Domenica
28 luglio 2013 – XVII Domenica del Tempo Ordinario
Lc 11,1-13
Gesù si trovava in un
luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse:
«Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi
discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:
Padre,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdona a noi i nostri peccati,
anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione».
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdona a noi i nostri peccati,
anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione».
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte
va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico
da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», e se quello dall'interno gli
risponde: «Non m'importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo
a letto, non posso alzarmi per darti i pani», vi dico che, anche se non si
alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a
dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e
troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca
trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede
un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli
darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai
vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a
quelli che glielo chiedono!».
L’esegesi
di questo brano è complessa e richiederà più pagine del normale. Mi scuso con i
lettori ma, trattandosi di un capisaldo del cristianesimo, è necessario
comprenderlo appieno.
La
preghiera(1) al Padre riportata da Luca è più corta e più scarna di
quella riportata da Matteo: in Matteo vi sono 8 domande, in Luca solo 5. Forse
il testo di Luca è più vicino all’originale in quanto per le comunità cristiane
del primo secolo era più facile aggiungere che togliere; si sentivano infatti
“autorizzati” a chiarire un testo aggiungendo parole piuttosto che a ridurlo.
L'insegnamento di Gesù sulla preghiera (sottolineato dalla
ripetizione per tre volte del verbo pregare) si apre con l'invocazione a
Dio quale Padre. Nella cultura ebraica non esiste il termine genitori
ma solo padre e madre ciascuno
con compiti differenti: il padre è colui che genera, la madre
si limita a partorire il figlio (Is
45,10). Il figlio riceve la vita esclusivamente dal padre e la prolunga
assomigliandogli nel comportamento mediante la pratica dei valori ricevuti. “Figlio
di...” non significa “nato da...” ma “assomigliante a…” nelle idee e nel comportamento.
La prima volta che Gesù ha parlato ai suoi di
Dio come un Padre è stato per invitare i discepoli ad assomigliargli
nell'amore: "Siate misericordiosi, come il Padre vostro è
misericordioso" (Lc 6,36). Per
Gesù il credente non è colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi, ma
colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo, solo così "sarete
figli dell'Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi”. (Lc 6,35).
L'immagine di Dio che Gesù presenta era
completamente nuova nel panorama religioso dell'epoca. Per la prima volta
veniva presentato un Dio che non premiava i buoni e castigava i malvagi ma a
tutti indistintamente dirigeva il suo amore. Per questo, poco prima
dell'insegnamento del Pater, Gesù propone come modello di credente
proprio l'individuo che agli occhi della religione era ritenuto il più lontano
da Dio: l'eretico samaritano.
L'unico al quale Gesù applica il verbo avere compassione, espressione che,
nella cultura ebraica, viene usata soltanto per indicare l'atteggiamento di Dio
nell'AT e di Gesù nei vangeli. L'eretico assomiglia a Dio perché mostra un
amore simile al suo (Lc 10,29-37),
gli addetti al culto, sacerdote e levita, in quanto osservanti e
obbedienti alla Legge, non possono avere compassione e sono lontani da Dio.
Con questo Gesù scalza le fondamenta stesse
della religione dove l'uomo veniva presentato quale un servo chiamato a servire
il suo Signore. Nella nuova relazione con Dio alla quale Gesù invita, dalla “servitù”
nei confronti di Dio si passa alla “figliolanza” verso il Padre.
Mentre la prima sottolineava la distanza tra Dio e l'uomo, la seconda
l'annulla. Non più l'uomo è chiamato a servire la divinità, ma è Dio stesso che
si fa servo degli uomini per innalzarli al suo stesso livello.
Per questo, al momento dell'ultima cena,
Gesù, l'uomo che manifesta una pienezza di vita pari alla condizione divina,
definisce se stesso con queste parole: "Io sto in mezzo a voi come
colui che serve" (Lc 22,27).
