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Le esegesi riportate in questo blog non sono frutto delle mie capacità, in realtà molto modeste. Le ricavo leggendo diversi testi dei più importanti specialisti a livello mondiale, generalmente cattolici, ma non disdegno di verificare anche l’operato di esegeti protestanti, in particolare anglicani. Se si escludono alcuni miei approfondimenti specifici, per la parte tecnica dell’analisi critica il mio testo di riferimento è questo:

- Giovanni Leonardi
, Per saper fare esegesi nella Chiesa, 2007 Ed. Elledici (testo promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale). Questo testo è molto semplice, veramente alla portata di tutti; per migliorare la capacità di analisi deve essere affiancato da altri due testi per la parte linguistica, anch’essi a livello divulgativo:

- Filippo Serafini,
Corso di greco del nuovo testamento, 2003 Ed. San Paolo.
- Luciana Pepi, Filippo Serafini,
Corso di ebraico biblico, 2006 Ed. San Paolo (da usare solo nel caso si voglia approfondire l’etimologia semitica sottesa ai vocaboli greci).

I testi della Bibbia in lingua originale sono pubblicati da varie case editrici; in particolare per i Vangeli segnalo l'ottimo testo della Edizioni Enaudi e quello sinottico della Edizioni Messagero in quanto hanno i testi greco ed italiano a fronte. Si trovano anche in vari siti in rete, ma non sempre sono testi aggiornati con le ultime scoperte a livello archeologico o paleografico.
Per la parte sostanziale normalmente faccio riferimento a documenti prodotti dalle fonti seguenti, che riporto in ordine decrescente di frequenza di utilizzo:

- École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), retto dai Domenicani e dove ha lavorato anche il Card. Martini.
- Centro Studi Biblici “G. Vannucci” – Montefano (An), retto dall’Ordine dei Servi di Maria.
- Sito www.Nicodemo.net gestito da P. Alessandro Sacchi.
- Università degli studi di Torino – Corso di Letteratura cristiana antica – Prof.essa Clementina Mazzucco.
- Fr. Dante Androli, OSM, docente di esegesi alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum – Roma
- Università degli studi La Sapienza di Roma – Corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Prof.essa Emanuela Prinzivalli.
- Biblia, Associazione laica di cultura biblica – Settimello (Fi)


venerdì 21 maggio 2010

… lo sollevò sulle sue ali …

Pensieri in libertà di un vecchio rompiscatole

(Parte prima, pagg 1 - 12)

