono tutti fratelli e dove si vogliono tutti bene, entrano e cosa vedono?... liti e discussioni a non finire per l’ambizione, per sapere chi è il più importante. Allora Gesù, proprio a questi discepoli che scandalizzano le persone offre la breve parabola della pecora ingannata.
La pecora ingannata è l’immagine della persona entrata a far parte della comunità cristiana dove trova più o meno le stesse dinamiche di fuori: rivalità, inimicizie, ambizioni, incapacità di perdono. E allora questa persona se ne va. Gesù va in cerca della pecora ingannata ma, trovatala, non la riporta più nel gregge, perché il gregge è diventato luogo di pericolo, la tiene con sé in un rapporto particolare.
Il salmo afferma che quando ci si è affidati ad altri è stato un disastro; quando ci si fida del Signore c’è abbondanza: ad acque tranquille mi conduce, mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome… cioè per la sua reputazione. Il Signore si è fatto la reputazione di un Dio liberatore. Quando ci si affida a un Dio liberatore, si è tranquilli e questo Dio procurerà sempre il meglio, l’ottimo, anche se dovessi camminare in una valle oscura…
Questa espressione è stupenda: la valle oscura era l’immagine con la quale si indicava l’oltre tomba, il regno dei morti, là dove si credeva che Dio non c’era. Ebbene, la fiducia del salmista nel Signore che è suo pastore, è talmente grande che afferma: …anche se dovessi finire nell’oltretomba, tu mi ami tanto che anche là tu sei con me.
Noi non ci rendiamo conto della potenzialità di questa immagine, forse dovremmo tradurla in una maniera comprensibile in questi termini: …io sono sicuro, Signore, che tu mi ami tanto e mi vuoi tanto bene che, anche se dovessi andare all’inferno, tu verresti all’inferno con me; tu non mi abbandoni.
Quindi è l’immagine della totale fiducia nel Signore come pastore.
Questo ambiente culturale di Ezechiele e del Salmo è ripreso da Giovanni nel brano in esame dove Gesù si proclama il pastore.
Il contesto nel quale Gesù si proclama pastore è quello dello scontro con le autorità giudaiche dopo che Gesù ha aperto gli occhi al cieco nato (Gv 9,1-41). I capi religiosi non possono tollerare che si sia potuta compiere una azione positiva, trasgredendo il comandamento più importante, quello che Dio stesso osservava, cioè il comandamento del riposo del sabato.
Non possono ammettere nessuna crepa nella loro teologia. E allora spingono colui che era stato cieco a dover ammettere che per lui sarebbe stato meglio rimanere cieco piuttosto che aver riconquistato la vista ad opera di un peccatore.
L’ex cieco, con una profonda ironia, e con una grande ricchezza teologica dice: “Se egli sia un peccatore, non so; una cosa so, che ero cieco e ora ci vedo…” (Gv 9,25). E’ come se dicesse: sentite… io di teologia non me ne intendo, non capisco e la lascio a voi. So che prima ero cieco e adesso ci vedo. Per me va bene così. L’evangelista sta dicendo che (ed è qualcosa di tremendo perché fa tremare le fondamenta dell’istituzione religiosa, di qualsiasi istituzione religiosa) l’esperienza dell’uomo è più importante di qualunque verità teologica, di qualunque dogma.
Non potendo ammettere contraddizione nella loro teologia, i farisei lo cacciano fuori. Ma l’esser stato cacciato fuori dalla sinagoga non è stato un danno perché ha incontrato Gesù che lo ha accolto nella sua comunità. Ed è in questo contesto che Gesù si definisce pastore.
“Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.”
Incomincia dicendo Io sono.
Io sono, nell’AT era il nome di Dio. Quando Mosè nel roveto ardente ha chiesto alla divinità il nome, il Signore non ha risposto col nome, con l’identità, ma con una attività che lo rende conoscibile: io sono(5), espressione che in tutta la tradizione ebraica veniva sempre interpretata come: io sono sempre vicino al mio popolo.