“Padre, sia
santificato il tuo nome,…” (= venga riconosciuto questo tuo nome, oppure, = fa
conoscere a tutti chi sei)
La prima richiesta del Pater riguarda
il nome di Dio. Il nome nella cultura ebraica non indica solo come è chiamato l'individuo,
ma chi realmente è, in quanto il
nome manifesta le qualità di
colui che viene nominato. In quella cultura la conoscenza del nome di Dio aveva
un'importanza essenziale per i rapporti dell'uomo con la divinità. Per questo
Mosè chiede a Dio di rivelargli il suo nome: "Mosè disse a Dio: Ecco io
arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a
voi. Ma mi diranno: qual è il suo nome?; E io che cosa risponderò loro?
Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono(2)! Poi disse: “Dirai agli
Israeliti: Io Sono mi ha mandato a voi" (Es 3,13-14; cfr Gen 32,30).
Nella sua risposta Dio non rivela la sua identità, ma un’attività che lo rende
riconoscibile. Mosè non riceve una risposta su “chi è” Dio, ma su “come”
Dio si presenta: Io Sono indica che Dio non è una divinità lontana,
insensibile alle esigenze e alle sofferenze dell'umanità, ma un Dio che è
sempre presente con il suo popolo mediante una continua attività
creatrice e liberatrice. Questa attività che rende riconoscibile la presenza di
Dio, con Gesù viene indicata nel nome Padre: Dio è colui che comunica la
vita indistruttibile a quanti lo accolgono.
Il verbo “santificare” (= consacrare) ha il significato di "separare"
qualcuno o qualcosa allo scopo di metterne in risalto un particolare valore,
per esempio del vasellame adibito esclusivamente per la liturgia, che viene consacrato (= riservato) a questo uso.
I primi cristiani non esitarono a denominarsi
"santi"(3) (Rm 1,7). Quando oggetto del verbo “santificare” è Dio, questo
assume il significato di "riconoscere"
ciò che è per eccellenza l'essenza di Dio: tre volte (cioè
pienamente) santo: “Santo,
santo, santo è il Signore degli eserciti” (Is 6,3; Ap 4,8).
Mentre l'attività del Dio "santo"
è mirata a consacrare il suo popolo,
l'azione dell'uomo è diretta a riconoscere
la santità di Dio: la particolare forma verbale utilizzata
dall’evangelista vuole significare che questa santificazione viene resa
visibile.
Essendo il nome quel che rende riconoscibile
e quindi designabile una persona, con la richiesta “sia santificato il tuo
nome” si domanda che Dio venga conosciuto non più con quello di Yahvé, ma quello, già conosciuto e sperimentato dai discepoli, di Padre.
“…venga
il tuo regno;…” (= si estenda la tua signoria)
L'esperienza della monarchia in Israele era
un ricordo tragico e fonte di tutte le disgrazie patite nel presente. Dio, che
non tollera che un uomo si possa mettere al di sopra di altri, non aveva voluto
l'istituto della monarchia per il suo popolo. Ogni qualvolta il popolo si
trovava in pericolo Dio investiva della sua forza (lo Spirito) un individuo che
veniva chiamato a liberare il popolo. Le gesta di questi condottieri o eroi rimasti celebri nella storia di Israele come Gedeone o il mitico Sansone sono narrate nel Libro
dei Giudici.
Quando il popolo di Israele chiese di venire
governato da un re come gli altri popoli, il profeta Samuele lo mise in guardia
da tutti i rischi che avrebbe comportato l'instaurazione di una monarchia (cfr 1Sam 8,10-22). Ma Israele insisté per
avere "un re che ci governi, come avviene per tutti i popoli" (1Sam 8,5) e fu l'inizio della sua
rovina.
La tragica esperienza della monarchia portò
il popolo a proiettare in Dio stesso l'ideale di un re difensore dei poveri e
degli oppressi e nel cui regno si sarebbe amministrata una giustizia perfetta: "Padre
degli orfani e difensore delle vedove" (Sal 68,6; cfr Sal 146,9);
Dio si sarebbe preso cura di tutti gli emarginati (cfr Mi 4,6-7), rappresentati dalle categorie della vedova, dell'orfano
e dello straniero, persone che più di altri erano vittime di soprusi.
Il “regno” richiesto esprime il
concetto dinamico di "regalità" in quanto esercizio del
governo da parte del re (= signoria), più che quello statico di "reame"
nel senso di estensione geografico-politica dei possedimenti.
