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Le esegesi riportate in questo blog non sono frutto delle mie capacità, in realtà molto modeste. Le ricavo leggendo diversi testi dei più importanti specialisti a livello mondiale, generalmente cattolici, ma non disdegno di verificare anche l’operato di esegeti protestanti, in particolare anglicani. Se si escludono alcuni miei approfondimenti specifici, per la parte tecnica dell’analisi critica il mio testo di riferimento è questo:

- Giovanni Leonardi
, Per saper fare esegesi nella Chiesa, 2007 Ed. Elledici (testo promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale). Questo testo è molto semplice, veramente alla portata di tutti; per migliorare la capacità di analisi deve essere affiancato da altri due testi per la parte linguistica, anch’essi a livello divulgativo:

- Filippo Serafini,
Corso di greco del nuovo testamento, 2003 Ed. San Paolo.
- Luciana Pepi, Filippo Serafini,
Corso di ebraico biblico, 2006 Ed. San Paolo (da usare solo nel caso si voglia approfondire l’etimologia semitica sottesa ai vocaboli greci).

I testi della Bibbia in lingua originale sono pubblicati da varie case editrici; in particolare per i Vangeli segnalo l'ottimo testo della Edizioni Enaudi e quello sinottico della Edizioni Messagero in quanto hanno i testi greco ed italiano a fronte. Si trovano anche in vari siti in rete, ma non sempre sono testi aggiornati con le ultime scoperte a livello archeologico o paleografico.
Per la parte sostanziale normalmente faccio riferimento a documenti prodotti dalle fonti seguenti, che riporto in ordine decrescente di frequenza di utilizzo:

- École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), retto dai Domenicani e dove ha lavorato anche il Card. Martini.
- Centro Studi Biblici “G. Vannucci” – Montefano (An), retto dall’Ordine dei Servi di Maria.
- Sito www.Nicodemo.net gestito da P. Alessandro Sacchi.
- Università degli studi di Torino – Corso di Letteratura cristiana antica – Prof.essa Clementina Mazzucco.
- Fr. Dante Androli, OSM, docente di esegesi alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum – Roma
- Università degli studi La Sapienza di Roma – Corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Prof.essa Emanuela Prinzivalli.
- Biblia, Associazione laica di cultura biblica – Settimello (Fi)


venerdì 15 agosto 2014

XX Domenica del T.O.



XX Domenica del Tempo Ordinario - Mt 15,21-28

Partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone. Ed ecco, una donna cananea, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d'Israele». Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore - disse la donna -, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell'istante sua figlia fu guarita.