Gesù rivendica per sé la condizione divina. L’azione che lui ha fatto non è l’azione di un peccatore, ma è l’azione di Dio, perché Dio non tollera che le persone soffrano. Mentre per le autorità religiose la sofferenza non interessa perché la religione rende disumani. Tra il bene dell’uomo e il rispetto della legge divina, loro non hanno dubbi nell’affermare che è più importante la legge divina, anche se fa soffrire la persona: basta offrire le proprie sofferenze al Signore. L’importante è il rispetto della legge di Dio.
Questa legge di Dio è lo scudo, il paravento dietro il quale l’istituzione religiosa copre il proprio interesse. Gesù denuncerà che i capi sono i primi a non credere alla legge quando va contro i loro interessi. Ma se ne fanno scudo per mantenere e, se possibile, rafforzare il proprio dominio e il proprio prestigio.
Dai vangeli emerge semplicemente che la legge di Dio non esiste, perché Dio non fa leggi: Dio è amore e se c’è una cosa che non può essere codificata è l’amore. Per cui parlare di legge di Dio è un non senso.
Nel testo originale greco l’evangelista non scrive io sono il buon pastore, ma scrive io sono il pastore, quello bello. Infatti il termine greco che corrisponde all’italiano buono è agatos, mentre nel testo si usa il termine kalòs, che in italiano significa bello. Usando questa parola l’evangelista non sta indicando la bellezza fisica di Gesù, ma l’insieme delle sue qualità che lo rendono bello, cioè dichiara Gesù il pastore ideale, l’eccellente, il migliore. Questo fa coincidere Gesù con il pastore indicato da Ezechiele che si occuperà del popolo di Israele; ecco perché alla fine di questo discorso i Giudei dicono che Gesù è pazzo e cercano di ammazzarlo, in quanto l’avvento del pastore di Dio comporterà la fine del potere dei sacerdoti, dei principi e dei possidenti.
“Il buon pastore dà la propria vita per le pecore”. Nei vangeli non esiste il ruolo di pastore applicato ad altri personaggi. Gesù è indicato come il modello di pastore, questo significa essere disposto a dare la vita e per sottolineare questo conetto, per quattro volte verrà ripetuta l’espressione offrire la vita.
Quello che Gesù dice lo metterà anche in pratica. Pensiamo al momento dell’arresto: era in una posizione vantaggiosa e quella sera avrebbe potuto salvarsi la vita. Era nel Getsemani, alle pendici del monte degli ulivi con tanti galilei che dormivano nelle grotte all’intorno. Quando vide arrivare da lontano, dalla casa del Sommo Sacerdote, la truppa di circa 800 soldati per catturarlo provvisti di armi e di torce, avrebbe potuto dire ai suoi discepoli e ai conterranei di coprirgli le spalle, e così avrebbe potuto fuggire sul monte degli ulivi. A breve distanza, dopo il monte degli ulivi, inizia immediatamente il deserto ed è una miriade di caverne e di cunicoli dove una persona diviene introvabile.
Gesù avrebbe potuto salvarsi la vita anche perché i discepoli gli avevano garantito che erano pronti a dare la vita per lui (Gv 13,37-38). Erano pronti ma non avevano capito che non c’è da dare la vita per lui, ma con lui e come lui dedicarla agli altri.
Gesù, la notte dell’arresto, resta in attesa e quando arrivano per arrestarlo dice: se cercate me, lasciate che questi se ne vadano (Gv 18,8). E’ il pastore che da la vita per le pecore.
“Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore”.
Il lupo rappresenta una minaccia per entrambi, sia per il mercenario che per il pastore, ma il pastore, quello ideale, “bello” secondo l’espressione dell’evangelista - al quale l’incolumità delle pecore sta a cuore più della sua esistenza e il cui compito è che nessuno vada perso - è capace di dare la vita per le proprie pecore. Il mercenario no; lui abbandona le pecore perché esercita il compito di pastore per il proprio tornaconto e interesse.