La petizione del Pater non è una
richiesta per l'avvento del regno, ma è la preghiera di quelli che ne fanno
parte affinché questo regno, già presente (Lc
6,20), si estenda e continui a inserirsi nella storia. Per questo la forma
verbale greca adoperata dall’evangelista designa non solo l'inizio del regno ma pure ogni
sua successiva affermazione.
Di questo regno non ne è auspicata la
nascita, ma la crescita e la diffusione; saranno poi gli uomini a decidere se
appartenervi o no. I credenti vi appartengono già: "E' lui infatti che
ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo
Figlio diletto" (Col 1,13;
cfr Ap 1,6).
La regalità del Padre che la comunità ha
sperimentato, e che chiede si estenda anche ad altri, non viene esercitata
privando l’uomo dei suoi averi e sottraendogli energie, ma arricchendolo dei
beni ed energie divine che gli comunicano la stessa vita indistruttibile di
Dio. Il Padre non governa i suoi imponendo delle Leggi da osservare, ma
comunicando il suo stesso spirito che
li rende capaci di prolungare il suo stesso amore. Nel regno, ambito nel quale
l’amore reciproco è norma di comportamento, la paternità di Dio viene
sperimentata nei quotidiani gesti di perdono e nella generosa condivisione, che
rendono visibile la “santificazione”
del Padre.
La realtà del regno dipende dalla risposta di
quanti accoglieranno l'invito di Gesù (lasciato tutto lo seguirono - Lc 5,11) e entrano volontariamente nella
condizione di “poveri”(Mt 5,1-12). Su costoro il Padre può esercitare la
"regalità" e "paternità" che sono
così strettamente legate da poter divenire l'una sinonimo dell'altra: Dio
esercita la sua regalità manifestandosi Padre, e la sua paternità si manifesta
prendendosi cura, come il re ideale, di tutti i poveri e dei più deboli della
società. Per questo Gesù avverte i suoi discepoli che chi non accoglie il
regno di Dio come un bambino, non vi entrerà (Lc 18,17). Il bambino, nella cultura ebraica, era colui che
si trovava all'ultimo posto della scala sociale, ed era ritenuto senza alcun
valore. Solo chi accetta di mettersi con gli ultimi ha l'accesso al regno; agli
altri, i primi, è
negato: “Quanto è difficile, per coloro che possiedono ricchezze, entrare
nel regno di Dio. E' più facile per un cammello passare per la cruna di un ago(4)
che per un ricco entrare nel regno di Dio!” (Lc 18,24-25).
“…dacci
ogni giorno il nostro pane quotidiano,…” (= il nostro pane di vita dacci
ogni giorno)
La richiesta del pane, posta strategicamente
al centro del Pater, serve da perno tra la strofa riguardante
l'intervento di Dio sull'umanità e quella che si riferisce alle necessità della
comunità. Dal punto di vista letterario la richiesta del "pane" è
l'unica a iniziare con enfasi mediante il complemento (“il pane...”),
anziché con un verbo come tutte le altre petizioni ("sia santificato...
venga...); inoltre l'uso, certamente non indispensabile, in greco, del
doppio articolo determinativo pone deliberatamente l'accento sull'aggettivo che
qualifica questo pane (“il pane...
il epiousion”).
Non è pertanto un pane qualunque, ma il
pane (o quel pane) ben determinato, che è già in qualche maniera
conosciuto ai lettori di Luca destinatari del Pater, ma non lo è più a noi.
La traduzione latina del quarto secolo
denominata Vulgata tentò di superare la difficoltà presentata da questo
termine (epiousion) sconosciuto traducendo l’aggettivo in due diverse
maniere: "cotidianum" in
Lc 11,3 e "supersubstantialem" In Mt 6,11.
Per la preghiera liturgica venne scelto il testo di Matteo considerato più
completo ma con la sostituzione di "supersubstantialem" con “cotidianum”, termine più
facile a pronunziarsi e più comprensibile.