Come ho spesso detto, non è possibile comprendere ciò che l’evangelista vuole dirci leggendo un brano di vangelo isolato dagli altri; è necessario conoscere il significato del brano che precede e, talvolta, anche il brano che segue, come nel caso dello stile letterario del “trittico”, molto diffuso tra gli evangelisti.
Matteo prende questo brano da Marco, ma come al solito non si limita a riprodurre il racconto marciano, ma lo adatta alla sua visione teologica. In Luca questo episodio è assente.
Il brano in esame richiede, per essere compreso appieno, la conoscenza di due brani precedenti: Mt 15, 1-9 e 10-20. Non si potrebbe altrimenti comprendere il perché del comportamento di Gesù, che, solitamente così pronto ad aiutare, nega inizialmente il proprio intervento alla donna cananea, apparentemente contraddicendo il suo stesso insegnamento. Da tenere presente che al termine di quei due episodi precedenti Gesù deve scappare nella zona di Tiro e Sidone, in terra fenicia, dove si trovavano certamente dei gruppi di ebrei dediti soprattutto ai commerci, ma che erano certamente in forte minoranza.
Perché Gesù fugge? Cosa era successo di così grave, che ha suscitato addirittura l’intervento delle autorità religiose da Gerusalemme? Cercherò di dirlo in due parole.
Premetto che, guardata con i nostri occhi, la questione sembra ridicola, ma per gli ebrei praticanti e pii, per i farisei, era una cosa di importanza fondamentale(1). 
I farisei infatti e tutti i giudei non mangiavano se non si erano lavate le mani e le braccia fino al gomito; nell’AT non c’è questo comandamento, ma i farisei erano riusciti ad inculcare nella gente che quelle prescrizioni di purezza rituale che i sacerdoti osservavano nel tempio durante quella settimana all’anno del loro servizio, doveva diventare una pratica abituale nella vita quotidiana di tutte le persone.
Attenzione, non era una questione di igiene; era una questione di purezza rituale. Era un precetto talmente importante che un intero trattato del Talmud prescrive dove quando e come lavarsi le mani, un atto rituale la cui trasgressione prevedeva la pena di morte!
Non sto qui a spiegare il rituale, complesso e lungo che prevede quantitativi di acqua estremamente precisi e strumenti specificatamente dedicati contornati da varie preghiere.
Gli scribi e i farisei, appositamente venuti in commissione da Gerusalemme, contestano a Gesù ed ai suoi discepoli il fatto che non si lavano le mani prima di mangiare.
La risposta di Gesù è violentissima; citando il profeta Isaia si mette a gridare: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me…. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che non sono altro che precetti di uomini”.
Poi chiama la folla. Gesù capisce che la questione è importante e chiama tutta la gente che lo segue, e dice: “ascoltatemi bene e intendete tutti. Non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo…”. È solo la volontà dell’uomo che rende impuro l’uomo, sono le sue azioni contro gli altri che lo distruggono.
Quest’affermazione era rivoluzionaria per quei tempi! Il mondo per Gesù non è un nemico dell’uomo, dal quale esso si deve difendere, un pericolo per la relazione con Dio; l’uomo non deve avere paura del contatto con le cose e con le persone. Dichiarando che non c’è nulla di esterno che possa contaminare e rendere impuro l’uomo, Gesù non solo si mette contro la legge orale (quella tramandata dagli uomini), ma contro la legge scritta, annullando quei precetti della purezza che erano previsti nell’AT.
Così facendo, Gesù dichiara che il libro del Levitico afferma il falso! Non è parola di Dio, ma invenzione degli uomini. Con queste parole ce ne é abbastanza per potere essere condannato a morte! Non meravigliamoci che abbiano ammazzato Gesù, meravigliamoci invece che sia riuscito a campare così tanto!
La stessa cosa dirà Paolo nella lettera ai corinzi (1Cor 15,56): “Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la Legge”.
A questo punto Gesù è costretto a fuggire in terra pagana(2), lontano dalla giurisdizione del sinedrio e qui Matteo gli fa incontrare una donna cananea con una figlia gravemente ammalata (come già visto altre volte, nei vangeli con la parola “demonio” si intende la malattia3).
Matteo attribuisce alla donna la qualifica di «cananea», cioè appartenente agli antichi abitanti della terra di Israele (Marco osserva invece che era greca di stirpe sirofenicia) e lascia intendere che essa fosse venuta in Galilea «dalla regione» verso cui Gesù si era ritirato. Con questi piccoli ritocchi Matteo raggiunge il risultato di eliminare la notizia di un viaggio fuori della Galilea, che per Marco aveva un forte valore simbolico, mentre per lui era in contrasto con la convinzione, espressa subito dopo, che Gesù si riteneva inviato solo a Israele. Invece di descrivere la situazione della donna e di riferire in modo indiretto la sua richiesta, come fa Marco, Matteo fa parlare direttamente la donna: è lei che chiede aiuto a Gesù dicendo che sua figlia è tormentata da un demonio: cade il diminutivo «figlioletta» e appare l’invocazione «Signore, figlio di David» che rivela subito all’inizio una vicinanza alla fede israelitica e messianica della donna(4).
Attenzione: la persona che Gesù incontra è una donna, per gli ebrei è l’essere più infimo e impuro che esista sulla terra ed in più cananea, quindi probabilmente con tendenze idolatre come i culti di Baal durante i quali le donne si prostituivano in onore del dio. Gli ebrei queste donne le chiamavano “cagne” e fuggivano da loro. È l’essere più lontano da Dio che un ebreo possa immaginare.
Diversamente da quanto afferma Marco, Gesù le risponde nel modo con cui avrebbe risposto un fariseo, cioè ignorandola, e solo quando i suoi discepoli si fanno avanti, egli spiega loro il suo atteggiamento. La richiesta dei discepoli non è univoca: essi gli dicono di «licenziarla» (Matteo usa il verbo greco apolyô), cioè di mandarla via, perché con le sue grida li mette in una situazione imbarazzante, ma è possibile che essi gli abbiano chiesto anche di «esaudirla» (come recita la traduzione CEI 2008), affinché se ne vada e cessi di gridare. Gesù allora spiega loro la ragione del suo silenzio: egli non è stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele.