Il mercenario non è un cattivo pastore in quanto non è considerato nemmeno un pastore: Gesù non gli riconosce un ruolo che, se pure degenerato, avrebbe implicato un incarico, quello di pastore da parte di Dio, ma lo accomuna ai ladri e ai briganti, nomi che in precedenza Gesù aveva attribuito ai dirigenti del popolo (Gv 10,8); ladri perché si sono impossessati del gregge che era di Dio ed assassini perché per rubare il gregge ammazzeranno il pastore legittimo, Gesù il figlio di Dio.
“Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me,…“ Gesù si definisce buon pastore per la terza volta. Il tre è il numero che indica completezza. Gli uomini nella religione erano abituati ad una relazione di sottomissione nei confronti di un Dio da servire e da temere, al quale si doveva offrire. Gesù inaugura una nuova relazione con Dio attraverso la sua persona che è quella di una esperienza intima e profonda. L’espressione “conosco le mie pecore”, nella cultura ebraica indica addirittura un rapporto coniugale, il che significa che Gesù ha con i suoi un rapporto di grandissima intimità. Per sottolineare la profonda relazione tra il pastore e le sue pecore Gesù aveva in precedenza detto che il pastore le chiama una per una (Gv 10,3). Questa indicazione è importante per la nostra fede in quanto sottolinea il rapporto personale di Dio con ciascuno di noi come singola persona e non come componenti di un popolo. Infatti nel mondo palestinese è normale vedere pastori, beduini che conducono al pascolo centinaia di pecore; per noi sono un gregge, per loro no: ogni pecora ha il suo nome perché ha una sua caratteristica (Bianchina, Brunetta, Riccioluta…). Il pastore non ha un rapporto con un gregge, ma avendole viste nascere ha un rapporto con ognuna delle sue pecore. Quindi una conoscenza profonda, intima.
“…così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore”. L’evangelista approfondisce questa immagine e la relazione che Gesù ha con il suo gregge nasce dall’intimità che lui ha con il Padre. La distanza che c’era tra Dio e gli uomini, una distanza voluta e mantenuta dall’istituzione religiosa, ora è stata annullata.
Secondo la religione l’uomo non può rivolgersi direttamente a Dio; ha bisogno di un mediatore (il sacerdote), ha bisogno di un luogo particolare (il tempio), ha bisogno di una metodologia di incontro ben precisa (il culto), ha bisogno di uno schema di vita che sia chiaro, ordinato (la legge); sono tutte le mediazioni che l’istituzione religiosa ha creato per mantenere la distanza tra gli uomini e Dio. Con Gesù tutto questo è annullato.
Gesù vuole che la stessa intimità esistente tra lui e il Padre esista anche tra lui e il suo gregge. Quindi il ricorso alle mediazioni delle istituzioni religiose che si credeva favorissero la comunione con Dio, non solo non la favorisce ma la impedisce.
“E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore”.
Non è solo il recinto del giudaismo ad aver terminato la propria funzione, ma ogni altra istituzione che impedisca la piena libertà agli uomini. Gesù è entrato nell’ovile del giudaismo per svuotarlo e per condurre fuori le sue pecore. E’ l’immagine dell’esodo e della liberazione.
Ma per Gesù non basta questo ovile. Il mondo è pieno di ovili e anche lì deve far risuonare la sua voce perché quelle che lo ascoltano possano seguirlo.
Il termine ovile adoperato dall’evangelista, nell’AT indica l’atrio del santuario del tempio, luogo dell’istituzione religiosa. L’ovile dona sicurezza in cambio della libertà. Ecco il fascino della religione e dell’istituzione religiosa. Ecco l’attrattiva che hanno gruppi religiosi rigidamente regolati: il baratto. Dammi la tua libertà e ti do la sicurezza. Dal momento che entri a far parte di questo recinto non devi più pensare a niente: ti sarà detto tutto quello che devi fare, cosa devi pensare e come devi agire, quello che è bene e quello che è male. Tu devi solo obbedire. Ci sarà sempre una persona che ti dirà come ti devi comportare.
Gesù è venuto a liberarci da tutto questo; è venuto a offrire la piena libertà perché una persona non cresce fintanto che non è libera.