In realtà entrambe le traduzioni non comprendono
del tutto il significato dell’aggettivo greco sul quale possono oggi essere
effettuate solo ipotesi riconducibili principalmente a tre categorie che non
contrastano tra di loro ma si completano l'una con l'altra:
Il pane del domani. In questa
prima ipotesi epiousios, formato da epi+ienai, significherebbe futuro,
del tempo che viene, necessario alla vita del giorno, da cui il
"giorno seguente", l'indomani,
il giorno che viene(5). Nel vangelo apocrifo detto “degli Ebrei”, in luogo di pane “epiousion”
si trova “maar”, cioè “di domani”, da qui il significato: “il pane
del giorno dopo, cioè futuro, daccelo oggi”.
Secondo questa interpretazione, nella
petizione del Pater si tratterebbe di chiedere a Dio il pane del/per
domani come già nel deserto donò doppia razione di manna la vigilia
del sabato (cfr Es 16,5.29), ed epiousios
sarebbe la traduzione greca dell’ebraico domani. Ciò però, sarebbe
in contraddizione con quanto poi affermato da Gesù: non cercate perciò che
cosa mangerete e berrete... (Lc 12,29).
Il pane supersostanziale. I
Padri greci e latini hanno interpretato epiousios anche come composto da
epi (sopra) e ousia (natura/sostanza), da cui si avrebbe il pane "supersubstantialem",
cioè un alimento per lo spirito e non un cibo per il corpo, e Origéne
identifica questo pane con il Verbo e la sapienza di Dio e,
conseguentemente, con la carne di Cristo.
Il pane necessario. Nella terza
ipotesi l'aggettivo epiousios viene considerato formato da epi (in/su)
e einai (essere) e significherebbe quel che necessita
all'esistenza o sufficiente, quindi "necessario alla
vita" come espresso dalla tradizione sapienziale nel Libro dei
Proverbi: "Non darmi né povertà né ricchezza; ma fammi avere il pane
necessario" (Pr 30,8).
Considerando che delle diverse ipotesi dell'etimologia
di epiuousios nessuna si impone sulle altre in maniera decisiva, e che
il valore di una parola non coincide necessariamente col suo senso etimologico,
si ritiene che la soluzione del significato del termine debba ricercarsi
unicamente nel contesto del Pater.
La Scrittura afferma che è la generosità di
Dio che nutre il creato e "dà il cibo ad ogni vivente", ma
questo non esime gli uomini dal procurarsi il cibo quale frutto del loro
lavoro: "con il sudore del tuo volto mangerai il pane" (Gen 3,19; Sal 104,14-15). Il pane che nutre l’uomo non va richiesto a Dio e
non viene inviato dal cielo, ma è compito degli uomini produrlo e condividerlo
generosamente con chi non ne ha.
L’esortazione di Gesù ai suoi discepoli di
non preoccuparsi del cibo non è certo un invito a non occuparsene (cfr
Lc 12,22-32). Nelle prime petizioni
del Pater, l'esaudimento delle richieste, pur esigendo la collaborazione
dell'uomo, dipende unicamente da Dio. Sarà il Padre a santificare il suo
nome, e ad estendere la sua signoria. Similmente, nelle due
richieste seguenti la petizione del pane, solo il Padre può condonare
i debiti e preservare dalle prove.
Il fatto che questo pane venga domandato al
Padre significa che si tratta di un alimento che può essere donato soltanto da
Dio e non prodotto dall'uomo. Le varie interpretazioni di epiousios come
"pane di domani", "pane necessario", o "al
di là della sostanza", vedono nel particolare pane richiesto
nel Pater un richiamo al dono
della manna del deserto, come viene narrato nel Libro dell' Esodo (cfr Es 16).
Nella tradizione giudaica la manna, dono
col quale Dio ha accompagnato il suo popolo nell'esodo, è stata considerata il
pane per eccellenza: "Fece piovere su di essi la manna per cibo e diede
loro pane del cielo" (Sal 78,24;
cfr Dt 8,16; Gv 6,31.49-50).