Con questa frase, aggiunta da Matteo al racconto di Marco, Gesù intende limitare il suo campo d’azione al popolo dell’alleanza. Una così rigida delimitazione era già apparsa nel racconto matteano dell’invio dei discepoli, ai quali Gesù aveva ordinato di rivolgersi solo alle pecore perdute della casa di Israele (Mt 10,6). L’appellativo di «pecore perdute» si rifà alla nota immagine biblica del popolo come gregge senza pastore (cfr. Ez 36).
Nel frattempo la donna si avvicina a Gesù, si prostra davanti a lui e gli ripete la domanda: «Signore aiutami!». A questo punto Matteo riferisce, in sintonia con Marco, la risposta nella quale Gesù chiama i suoi figli cagnolini, figli di una cagna. Guardate che per un ebreo la parola cagna o cagnolini, suona come una tremenda offesa.
L’immagine è quella di una famiglia nella quale il pane, alimento prezioso, viene riservato ai figli e non ai cani. In altre parole Gesù dice alla donna la stessa cosa già espressa ai discepoli. L’immagine usata però è molto forte: in essa gli israeliti sono identificati con i figli, mentre i gentili sono considerati, alla luce delle concezioni giudaiche dell’epoca, alla stregua di cani. Il diminutivo «cagnolini» serve forse ad attutire l’impatto negativo del paragone. Rispetto al racconto di Marco, però, Matteo lascia cadere la prima parte della risposta di Gesù: «Lascia prima che si sfamino i figli» (Mc 7,27a). Secondo Marco esiste un «prima» e un «poi», la prima riservata ai giudei e la seconda aperta ai gentili.
Per Matteo invece Gesù si rivolge esclusivamente ai giudei: solo dopo la risurrezione manderà i suoi discepoli ai gentili (Mt 28,19), i quali negli ultimi tempi verranno anch’essi nel regno di Dio e siederanno a mensa con i padri di Israele (Mt 8,11).
La donna gli risponde per le rime, come un animale che difende i propri figli: “È vero, Signore - disse la donna -, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”.
Anche qui Matteo cambia il dettato di Marco, per il quale la donna si limita a dire che anche i cagnolini, sotto la tavola, mangiano le briciole dei figli. Con questo ritocco Matteo vuole sottolineare che, secondo l’ammissione esplicita della donna, al tavolo della salvezza si siedono solo i membri del popolo dell’alleanza; ciò non esclude però una certa partecipazione anche da parte dei gentili.
Di fronte a questa osservazione Gesù reagisce con una frase assente in Marco: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». Egli dunque cede unicamente perché la donna, riconoscendo che la salvezza spetta di diritto ai soli giudei, ha manifestato una grande fede nel piano salvifico di Dio. Il brano termina con la notizia del miracolo avvenuto proprio in quel momento.
L’evangelista, contrapponendo l’episodio della donna fenicia a quello delle abluzioni rituali sottolinea in modo profondamente stridente la differenza che esiste tra la religione, fatta di riti definiti dagli uomini, e la fede, sorgente di amore verso gli altri, specchio dell’amore di Dio per tutti noi.
Questo episodio, per la mentalità delle persone di 2000 anni fa, era profondamente scandaloso. Per cercare di comprenderne la portata potremo tentare di fare un paragone, certamente imperfetto: è come se, oggi, durante una riunione di parrocchiani, il parroco trascurasse tutti per salutare per prima una nota prostituta musulmana e darle il primo posto in sala. Se riuscite ad immaginare la vostra reazione di fronte ad un fatto di questo tipo, potrete capire cosa provavano i primi cristiani di fronte a questo brano di vangelo.
Ma c’è dell’altro: originariamente, nella tradizione orale che precede il vangelo di Marco, questo brano aveva lo scopo di mostrare come Gesù, pur avendo fatto in via eccezionale una guarigione in favore di gentili, abbia però limitato espressamente la sua opera al solo Israele.
Marco, che descrive per primo questo avvenimento, narrandolo dopo la discussione di Gesù con i farisei e prima della seconda moltiplicazione dei pani, lo legge in una prospettiva nuova. Egli infatti, nella risposta data da Gesù alla donna, ha l’espressione «lascia prima che si sfamino i figli»: così facendo ha attenuato il netto diniego contenuto nella seconda frase («non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini»), introducendo la concezione, largamente diffusa nella chiesa primitiva, secondo cui la salvezza deve essere prima annunziata ai giudei e poi ai gentili (cfr. At 13,46; Rm 1,16). L’evangelista ha espresso però un’idea che né Paolo né Luca avrebbero condiviso: prima Gesù ha portato a termine in Galilea, con la prima moltiplicazione dei pani, l’evangelizzazione del mondo giudaico; ora apre lui stesso la porta ai gentili, offrendo anche a loro la salvezza non solo mediante la guarigione di una bambina ammalata, ma mediante una nuova moltiplicazione dei pani in loro favore. Quella che era solo un’eccezione diventa così l’inizio della seconda fase del ministero pubblico di Gesù, l’annunzio ai gentili. Questo passaggio è reso possibile dal fatto che Gesù, dichiarando puri tutti gli alimenti (Mc 7,19 e Mt 15,11), ha riconosciuto che la salvezza va immediatamente, per sua natura, al di là dei confini di Israele.
Matteo invece, pur riprendendo il racconto di Marco e mantenendolo nel suo contesto, lo legge in un modo diverso, molto più vicino al suo significato originario. Gesù è e resta il Messia di Israele, quindi deve preoccuparsi esclusivamente di coloro che appartengono a questo popolo. Gli altri sono al di fuori della sua sfera di azione, anche se eccezionalmente può interessarsi di loro e dare loro un anticipo di quella salvezza che competerà anche ad essi, ma solo nella fase finale del Regno.
Lo stesso significato di eccezionalità ha anche la guarigione del servo del centurione così come è narrata da Matteo (Mt 8,5-13). In ambedue i casi ciò che è determinante è la fede nel ruolo storico-salvifico di Israele. Mentre Marco mette in luce come la destinazione universale sia una caratteristica inalienabile della salvezza, e come tale risalga al Gesù storico, Matteo è preoccupato di riaffermare il ruolo di Israele nel piano di Dio: la salvezza è riservata a Israele e i gentili non potranno usufruirne se non aggregandosi a questo popolo e diventando partecipi dei doni ad esso conferiti.