La religione ha bisogno di mantenere le persone in una condizione infantile: infatti solo il bambino, la persona infantile, ha bisogno di una guida. La religione teme la maturità delle persone, per cui le mantiene sempre in una situazione di sottomissione in modo che si abbia sempre bisogno di una figura a cui chiedere permesso e chiedere cosa fare e come fare.
Gesù invece dice che tutte quelle istituzioni che tengono le persone rinchiuse, eliminando la loro libertà e barattandola per la sicurezza, sono oggetto della sua missione. Gesù sa che ha una forza capace di sconfiggere e di buttare all’aria tutti i recinti e tutte le sicurezze. E questa forza è la sua voce.
Credo che tanti di noi, nel tempo, abbiano sperimentato la voce di Gesù: la voce di Gesù è la formulazione perfetta del desiderio di pienezza di vita che ognuno di noi si porta dentro. Le cose che Gesù ha detto non sono nuove. Ognuno di noi le aveva dentro, ma le aveva tenute represse, come soffocate perché aveva perfino paura; queste cose corrispondenti al desiderio di pienezza di vita, erano considerate dalla religione, quando andava bene, un’eresia o addirittura un peccato e si aveva timore di dirlo.
Gesù, paradossalmente, non dice nulla di nuovo che già avevamo dentro di noi, Gesù l’ha solo formulato. Noi già lo sentivamo perché l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, ha dentro di sé la condizione divina e appena sente la voce del pastore dice: … questo è ciò che m’aspettavo.
Un’esperienza che tante volte ho vissuto: persone che, ascoltando queste spiegazioni dicono: …queste cose io le sapevo da sempre, le avevo dentro di me. Finalmente adesso le sento formulare. Ecco perché Gesù dice: “Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.”
Purtroppo un errore di traduzione di questa espressione commesso nel passato ha provocato tragedie; probabilmente è stato S. Girolamo, grandissimo traduttore e grandissimo santo, ma che, traducendo, ha confuso il termine precedente ovile col termine successivo che invece va tradotto gregge. La traduzione è quindi divenuta: …e diventeranno un solo ovile” esattamente il contrario di quello che Gesù voleva dire.
Gesù ha detto che è finita l’epoca degli ovili, è finita l’epoca dei recinti, per quanto sacri possano essere. Gesù non limita la libertà delle persone, ma la potenzia dando loro la piena libertà dei figli di Dio. Gesù non fa uscire le pecore dal recinto del giudaismo per ricondurle in un altro, ma le fa uscire per restituire loro la libertà.
A rafforzamento di questa spiegazione aggiungo un altro particolare: quella che noi chiamiamo la Bibbia di Gerusalemme è in realtà la Bibbia della CEI con le note della Bibbia di Gerusalemme, ma non le riporta tutte. Qualche nota agli zelanti italiani curatori di questa Bibbia non è piaciuta. In riferimento al versetto che stiamo commentando, la nota originale della Bibbia di Gerusalemme dice: Gesù non toglie le pecore da un recinto per portarle in un altro ma per dare loro piena libertà. Nella Bibbia della CEI questa nota non c’è.
Infatti l’errata traduzione (un solo ovile…) offrì alla Chiesa la pretesa di essere l’unico ovile. Questo causò le guerre di religione e una devastante teologia ancora in vigore fino agli anni sessanta del secolo scorao (extra ecclesiam nulla salus:… fuori dalla Chiesa non c’è salvezza).
Nei manuali della teologia fino agli anni sessanta, questa espressione veniva giustificata in quanto Gesù parla di un solo ovile e un solo pastore. Essendoci dunque un solo ovile si è incominciata la lotta con gli altri ovili, è iniziata la collocazione forzata delle persone dentro questo ovile. Questo ha prodotto la tragedia del nostro cristianesimo: per secoli abbiamo avuto cristiani precettati, cristiani diventati tali non per libera scelta, ma perché non avevano altra soluzione.