Alla base della petizione del Pater di
Luca c'è la concezione tradizionale che la manna quale pane del cielo
sarebbe stata l'alimento dei tempi messianici, con una correzione da parte
dell'evangelista che riflette l'influsso della teologia del vangelo di
Giovanni. Non un pane cibo per il corpo destinato "a finire nella
fogna" (Mt 15,17), e neanche
l'effimera e inefficace manna discesa nel deserto per merito di Mosè, ma un
pane efficace e duraturo che alimenta lo spirito e che viene individuato in
Gesù-Messia, vera sapienza di Dio che può saziare la fame dei suoi.
La richiesta di ottenere “ogni giorno” questo
pane si rifà alle rappresentazioni presenti sia nell'AT che nel NT della realtà
definitiva del regno di Dio, visto da Luca come un banchetto: "Beato
chi mangerà il pane nel regno di Dio!" (Lc 14,15; cfr Mt 9,14-15) .
“…e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti
perdoniamo a ogni nostro debitore,…”
(= e perdona i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo a ogni nostro debitore; oppure = e condona i nostri peccati perche' anche noi li abbiamo cancellati ai nostri debitori).
(= e perdona i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo a ogni nostro debitore; oppure = e condona i nostri peccati perche' anche noi li abbiamo cancellati ai nostri debitori).
Entrambi i significati di debito e peccato
si rifanno a un'immagine di Dio che nel giudaismo veniva concepito come un
pignolo contabile che registrava accuratamente nel suo "Libro dei
debiti" ogni azione degli uomini.
La tradizione religiosa ebraica insegnava che
per ottenere il perdono dei peccati si esigeva un’azione di riparazione da
parte dell’uomo nei confronti di un Dio che rinunciava così a punire il
colpevole se costui ottemperava alle opere prescritte dalla religione quali
sacrifici, digiuni e preghiere (cfr Nm
15,22-30).
La comunità di Gesù ha sperimentato che il
perdono viene concesso dal Padre unicamente in base alla sua misericordia e non
è condizionato da alcun tipo di prestazione umana. La richiesta del Pater va
compresa alla luce dell'insegnamento contenuto nell'episodio della peccatrice: “Un
creditore aveva due debitori: l'uno gli doveva cinquecento denari, l'altro
cinquanta. Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due” (Lc 7,40). Il debitore ottiene il condono
dei suo debiti non per i suoi meriti ma per la generosità del creditore (cfr Ne 5,10).
Il condono concesso dall'uomo al suo simile
non è condizione di quello del Padre, ma la sua conseguenza. Gesù non invita a
perdonare i peccati o le colpe degli altri, ma a cancellare i
loro debiti. Mentre è possibile perdonare le colpe e restare in
possesso dei propri averi, il condono dei debiti esige la rinuncia a
questi. Anche in questa petizione si sottolinea, mediante l'uso del
pronome/aggettivo ("noi/nostri"), che la richiesta non
riguarda la generosa disponibilità del singolo credente, ma lo stile della
comunità. Questo comportamento è possibile solo per quanti hanno risposto
all’invito di Gesù di lasciare tutto per seguirlo e vivono la beatitudine della
scelta per la povertà volontaria (cfr Mt
5,3).
Luca scegliendo il termine “debiti” intende
richiamarsi a quanto prescritto in Dt
15,2 (secondo la traduzione greca dei LXX), dove appare il verbo “essere
debitore” in riferimento alla legge del settimo anno: “Ecco la
norma di questa remissione: ogni creditore condonerà il debito del prestito
fatto al suo prossimo, quando si sarà proclamata la remissione per Yahvé”. Nel
contesto culturale e teologico di questa istituzione si comprende meglio il
significato della richiesta del Pater. L'evangelista prende le distanze
dall'istituzione del Prosbul(6) per riportarsi così alla
purezza del disegno primitivo di Dio.
La sola volta in cui nel Pater una
petizione viene motivata da una clausola, essa riguarda l'unica indicazione
concreta sull'agire dei credenti: "perché anche noi li condoniamo ai
nostri debitori". La comunità non presenta al Padre occasionali buoni
propositi per il futuro, ma uno stile di vita del presente. Nel
NT il verbo "esser debitore" viene usato per indicare il
dovere del reciproco amore tra i componenti la comunità.