Note: 1. Se volessimo inquadrare i farisei con il linguaggio dei nostri giorni, potremmo dire i membri di Comunione e Liberazione, i fondamentalisti, le beghine. – 2. Mentre secondo Marco egli si reca nell’attuale Libano meridionale, al di fuori della Galilea e quindi in un territorio abitato da gentili, Matteo lascia intendere che egli si è ritirato «in direzione» di Tiro e Sidone, pur restando nel territorio della Galilea; forse per questa ragione non riprende l’osservazione di Marco secondo cui egli cercava invano di rimanere in incognito. – 3. Secondo la concezione ebraica, il premio o la punizione delle azioni di un uomo venivano date da Dio durante la vita; il premio consisteva in una vita serena (molti figli, il granaio e gli otri pieni ed una morte quando era “sazio di anni”). La punizione erano le malattie la cui gravità era proporzionata ai peccati commessi; la malattia era inviata tramite il satana che, a sua volta, demandava l’applicazione della pena ad alcuni dei minori fenici che, in lingua greca, venivano chiamati daimonios (demoni) come Beelzebùl (Baal Zebub, il dio delle mosche), citato da Luca (Lc 11, 14-23). Gli ebrei non pensavano esistesse una vita dipo la morte. Solo dopo la metà del II sec. a.C. si inizia a diffondere in Israele l’idea di una possibile resurrezione dei giusti, ovvero la prosecuzione della vita nel “seno di Abramo” dopo la morte fisica. Per questo gli ebrei pensavano che Dio inviasse il satana per esaminare il comportamento di ciascuno (cfr Gb 1,6-17) e quindi punirli dei loro peccati. Satana, in ebraico, non è un nome proprio di persona, ma un nome comune che indica una attività, quella del pubblico ministero, dell’avversario in un processo. Il pubblico ministero ha il compito di far risaltare le accuse, la gravità del comportamento: questa è l’azione del satana nell’A.T., mutuata dall’organizzazione dell’impero persiano (Israele è stata per alcuni secoli sotto il dominio persiano); infatti il satana era un funzionario della corte persiana. Questo funzionario girava per le regioni e guardava il comportamento dei governatori: se uno si comportava bene lo segnalava al re per farlo promuovere, per premiarlo; se uno si comportava male lo segnalava al re per castigarlo, eventualmente anche con la morte. – 4. Ricordo che Matteo è ebreo e scrive per degli ebrei convertiti per cui, rispetto a Marco, cerca di attenuare i toni per scandalizzare il meno possibile i lettori.