Nel 1442, sotto il papa Eugenio IV, il Concilio di Firenze dichiara: «[La Santa Chiesa Romana] ... crede fermamente, professa e predica che nessuno al di fuori della Chiesa Cattolica, non solo i pagani, nessun giudeo, nessun eretico o scismatico, possono partecipare alla vita eterna; essi saranno "nel fuoco eterno preparato per il diavolo ed i suoi angeli " (Mt 45,23), a meno che, prima del termine della loro vita, essi non trovino rifugio nella Chiesa. Poichè l'unione col corpo della Chiesa è così fondamentale che i sacramenti della Chiesa non sono efficaci che per coloro che dimorano nel suo seno; e digiuno, elemosina ed altre opere di pietà ed esercizi di vita cristiana militante accordano l'eterna ricompensa solo ad essi. E nessuno può essere salvato, anche se dà il suo sangue in nome di Cristo, a meno che non sia in seno alla Chiesa cattolica ed unito ad essa.»(6)
I tempi della Chiesa sono un po’ lenti ma prima o poi ci arriva: ci son voluti cinque secoli. Il Concilio Vaticano II, cinque secoli dopo, ha ripreso questo pensiero del Concilio di Firenze cambiandolo al positivo: «Dio, come salvatore vuole che tutti gli uomini siano salvi. Infatti, quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio, e con l’aiuto della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna»(7).
Un altro esempio di traduzione errata che ha provocato danni è l’invito di Gesù: se non vi convertite… convertirsi significa orientare diversamente la propria esistenza: smettere di vivere centrati su se stessi e iniziate a vivere per gli altri. L’invito venne tradotto con se non fate penitenza, dando così la stura al masochismo delle persone: più si soffre più il Signore è contento. Una vera bestemmia!
Mai Gesù invita alla penitenza, alla mortificazione o alla sofferenza. Gesù vuole che gli uomini siano felici. Ma quale padre può essere felice vedendo che il figlio si infligge dei patimenti e delle sofferenze per essergli gradito?
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio»”.
Dopo la parentesi del versetto 16, l’evangelista riprende il filo del discorso, questa volta però sul versante dei rapporti di Gesù con il Padre. Gesù afferma che il Padre lo ama, poiché depone la sua vita per prenderla di nuovo. e subito aggiunge che nessuno gliela toglie, perché ha il potere di offrirla e di riprenderla. Con queste parole sottolinea la libertà e la volontarietà con cui ha accettato la morte: non è il Padre che, come nei sinottici, “consegna” il Figlio, ma è Gesù stesso che “depone” la sua vita con decisione libera e autonoma. Anche nel racconto della passione l’evangelista sottolinea la libera iniziativa di Gesù per dare compimento al progetto del Padre. Ma come ha il “potere” di donare la propria vita, così ha pure il potere di riprenderla. La morte di Gesù è strettamente congiunta alla sua risurrezione, tanto da formare un unico atto salvifico. Il deporre per poi riprendere la propria vita rappresenta per Gesù l’obbedienza a un comando che ha ricevuto dal Padre. Dal contesto appare però che si tratta di un comando in senso puramente metaforico, in quanto la volontà del Padre coincide esattamente con la decisione presa da Gesù. La sua perfetta libertà si esplica nell’obbedienza più totale all’ordine ricevuto dal Padre. 

Note: 1. L’esegesi che segue è liberamente tratta da un appunto di Padre Alberto Maggi redatto nel febbraio 2010. – 2. Nel angelo di Giovanni con il termine Giudei si intendono le autorità giudaiche, sia religiose che civili. – 3. Interpretazione ricavata esaminando l’intera opera di Ezechiele riportata nell’AT. – 4. Come si vede, nulla di nuovo sotto il sole. Nella storia umana i mali dei popoli sono sempre derivati da questi motivi. – 5. Gli esperti di ebraico oggi ritengono che sia più corretto tradurre “io sarò” sottolineando così l’esistenza dinamica di Dio. La cosa è possibile in quanto nella lingua ebraica la voce verbale dell’indicativo presente e quella del futuro coincidono. – 6. Bulla unionis Coptorum Aethiopiumque – Cantate Domino – Decretum pro Iacobitis. Denz. 714. – 7. Lumen Gentium 16.