Premessa

Questo libro è nato per caso: studiando, sono solito scrivere appunti e consolidare i ragionamenti che sviluppo, per chiarirmi e fissare le idee che lo studio mi fa sorgere. Qualche tempo fa, durante un periodo di grandi difficoltà personali (ringraziando Dio, non difficoltà di fede) mi è capitato di riprendere in mano gli appunti e mi sono reso conto che, con pochi ritocchi, potevano descrivere il percorso di fede che ho fatto in tutti questi anni. Le conclusioni a cui sono pervenuto talvolta non coincidono con le posizioni ufficiali del Magistero della Chiesa cattolica e di questo avverto il lettore che è ovviamente libero di accoglierle o rifiutarle. Esse sono pareri strettamente personali in quanto non mi considero assolutamente depositario della Verità, ma solo un uomo che a questa verità aspira. La mia formazione di base è scientifica (sono un chimico, o meglio, vista la mia età, lo sono stato) per cui vado sempre alla ricerca del rapporto causa – effetto e questo modo di operare, trasportato nella teologia, mi porta a mettere in discussione tutto e mi permette di accettare le conclusioni solo quando soddisfano, a mio giudizio e in modo almeno accettabile, questo criterio. Se poi aggiungete che sono un appassionato di storia (appassionato, non uno storico: le differenze sono notevoli) vi potete rendere conto della complessità del percorso di fede che ho fatto. Ho scritto questo libro soprattutto per amore verso tutti gli uomini ed in particolare quelli che per tante diverse ragioni sbagliano e si fanno condizionare dalle loro paure. Talvolta queste paure entrano in quel complesso di riti e tradizioni che chiamiamo religione; se poi le paure entrano anche nella fede, l'uomo si costruisce una vita infelice. Eppure come è possibile non sentire che siamo nati per essere felici già in questa vita, per assaporare la promessa dell'eternità attraverso quella scheggia di Dio che abbiamo dentro? Sarei contento se questo libro divenisse sorgente di discussione e riflessione e sarei ugualmente felice se qualcuno, sempre usando il criterio causa – effetto, fosse in grado di convincermi che alcune mie conclusioni sono errate. Alcuni giorni fa, celebrando la liturgia delle ore, mi sono imbattuto in un brano del Deuteronomio (32,10-12) che sembrava scritto per descrivere la mia vita e il mio rapporto con Dio: Egli lo trovò in terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un'aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali, Il Signore lo guidò da solo, non c'era con lui alcun dio straniero. Da qui ho tratto il titolo di questo libro. Nessuno di noi nasce con la scienza infusa; quando ho iniziato ad occuparmi di esegesi dei Vangeli (cioè della loro interpretazione) ho avuto molte difficoltà. Queste difficoltà si sono ridotte dopo che il mio insegnante, Don Giorgis, mi ha fatto scoprire il lavoro fatto da Padre Alberto Maggi e dal Centro Studi Biblici G. Vannucci. Non ringrazierò mai abbastanza Don Giorgis per questo. Nella maggior parte delle esegesi sviluppate in questo libro ho attinto a piene mani nelle interpretazioni effettuate da Padre Maggi durante le conferenze che è solito tenere in Assisi o in giro per l'Italia. Ho avuto il piacere di incontrarlo a Cuneo nel giugno 2006 e gli ho chiesto come faceva a radunare centinaia di giovani tra i venti e i trenta anni ogni volta che parlava dei Vangeli. Mi ha risposto che non era lui a radunarli, ma era la voglia di comprendere il messaggio di Gesù. Toccato. Non avrei dovuto fare quella domanda; su questa risposta, comunque, occorrerebbe riflettere a lungo. E non lo dico solo a me stesso.