martedì 12 agosto 2014

Assunzione di Maria Vergine



Assunzione della Beata Vergine Maria (Messa del Giorno) - Lc 1,39-56  
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto».
Allora Maria disse:
«L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome;
di generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre».
Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.

Il brano che ci accingiamo a leggere più che descrivere un fatto, produce delle affermazioni teologiche. Per comprenderne il significato dobbiamo ricordarci che Maria è una ragazza di circa 13 anni (forse meno)1, che è incinta di Gesù e che è solo fidanzata e non sposata con Giuseppe2. Sono particolari che a quell’epoca contavano molto.
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.” Quindi Maria, dal nord, dalla Galilea, si mette in viaggio, in fretta verso una città di Giuda, nel sud. Sono all’incirca 150 chilometri se si passa attraverso la Samaria; un po’ di più se si segue la valle del Giordano; ovviamente da fare a piedi3.
In entrambi i casi il percorso è pericoloso; in Samaria i galilei ed i giudei non erano ben visti ed era molto facile rimediare una coltellata. La valle del Giordano è abitata da pastori, gente brutale, abituata a vivere più con le bestie che con gli uomini: uno stupro era il minimo da preventivare. A tutto questo occorre aggiungere che Maria non può contare su nessuno: non può essere accompagnata dal padre o da uno della famiglia perché è in attesa di un figlio senza essere sposata; non può essere accompagnata da Giuseppe perché non sono sposati. Fare un viaggio del genere da sola camminando per quattro giorni e dormendo dove capita è veramente inconcepibile. Forse nemmeno una prostituta si azzarderebbe a compiere un viaggio simile. 
E’ sconcertante quello che Luca sta narrando, è evidente che il racconto, più che descrivere un fatto storico, vuole affermare una verità teologica: il collegamento, nel piano di Dio, tra Giovanni (il Battista, il precursore, l’Elia atteso) e Gesù.
Inoltre Maria è spinta dalla fretta: l’evangelista non ci dice quale sia il motivo di questa fretta, probabilmente è una licenza letteraria per sottolineare l’importanza del fatto; comunque Maria, che è stata dichiarata piena di Spirito Santo, inizia una attività all’insegna della fretta e questa attività la mette di fronte a pericoli consistenti.
Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta”. Ci saremmo aspettati che all’ingresso nella casa del sacerdote Zaccaria, Maria salutasse il sacerdote. Nella cultura ebraica era l’atto principale, anzi, era l’unico atto che avrebbe consentito a Maria di entrare e rimanere nella casa. Invece anche qui c’è qualcosa che sconcerta: “…salutò Elisabetta”.
E il povero Zaccaria? Il povero Zaccaria è escluso: è stato sordo alla voce di Dio (cfr. Lc 1,18), refrattario allo Spirito; Maria, piena di Spirito Santo, con la vita che trabocca in lei, può dirigere il suo saluto solamente alla parente nella quale ugualmente palpita la vita. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo…. L’attività di Gesù sarà definita proprio da questo bambino, da questo personaggio, da Giovanni chiamato il Battista, colui che battezzerà in Spirito Santo, cioè immergerà le persone nello spirito.
Luca quasi anticipa questa attività nella figura di Maria: Maria, piena di Spirito Santo (noi non abbiamo più questa sensibilità, ma il saluto non è soltanto una espressione verbale, è una trasmissione di vita, una messa in comune di vita), con il saluto trasmette lo Spirito Santo ad Elisabetta, ed Elisabetta potremmo dire che è battezzata nello Spirito Santo, cioè è permeata da questo amore di Dio, tanto che il bambino le sussulta, le salta nel grembo.
Elisabetta inaugura, con Maria, la serie delle donne profetesse: essere piena di Spirito Santo significa essere in piena sintonia con Dio e ricordo, per far comprendere il clamore di questa affermazione, che Dio, che nell’AT non si rivolge mai alle donne, qui comunica invece anche alle donne la sua stessa forza e le donne profetizzano.
“…ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto»”.
Quello che dice Elisabetta non è soltanto ammirazione per Maria, ma suona anche disapprovazione per il marito; qui Luca presenta due contrasti: Maria ha creduto a qualcosa che non era mai accaduto nella storia di Israele e si è fidata; Zaccaria, il sacerdote, invece non ha creduto a qualcosa che era già accaduto nella storia di Israele.
Questa beatitudine che si rivolge a Maria suona perciò come un rimprovero al marito. La prima beatitudine che compare nei Vangeli, nel Vangelo di Luca, è rivolta a Maria.
L’ultima beatitudine che compare nei Vangeli, non in Luca, ma nel Vangelo di Giovanni, è probabile possa essere attribuita anche a Maria, anche se non ci sono prove e quindi si è soltanto a livello di ipotesi.
La prima beatitudine è quella che abbiamo appena letto: beata colei che ha creduto nell'adempimento di ciò che il Signore le ha detto”, qualcosa di nuovo, qualcosa di incredibile.
L’ultima beatitudine che chiude i Vangeli è, in Giovanni, “beati quelli che crederanno senza aver bisogno di vedere. In Maria potrebbero essere racchiuse queste due beatitudini. E’ beata colei che ha creduto alle parole del Signore e questa fede non le ha creato la necessità di vedere.
