XX Domenica del Tempo Ordinario - Mt 15,21-28
Partito di là, Gesù
si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidone. Ed ecco, una donna cananea, che
veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di
Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse
neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo
implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose:
«Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d'Israele». Ma
quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed
egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini».
«È vero, Signore - disse la donna -, eppure i cagnolini mangiano le briciole che
cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è
la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell'istante sua figlia fu
guarita.
Come
ho spesso detto, non è possibile comprendere ciò che l’evangelista vuole dirci
leggendo un brano di vangelo isolato dagli altri; è necessario conoscere il
significato del brano che precede e, talvolta, anche il brano che segue, come
nel caso dello stile letterario del “trittico”, molto diffuso tra gli
evangelisti.
Matteo prende questo brano da Marco, ma come
al solito non si limita a riprodurre il racconto marciano, ma lo adatta alla
sua visione teologica. In Luca questo episodio è assente.
Il
brano in esame richiede, per essere compreso appieno, la conoscenza di due
brani precedenti: Mt 15, 1-9 e 10-20. Non si potrebbe altrimenti comprendere il
perché del comportamento di Gesù, che, solitamente così pronto ad aiutare, nega
inizialmente il proprio intervento alla donna cananea, apparentemente
contraddicendo il suo stesso insegnamento. Da tenere presente che al termine di
quei due episodi precedenti Gesù deve scappare nella zona di Tiro e Sidone, in
terra fenicia, dove si trovavano certamente dei gruppi di ebrei dediti
soprattutto ai commerci, ma che erano certamente in forte minoranza.
Perché
Gesù fugge? Cosa era successo di così grave, che ha suscitato addirittura
l’intervento delle autorità religiose da Gerusalemme? Cercherò di dirlo in due
parole.
Premetto
che, guardata con i nostri occhi, la questione sembra ridicola, ma per gli
ebrei praticanti e pii, per i farisei, era una cosa di importanza fondamentale(1).
I
farisei infatti e tutti i giudei non mangiavano se non si erano lavate le mani e
le braccia fino al gomito; nell’AT non c’è questo comandamento, ma i farisei
erano riusciti ad inculcare nella gente che quelle prescrizioni di purezza
rituale che i sacerdoti osservavano nel tempio durante quella settimana
all’anno del loro servizio, doveva diventare una pratica abituale nella vita
quotidiana di tutte le persone.
Attenzione,
non era una questione di igiene; era una questione di purezza rituale. Era un precetto
talmente importante che un intero trattato del Talmud prescrive dove quando e
come lavarsi le mani, un atto rituale la cui trasgressione prevedeva la pena di
morte!
Non
sto qui a spiegare il rituale, complesso e lungo che prevede quantitativi di
acqua estremamente precisi e strumenti specificatamente dedicati contornati da
varie preghiere.
Gli scribi e i farisei, appositamente venuti in
commissione da Gerusalemme, contestano a Gesù ed ai suoi discepoli il fatto che
non si lavano le mani prima di mangiare.
La risposta di Gesù è
violentissima; citando il profeta Isaia si mette a gridare: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo
cuore è lontano da me…. Invano essi
mi rendono culto, insegnando dottrine che non sono altro che precetti di
uomini”.
Poi
chiama la folla. Gesù capisce che la questione è importante e chiama tutta la
gente che lo segue, e dice: “ascoltatemi
bene e intendete tutti. Non c'è nulla
fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose
che escono dall'uomo a contaminarlo…”. È solo la volontà dell’uomo che rende impuro l’uomo, sono le sue azioni
contro gli altri che lo distruggono.
Quest’affermazione
era rivoluzionaria per quei tempi! Il mondo per Gesù non è un nemico dell’uomo,
dal quale esso si deve difendere, un pericolo per la relazione con Dio; l’uomo
non deve avere paura del contatto con le cose e con le persone. Dichiarando che
non c’è nulla di esterno che possa contaminare e rendere impuro l’uomo, Gesù
non solo si mette contro la legge orale (quella tramandata dagli uomini), ma
contro la legge scritta, annullando quei precetti della purezza che erano
previsti nell’AT.