Nel vangelo di Giovanni con lo stesso verbo
si esprime un atteggiamento di servizio inteso non come accondiscendente favore,
ma come debito obbligatorio che ogni componente della comunità ha nei confronti
dell’altro per farlo sentire “signore”. L'amore di Gesù, manifestatosi
nel lavare i piedi ai suoi, precede e rende capaci i discepoli di uno
scambievole servizio, come nel Pater il condono del Padre precede e
rende possibile quello dei credenti.
Mentre il mutuo servizio arricchisce la
comunità garantendo la presenza del Signore "venuto per servire" l'egoismo
l'impoverisce, innescando un devastante processo di dissoluzione che rischia di
distruggerla. Per questo il condono del debito e con esso la concessione del
perdono, devono essere immediati. Ogni ritardo nella manifestazione di un amore
capace di tradursi in generosa condivisione, non fa che aumentare il debito verso
il Padre originato dall'assenza dell'amore e impoverire tutta la comunità: "Non
abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole" (Rm 13,8).
“…e non abbandonarci
alla tentazione…” (= non metterci alla prova) (cfr. Mt 6,13a).
Mentre nell'AT il verbo "provare"
non indica mai una sollecitazione al male (tentazione) né da parte di Dio e
né da parte di forze ostili all'uomo, nel NT il verbo è impiegato anche con il
significato di "tentare". Nel vangelo di Luca il verbo "provare"
compare solo due volte, nell'episodio del deserto dove Gesù per quaranta
giorni fu tentato dal diavolo (Lc 4,2)
e quando alcuni "per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal
cielo" (Lc 11,16): in
entrambi i casi verbo assume la connotazione negativa di tentazione.
Nel NT ogni dubbio riguardo l'azione di un “Dio
tentatore" viene cancellato dalla chiara formulazione contenuta nella
Lettera di Giacomo: "Nessuno, quando è tentato, dica: Sono tentato da
Dio; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al
male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria cupidigia che lo attrae e lo
seduce" (Gc 1,13-14).
L'azione di Dio, capace di "liberare i pii dalla prova" (2Pt 2,9), non è quella di indurre l'uomo
nella tentazione bensì di liberarlo dalla stessa, come testimoniato lungo tutta
la storia del suo popolo.
Nella petizione del Pater, essendo il
soggetto dell'azione il Padre e destinatari i credenti, il significato della
richiesta non può essere quello negativo di tentazione ma quello
positivo di prova.
Le prove alle quali Dio ha sottoposto sia il
singolo individuo che l'intero popolo, cominciando dal patriarca Abramo (cfr Gen 22,1-18; Eb 11,17) e lungo tutto
l'arco della storia della salvezza, non gli servono per conoscere quel che già
gli è noto, ma per favorire la crescita e la maturazione dei suoi figli (cfr 1Pt 1,6-7). L'azione pedagogica viene
illustrata nel vangelo di Giovanni nella "prova" alla quale
Gesù sottopone il discepolo Filippo: "Gesù vide che una grande folla
veniva da lui e disse a Filippo: Dove possiamo comprare il pane perché costoro
abbiano da mangiare? Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva
bene quello che stava per fare" (Gv
6,6) .
Se la richiesta della comunità fosse stata
quella di essere preservata dalle prove che la vita presenta,
l'evangelista avrebbe usato un termine plurale anziché singolare: "Voi
siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove" (Lc 22,28).
La formula della petizione del Pater indica
che si tratta di un’unica prova, particolarmente temuta in quanto si può
trasformare in un autentico disastro per la comunità stessa, come lo fu la
prova del popolo d'Israele nell'esodo quando "la prova della morte
colpì anche i giusti e nel deserto ci fu strage di molti" (Sap 18,20).
L'invito alla preghiera che unisce
tematicamente la domanda del Pater ("quando pregate") e
la prova nel Getsemani ("pregate per non entrare nella prova, Lc 22,40.46), indica che in entrambi i
casi l’obiettivo di Gesù è diretto a liberare i discepoli in maniera completa e
definitiva dalle situazioni di pericolo. La differenza tra la petizione del Pater
e la formulazione presente nella narrazione del Getsemani è che in
quest'ultimo caso il termine “prova” viene introdotto dal verbo "entrare"
(Lc 22,40.46) anziché "indurre/mettere".