Dico questo perché molti autori, credendo di esaltare il ruolo di Maria (specialmente qui in Italia, o nella zona mediterranea, dove tutti sono dei cocchi di mamma) pensano che Gesù, una volta resuscitato, la prima cosa che ha fatto è stata quella di andare dalla mamma4.
Questo è tipicamente italiano, la mamma al di sopra di tutto!
Quindi Gesù resuscitato, secondo questi autori, la prima persona alla quale si faceva vedere era la mamma: dai Vangeli però, le apparizioni di Gesù sono sempre per le persone tarde e dure di testa, di comprendonio. Le apparizioni sono sempre accompagnate da un rimprovero: perché non avete creduto, gente di poca fede?
Credo quindi che far apparire Gesù resuscitato a Maria non significa esaltare il ruolo di Maria, ma diminuirlo o perlomeno escludere Maria dall’ultima beatitudine, beati quelli che credono senza aver bisogno di vedere; questa, ripeto, è una ipotesi, una proposta di studio.
La visita di Maria a Elisabetta è l’occasione della prima manifestazione dello Spirito su Giovanni e l’inizio della sua missione già nel grembo di sua madre; è anche il momento della manifestazione dello Spirito su Maria, la quale viene proclamata beata a motivo della sua fede ed esprimerà nel Magnificat il suo animo ricolmo di gioia.
Per quanto riguarda il Magnificat sono particolarmente interessanti le somiglianze con il cantico di Anna (1Sam 2,1-10). Numerosi sono anche i paralleli con brani della letteratura intertestamentaria: nel IV libro di Esdra, ad esempio, il popolo di Dio è personificato in una donna desolata che, dopo la prova, esprime così la sua riconoscenza: «Dio ha esaudito la sua schiava, ha visto la mia vergogna (la mia umiliazione)... e mi ha dato un figlio» (4Esd 9,45; cfr. 1Sam 1,11). La preghiera di Maria5 si divide in tre strofe ritmate, riguardanti rispettivamente il privilegio concesso a Maria stessa (vv. 46-50), il modo di agire di Dio nella storia (vv. 51-53) e la sua fedeltà a Israele (vv. 54-55).
Nella prima strofa Maria si rivolge a Dio come suo «salvatore» e gli esprime la sua esultanza e la sua lode per i benefici di cui l’ha colmata. Il primo motivo di questa esultanza consiste nel fatto che egli «ha rivolto il suo sguardo» su di lei, cioè ha operato una scelta privilegiando proprio a favore di colei che, per la sua «bassezza» (tapeinôsis), può essere paragonata a una schiava: il motivo della schiava che si apre alla chiamata di Dio era già apparso nella risposta di Maria all’angelo (cfr. 1,38).
Maria fa poi una considerazione generale circa il suo futuro destino affermando che, in forza della chiamata divina, d’ora in poi tutte le generazioni la diranno beata: l’esaltazione di Maria si estenderà dunque senza limiti di tempo e di spazio. Il testo gioca sulla contrapposizione tra la bassezza della schiava e la grandezza che il Signore le ha conferito. Da questa constatazione Maria passa poi di nuovo ad esaltare l’iniziativa divina a suo riguardo: il Potente ha fatto per lei grandi cose; con ciò ha dimostrato che il suo nome è santo e che la sua misericordia si estende «a generazioni e generazioni» in favore di quelli che lo temono. La santità del nome divino si manifesta appunto nelle opere che egli compie per la liberazione del suo popolo (cfr Ez 36,20-23), le stesse con le quali rivela la sua misericordia per coloro che sono aperti alla sua azione (cfr. Es 20,6).
Nella seconda strofa il canto di lode si allarga: «Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi». Con queste parole Maria mostra che quanto Dio ha fatto in suo favore non è altro che un esempio di come egli guida le vicende del mondo. Anzitutto Maria esalta la potenza che ha dimostrato stendendo il suo braccio (cfr. per es. Es 6,6) e disperdendo i superbi nei «pensieri» (dianoia) del loro cuore, cioè nei loro progetti di grandezza. Poi prosegue con due parallelismi antitetici in forma chiastica (ab-ba): ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili (tapeinous), cioè quelli privi di potere (cfr. v. 48a); ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato a mani vuote i ricchi.
La terza strofa contiene un’esaltazione dell’opera di salvezza che Dio ha attuato in favore del suo popolo: Maria ricorda l’aiuto dato da Dio ad Israele suo servo come manifestazione della sua misericordia e come adempimento delle promesse fatte ai padri: in questa strofa la mente va ancora una volta al tema del servo, che accomuna Maria e Israele; l’accenno alla «discendenza» (sperma) di Abramo non poteva non ricordare al lettore cristiano la figura di Gesù, in funzione del quale erano state fatte le promesse (cfr. Gal 3,16).
Al termine del Magnificat Luca annota: «Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua» (v. 56): in questo modo termina il racconto della visita ad Elisabetta e con esso il dittico degli annunzi. Anche alla fine del secondo dittico si dirà che Giuseppe e Maria sono ritornati a casa loro (2,39). I tre mesi in cui Maria si ferma da Elisabetta, aggiunti ai sei mesi che precedono, fanno supporre che ella fosse presente al momento del parto. Il testo però non dice niente in proposito. L’evangelista non è interessato ai dettagli, ma vuole semplicemente concludere il suo primo dittico prima di iniziare il secondo. Così in 3,19-20 egli ricorda l’incarcerazione di Giovanni e la fine della sua attività di battezzatore prima di affrontare il racconto del ministero di Gesù, che tuttavia comincia proprio con il battesimo di Giovanni. 