Così facendo, Gesù
dichiara che il libro del Levitico afferma il falso! Non è parola di Dio, ma
invenzione degli uomini. Con queste parole ce ne é abbastanza per potere essere
condannato a morte! Non meravigliamoci che abbiano ammazzato Gesù,
meravigliamoci invece che sia riuscito a campare così tanto!
La stessa cosa dirà
Paolo nella lettera ai corinzi (1Cor
15,56): “Il pungiglione della morte è il peccato e
la forza del peccato è la Legge”.
A questo punto Gesù è
costretto a fuggire in terra pagana(2), lontano dalla giurisdizione
del sinedrio e qui Matteo gli fa incontrare una donna cananea con una figlia
gravemente ammalata (come già visto altre volte, nei vangeli con la parola “demonio” si intende la malattia3).
Matteo
attribuisce alla donna la qualifica di «cananea»,
cioè appartenente agli antichi abitanti della terra di Israele (Marco osserva
invece che era greca di stirpe sirofenicia) e lascia intendere che essa fosse
venuta in Galilea «dalla regione»
verso cui Gesù si era ritirato. Con questi piccoli ritocchi Matteo raggiunge il
risultato di eliminare la notizia di un viaggio fuori della Galilea, che per
Marco aveva un forte valore simbolico, mentre per lui era in contrasto con la
convinzione, espressa subito dopo, che Gesù si riteneva inviato solo a Israele.
Invece di descrivere la situazione della donna e di riferire in modo indiretto
la sua richiesta, come fa Marco, Matteo fa parlare direttamente la donna: è lei
che chiede aiuto a Gesù dicendo che sua figlia è tormentata da un demonio: cade
il diminutivo «figlioletta» e appare
l’invocazione «Signore, figlio di David»
che rivela subito all’inizio una vicinanza alla fede israelitica e messianica
della donna(4).
Attenzione: la
persona che Gesù incontra è una donna, per gli ebrei è l’essere più infimo e
impuro che esista sulla terra ed in più cananea, quindi probabilmente con
tendenze idolatre come i culti di Baal durante i quali le donne si
prostituivano in onore del dio. Gli ebrei queste donne le chiamavano “cagne” e fuggivano da loro. È l’essere
più lontano da Dio che un ebreo possa immaginare.
Diversamente
da quanto afferma Marco, Gesù le risponde nel modo con cui avrebbe
risposto un fariseo, cioè ignorandola, e solo quando i suoi
discepoli si fanno avanti, egli spiega loro il suo atteggiamento. La richiesta
dei discepoli non è univoca: essi gli dicono di «licenziarla» (Matteo
usa il verbo greco apolyô), cioè di mandarla via, perché
con le sue grida li mette in una situazione imbarazzante, ma è possibile che
essi gli abbiano chiesto anche di «esaudirla»
(come recita la traduzione CEI 2008), affinché se ne vada e cessi di gridare.
Gesù allora spiega loro la ragione del suo silenzio: egli non è stato mandato
se non alle pecore perdute della casa di Israele.
Con
questa frase, aggiunta da Matteo al racconto di Marco, Gesù intende limitare il
suo campo d’azione al popolo dell’alleanza. Una così rigida delimitazione era
già apparsa nel racconto matteano dell’invio dei discepoli, ai quali Gesù aveva
ordinato di rivolgersi solo alle pecore perdute della casa di Israele (Mt 10,6). L’appellativo di «pecore perdute» si rifà alla nota
immagine biblica del popolo come gregge senza pastore (cfr. Ez 36).
Nel
frattempo la donna si avvicina a Gesù, si prostra davanti a lui e gli ripete la
domanda: «Signore aiutami!». A questo
punto Matteo riferisce, in sintonia con Marco, la risposta nella quale Gesù chiama i suoi figli
cagnolini, figli di una cagna. Guardate che per un ebreo la parola cagna o
cagnolini, suona come una tremenda offesa.
L’immagine è quella di una famiglia nella quale
il pane, alimento prezioso, viene riservato ai figli e non ai cani. In altre
parole Gesù dice alla donna la stessa cosa già espressa ai discepoli.