Ciò consente di collegare in successione di eventi la richiesta del Pater e
il monito del Getsemani.
Mentre nel Pater la preghiera è
rivolta direttamente al Padre come colui che può preservare i suoi dalla
permanenza nella prova, nel Getsemani l'invito alla vigilanza e alla preghiera
non mira a liberare i discepoli da una situazione esterna di pericolo (la
cattura di Gesù è ormai inevitabile), ma tende ad evitare che gli stessi ne
siano irrimediabilmente vinti e soccombano ad essa.
La richiesta al Padre di non essere messi
alla prova contiene e sottintende quella di non soccombere alla stessa: la
domanda formulata nel Pater intende prevenire i rischi connessi
all'essere sopraffatti nella prova, così come era accaduto ai discepoli nel Getsemani.
Un'espressione usata in 1Cor 10,13 può chiarire questo permanere nella prova: "Nessuna
prova vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà
che siate provati oltre le vostre forze, ma con la prova vi darà anche la via
d'uscita e la forza per sopportarla".
Se la vittoria dalla prova è concepita come
l'uscita dalla stessa, la sconfitta consiste nel rimanere all'interno della
prova.
Coscienti della persecuzione alla quale si va
incontro come seguaci di Gesù, i credenti chiedono ora di non cedere nella
prova suprema che può mettere nuovamente in gioco la fede stessa dei discepoli
e l'esistenza della comunità stessa.
La prova, che è causa di fallimento
del messaggio annunciato da Gesù, viene presentata da Luca nella parabola del
seminatore, dove l'evangelista sostituisce “tribolazione o persecuzione” di
Matteo e Marco (Mt 13,21; Mc 4,17) con “prova”,
identificando nella stessa la persecuzione a motivo della fede (cfr Mt 5,10). Il venir meno al momento della
prova ha origine nel mancato radicamento della Parola: "Quelli sulla
pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono con gioia la parola, ma non
hanno radice; credono per un certo tempo, ma nell'ora della prova vengono
meno" (Lc 8,13).
Il fallimento del messaggio di Gesù, causato
dal mancato radicamento negli ascoltatori, richiama la rovina della casa
costruita sulla sabbia, la cui causa viene individuata nel non aver praticato
la Parola ascoltata: "Chi ascolta e non mette in pratica è simile a un
uomo che ha costruito una casa sulla terra, senza fondamenta. Il fiume la
investì e subito crollò; e il disastro di quella casa fu grande" (Lc 6,47-49)
Dopo la preghiera di Gesù(7), Luca riporta una parabola con la
quale vengono approfondite le modalità della preghiera.
“Poi disse loro: «Se uno di voi ha un
amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, perché è
giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», e se quello
dall'interno gli risponde: «Non m'importunare, la porta è già chiusa, io e i
miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani», vi dico che,
anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua
invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.”
Questo brano, che appartiene alla fonte esclusiva di Luca, illustra un
requisito essenziale della preghiera, la fiducia perseverante: per essere
esauditi, i credenti devono pregare Dio con insistenza, senza stancarsi mai.
I particolari della descrizione presuppongono l'ambiente palestinese, nel
quale l'ospitalità era tenuta in grande considerazione. Il fatto che un
ospite arrivasse a mezzanotte non era del tutto insolito; spesso ci si metteva
in viaggio dopo il tramonto, per evitare il fastidio del sole. Le regole
dell’ospitalità impedivano di accogliere qualcuno senza dargli da mangiare. Le case
normalmente si componevano di un unico vano, dove gli inquilini dormivano tutti
insieme. Il pane veniva preparato per conto proprio in ogni famiglia. È facile
immaginare il disagio provocato dalla richiesta importuna a mezzanotte.