Note: 1. Maria, come tutte le donne ebree del suo tempo, è divenuta maggiorenne a undici anni e, a dodici anni al più tardi, ha l’obbligo di sposarsi (Talmud, Nidda M. 6,11). Obbligo, non possibilità: nel mondo ebraico e orientale non è concepibile la figura della donna indipendente e la verginità è una maledizione; senza un marito od un figlio maggiorenne, la donna ebraica è considerata un essere senza testa (cfr. Ef 5, 23). – 2. Ricordo che il matrimonio giudaico non è un atto religioso e nemmeno sociale, ma un contratto tra privati. Lo sposalizio si tiene in casa della donna; raggiunto l’accordo sul prezzo, lo sposo copre con il proprio mantello la sposa e pronuncia la formula “Tu sei mia moglie” e la sposa risponde “Tu sei mio marito”. Con questa semplice cerimonia Maria è divenuta “promessa sposa di Giuseppe”. Dopo un anno, quando la maturità sessuale di Maria lo permetterà, avrà luogo la seconda fase del matrimonio, la convivenza. Ma in questo anno accade il concepimento di Gesù, qualcosa di imprevedibile. – 3. Secondo le usanze ebraiche, alla donna non era concesso l’uso di animali da soma, riservati ai lavori dei campi e quindi agli uomini. Se si pensa di fare riferimento a certe illustrazioni rappresentanti la fuga in Egitto con Maria sull’asino, Gesù in braccio e Giuseppe a piedi che guida l’asimo, si ha una visione edulcorata del mondo ebraico. La rappresentazione reale prevede Giuseppe sull’asino e Maria con Gesù in braccio e sulla testa i bagagli, racchiusi in un grande telo annodato, che segue a piedi. – 4.  Ammesso e non concesso che fosse ancora viva: Maria al momento della crocifissione di Gesù avrebbe dovuto avere circa 42 o 43 anni e la vita media delle donne in Israele a quell’epoca raramente superava i 25 anni. – 5. Molto probabilmente quella che viene dalla Chiesa indicata come preghiera di Maria è, in realtà, la preghiera di ringraziamento di Elisabetta per aver concepito un figlio, lei che era umiliata dall’essere sterile.