L’immagine usata però è molto forte: in essa gli israeliti sono identificati
con i figli, mentre i gentili sono considerati, alla luce delle concezioni
giudaiche dell’epoca, alla stregua di cani. Il diminutivo «cagnolini» serve
forse ad attutire l’impatto negativo del paragone. Rispetto al racconto di
Marco, però, Matteo lascia cadere la prima parte della risposta di Gesù: «Lascia prima che si sfamino i figli» (Mc
7,27a). Secondo Marco esiste un «prima» e un «poi», la prima riservata ai
giudei e la seconda aperta ai gentili.
Per Matteo invece Gesù si rivolge
esclusivamente ai giudei: solo dopo la risurrezione manderà i suoi discepoli ai
gentili (Mt 28,19), i quali negli
ultimi tempi verranno anch’essi nel regno di Dio e siederanno a mensa con i
padri di Israele (Mt 8,11).
La donna gli risponde
per le rime, come un animale che difende i propri figli: “È vero, Signore - disse la donna -, eppure i cagnolini mangiano le
briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni”.
Anche qui
Matteo cambia il dettato di Marco, per il quale la donna si limita a dire che
anche i cagnolini, sotto la tavola, mangiano le briciole dei figli. Con questo
ritocco Matteo vuole sottolineare che, secondo l’ammissione esplicita della
donna, al tavolo della salvezza si siedono solo i membri del popolo dell’alleanza;
ciò non esclude però una certa partecipazione anche da parte dei gentili.
Di fronte
a questa osservazione Gesù reagisce con una frase assente in Marco: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come
desideri». Egli dunque cede unicamente perché la donna, riconoscendo che la
salvezza spetta di diritto ai soli giudei, ha manifestato una grande fede nel
piano salvifico di Dio. Il brano termina con la notizia del miracolo avvenuto
proprio in quel momento.
L’evangelista,
contrapponendo l’episodio della donna fenicia a quello delle abluzioni rituali
sottolinea in modo profondamente stridente la differenza che esiste tra la
religione, fatta di riti definiti dagli uomini, e la fede, sorgente di amore
verso gli altri, specchio dell’amore di Dio per tutti noi.
Questo episodio, per
la mentalità delle persone di 2000 anni fa, era profondamente scandaloso. Per
cercare di comprenderne la portata potremo tentare di fare un paragone,
certamente imperfetto: è come se, oggi, durante una riunione di parrocchiani,
il parroco trascurasse tutti per salutare per prima una nota prostituta
musulmana e darle il primo posto in sala. Se riuscite ad immaginare la vostra
reazione di fronte ad un fatto di questo tipo, potrete capire cosa provavano i
primi cristiani di fronte a questo brano di vangelo.
Ma c’è dell’altro: originariamente, nella
tradizione orale che precede il vangelo di Marco, questo brano aveva lo scopo
di mostrare come Gesù, pur avendo fatto in via eccezionale una guarigione in
favore di gentili, abbia però limitato espressamente la sua opera al solo
Israele.
Marco, che descrive per primo questo
avvenimento, narrandolo dopo la discussione di Gesù con i farisei e prima della
seconda moltiplicazione dei pani, lo legge in una prospettiva nuova. Egli
infatti, nella risposta data da Gesù alla donna, ha l’espressione «lascia prima che si sfamino i figli»: così
facendo ha attenuato il netto diniego contenuto nella seconda frase («non è bene prendere il pane dei figli e
gettarlo ai cagnolini»), introducendo la concezione, largamente diffusa
nella chiesa primitiva, secondo cui la salvezza deve essere prima annunziata ai giudei e poi ai gentili (cfr. At 13,46; Rm 1,16). L’evangelista ha espresso però un’idea
che né Paolo né Luca avrebbero condiviso: prima Gesù ha portato a termine
in Galilea, con la prima moltiplicazione dei pani, l’evangelizzazione del mondo
giudaico; ora apre lui stesso la porta ai gentili, offrendo anche a loro la
salvezza non solo mediante la guarigione di una bambina ammalata, ma mediante
una nuova moltiplicazione dei pani in loro favore. Quella che era solo
un’eccezione diventa così l’inizio della seconda fase del ministero pubblico di
Gesù, l’annunzio ai gentili. Questo passaggio è reso possibile dal fatto che Gesù,
dichiarando puri tutti gli alimenti (Mc
7,19 e Mt 15,11), ha riconosciuto che la salvezza va immediatamente, per
sua natura, al di là dei confini di Israele.