Tuttavia il richiedente, consapevole che il dovere dell'ospitalità è sacro, ha
la certezza d'essere esaudito dall'amico. Nella conclusione, il comportamento
dell'uomo importunato a mezzanotte viene implicitamente identificato con quello
di Dio nei confronti di chi lo prega. Come il primo cede alle pressioni
dell'amico, anche se dopo una lunga insistenza, così anche Dio non può
sottrarsi alle richieste di coloro che lo pregano. Perciò dal tema della
preghiera fiduciosa proposto da Gesù si è passati, in sintonia con quanto
suggerisce il brano seguente, a quello dell’efficacia di una preghiera
insistente e perseverante.
“Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà
dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede
riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.”.
Questo brano è ricavato nuovamente dalla fonte Q, in quanto anche Matteo
lo riporta in una versione molto simile nel contesto del discorso della
montagna (Mt 7,7-11). Esso contiene
anzitutto tre imperativi incalzanti: «Chiedete
e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto». Il fatto
che sia l’esortazione che l’indicazione degli effetti siano ripetute tre volte
è un modo per sottolinearne l’importanza e l’efficacia. È significativo che non
sia espresso l'oggetto della domanda: la cosa importante non è ciò che si
chiede nella preghiera ma l'atteggiamento dell'orante, che presuppone la
consapevolezza della propria indigenza, che solo Dio può colmare.
Vengono poi presentati sotto forma di domanda retorica due esempi desunti
dalla vita familiare: “Quale padre tra voi,
se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se
gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?”. Rispetto a
Matteo, Luca sostituisce l'immagine di «pane-pietra» con quella di
«uovo-scorpione». Inoltre inverte l'ordine: prima ricorre la coppia
«pesce-serpente» e poi «uovo-scorpione». Uno scorpione racchiuso in una mano
può venire scambiato per un uovo. Il significato di questi due paragoni è
chiaro: un padre non può deludere il proprio figlio che gli si rivolge pieno di
fiducia.
“Se voi dunque, che siete cattivi,
sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo
darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!»”.
Questa sentenza è redatta secondo il procedimento rabbinico detto minore
ad maius oppure argomento a fortiori: ciò che si applica a una
realtà inferiore a maggior ragione si applicherà a quella superiore. In Luca
«lo Spirito Santo» sostituisce l'espressione «cose buone» adottata da Matteo (Mt 7,11). Sostituendo ad esse lo Spirito
Santo, Luca vuole forse sottolineare che nella preghiera non bisogna illudersi
di ottenere da Dio dei beni specifici, magari anche di carattere spirituale, ma
piuttosto lo Spirito stesso che, con la sua azione illuminate e fortificante,
fa sì che il credente si conformi ai desideri di Dio e alle esigenze del suo
Regno, superando con il suo aiuto a tutte le prove della vita.
Note: 1. Questa prima parte dell’esegesi è liberamente tratta da una
conferenza tenuta da P. Alberto Maggi OSM a Cefalù nel 1999. – 2. Oggi
molti traduttori preferiscono tradurre: Io
sono colui che sarò. La cosa è possibile in quanto in ebraico le forme
verbali del presente e del futuro sono identiche e questa traduzione manifesta
il divenire continuo di Dio. – 3. In
quel tempo questo appellativo non aveva l'accezione, presa in seguito, di virtù
straordinariamente esercitate da pochi. – 4. La cruna dell’ago era un’apertura nelle
mura di una città che consentiva solo ad una persona per volta di passare
permettendo alle guardie di contrastare facilmente l’ingresso ai nemici.
L’apertura permetteva il passaggio solo di lato per cui era difficile
l’ingresso alle persona obese (che in genere erano ricche) e certamente
impossibile ai cammelli a causa delle loro dimensioni. – 5. Questi due ultimi
termini richiedono però che l’aggettivo greco sia coniugato al femminile. – 6.
Il Prosbul era un certificato contenente una dichiarazione, fatta di
fronte al tribunale, in virtù della quale il debitore autorizzava il creditore
a riscuotere il suo credito in qualunque tempo, anche dopo i sette anni,
prescindendo dalla legge del condono. Questo permetteva di eludere la legge
del settimo anno. – 7. Questa
parte dell’esegesi è tratta da un articolo di P. Alessandro Sacchi, pubblicato
su Nicodemo.net.