Matteo invece, pur riprendendo il racconto di
Marco e mantenendolo nel suo contesto, lo legge in un modo diverso, molto più
vicino al suo significato originario. Gesù è e resta il Messia di Israele,
quindi deve preoccuparsi esclusivamente di coloro che appartengono a questo
popolo. Gli altri sono al di fuori della sua sfera di azione, anche se
eccezionalmente può interessarsi di loro e dare loro un anticipo di quella
salvezza che competerà anche ad essi, ma solo nella fase finale del Regno.
Lo stesso significato di eccezionalità ha
anche la guarigione del servo del centurione così come è narrata da Matteo (Mt 8,5-13). In ambedue i casi ciò che è
determinante è la fede nel ruolo storico-salvifico di Israele. Mentre Marco
mette in luce come la destinazione universale sia una caratteristica
inalienabile della salvezza, e come tale risalga al Gesù storico, Matteo è
preoccupato di riaffermare il ruolo di Israele nel piano di Dio: la salvezza è
riservata a Israele e i gentili non potranno usufruirne se non aggregandosi a
questo popolo e diventando partecipi dei doni ad esso conferiti.
Note: 1. Se
volessimo inquadrare i farisei con il linguaggio dei nostri giorni, potremmo
dire i membri di Comunione e Liberazione, i fondamentalisti, le beghine. – 2. Mentre secondo Marco
egli si reca nell’attuale Libano meridionale, al di fuori della Galilea e
quindi in un territorio abitato da gentili, Matteo lascia intendere che egli si
è ritirato «in direzione» di Tiro e
Sidone, pur restando nel territorio della Galilea; forse per questa ragione non
riprende l’osservazione di Marco secondo cui egli cercava invano di rimanere in
incognito. – 3. Secondo la
concezione ebraica, il premio o la punizione delle azioni di un uomo venivano
date da Dio durante la vita; il premio consisteva in una vita serena (molti
figli, il granaio e gli otri pieni ed una morte quando era “sazio di anni”). La
punizione erano le malattie la cui gravità era proporzionata ai
peccati commessi; la malattia era inviata tramite il satana che, a sua volta,
demandava l’applicazione della pena ad alcuni dei minori fenici che, in lingua
greca, venivano chiamati daimonios (demoni)
come Beelzebùl (Baal Zebub, il dio delle mosche), citato da Luca (Lc 11, 14-23). Gli ebrei non pensavano esistesse una vita dipo la
morte. Solo dopo la metà del II sec. a.C. si inizia a diffondere in Israele
l’idea di una possibile resurrezione dei giusti, ovvero la prosecuzione della
vita nel “seno di Abramo” dopo la morte fisica. Per questo gli
ebrei pensavano che Dio inviasse il satana per esaminare il comportamento di
ciascuno (cfr Gb 1,6-17) e quindi
punirli dei loro peccati. Satana, in ebraico, non è un nome proprio di persona,
ma un nome comune che indica una attività, quella del pubblico ministero,
dell’avversario in un processo. Il pubblico ministero ha il compito di far
risaltare le accuse, la gravità del comportamento: questa è l’azione del satana
nell’A.T., mutuata dall’organizzazione dell’impero persiano (Israele è stata
per alcuni secoli sotto il dominio persiano); infatti il satana era un
funzionario della corte persiana. Questo funzionario girava per le regioni e
guardava il comportamento dei governatori: se uno si comportava bene lo
segnalava al re per farlo promuovere, per premiarlo; se uno si comportava male
lo segnalava al re per castigarlo, eventualmente anche con la morte. – 4. Ricordo che Matteo è ebreo e scrive per degli ebrei
convertiti per cui, rispetto a Marco, cerca di attenuare i toni per
scandalizzare il meno possibile i lettori.