Roma, 1950 e dintorni - Dominus vobiscum. - Et cum spirito tuo… Ero con mia sorella, in piedi, circondato da tanti adulti da impedirmi completamente di vedere chi diceva quelle frasi magiche. Era raro che mia sorella, che aveva diciassette anni più di me, andasse a messa; ma quando vi andava, per lo più la domenica, mi portava con se. Al suono del campanello, mia sorella mi poggiava la mano sul capo e mi faceva chinare. Davanti a me un bambino, poco più piccolo di me, era seduto sulle scarpe del padre e mi sorrideva. Cosa aveva da sorridere in quel momento, in quell'ambiente così oppressivo, onestamente non lo capivo, ma forse era semplicemente felice di stare vicino al padre, cosa che, probabilmente, non poteva fare durante la settimana. La mia famiglia non era praticante, o meglio, era composta da indifferenti, cioè da persone che non si ponevano il problema di Dio. Mio fratello aveva dodici anni più di me, si era diplomato ragioniere e l'unica cosa che gli importava era il suo posto di lavoro e di costruirsi una vita propria. Mio padre, persona integerrima al limite dell'ingenuità, aveva da ragazzo studiato a Palermo abitando presso uno zio prete e ne era rimasto disgustato. Aveva constatato che, a fronte di una esteriorità sacrale spinta all'eccesso, la vita intima di suo zio era quanto di più carnale potesse pensarsi, con un via vai di sottane che cambiavano ogni sera. Mio padre era rimasto scandalizzato non dalla umana debolezza manifestata dallo zio, ma dalla ipocrisia imperante nella sua vita. Quando era stato mandato a Bologna presso il fratello maggiore per completare gli studi superiori, aveva tirato un sospiro di sollievo, ma ormai il danno era fatto: per mio padre il clero era solo capace di raccontare frottole. Mia madre, dal canto suo, aveva sempre timore, o semplicemente fastidio, di avere rapporti con altre persone, se non quelle pochissime che frequentavano casa nostra; per cui io, ultimo di tre fratelli e per giunta arrivato inaspettato quando mia madre stava per compiere quarantaquattro anni, rimanevo sempre in casa con lei, mai un amico, mai un altro bambino con cui giocare. Per questo insieme di motivi frequentavo la scuola ma non il catechismo, cosa di cui ho, da adulto, molte volte ringraziato il Signore, perché, altrimenti, durante l'adolescenza non mi sarei posto le domande che vedremo, avrei semplicemente girato le spalle alla Chiesa e a tutte le favole e le follie che vi si raccontavano. Non è, in verità, esatto dire che non ho mai frequentato il catechismo; infatti l'ho frequentato per un paio di mesi in preparazione della Prima Comunione e Cresima quando avevo nove anni; di quel periodo ricordo solo la difficoltà incontrata ad ingoiare, durante le prove, l'ostia senza masticarla (guai a masticarla: era sacrilegio!) ed il fatto che sarei diventato "soldato di Cristo". Entrambe le cose mi sembravano insulse, ma visto che si dovevano fare e che sarebbero durate un breve periodo di tempo, accettai il fatto come se dovessi prendere una medicina dal cattivo sapore. Frequentai le scuole medie con interesse, ma con due dispiaceri: lo studio del latino che mi era cordialmente antipatico e la professoressa di inglese che non mi sopportava: il sentimento era, per altro, reciproco. Andai al liceo scientifico con un'idea ben precisa: frequentare l'università e studiare ingegneria. Mi accaddero però due cose: la prima cotta e la morte di mio padre, entrambe, sia pure con diverso peso, devastanti. Al mio primo contatto con il mondo femminile (la classe del liceo era di tipo misto) rimasi fortemente disturbato: la mia vita sostanzialmente da recluso mi aveva lasciato indifeso di fronte a rapporti che non fossero di tipo strettamente familiare. Era come una ubriacatura costante e l'effetto fu un innamoramento fulmineo per la più bella della classe; la quale, vuoi per la mia totale inesperienza, vuoi per il mio comportamento da bambino troppo cresciuto, non solo mi rise in faccia, ma chiamò i compagni a farle da coro. E' difficile descrivere la mia reazione, o meglio, bastava guardare la pagella: fui rimandato a settembre in inglese e mi dovetti considerare fortunato. Durante l'estate mio padre, che era andato in pensione a febbraio, non riuscendo più a stare con le mani in mano, decise di verniciare porte e finestre in casa. Mio padre era un uomo robusto, abbastanza alto e con peso sicuramente sopra i novanta chili. Una mattina, mentre era sulla scala, un gradino cedette di schianto e cadde a terra rompendosi il femore e, cosa che sapemmo più tardi, spappolandosi la milza. Momenti frenetici, ambulanza, ricovero, turni al suo capezzale; e una notte, praticamente allo scadere della mezzanotte, mentre ero solo con lui in ospedale e cercavo di dagli da bere, mio padre è morto tra le mie braccia. Avevo quindici anni e mi sentii immensamente solo e rifiutato. Ancora oggi, se una persona manifesta interesse per me o è semplicemente cortese nei miei confronti, mi sembra impossibile che possa accadere: ad altri si, a me no. Questo sentimento condizionerà la mia vita e mi farà commettere grandi errori. La morte di mio padre metterà in risalto un grosso problema: l'incapacità di mia madre a gestire una famiglia. Mia sorella era sposata da alcuni anni ed aveva un figlio; mio fratello era avviato su quella strada; in casa, in pratica, rimanevo solo io e ben presto dovetti rimboccarmi le maniche e cercare di aggiustare le cose: la mia adolescenza era finita ancor prima di nascere. Niente più cotte, tanto pensavo che non erano per me; dovevo studiare per trovare al più presto un lavoro. Pensai anche di non andare più all'università, ma qui mi venne in aiuto mio cognato (che non ringrazierò mai abbastanza) e, magari facendo qualche lavoretto, percorsi anche quella strada laureandomi in Chimica Industriale in cinque anni tondi tondi. Nel frattempo, dopo la morte di mio padre, era iniziato per me un periodo di grandi domande; la prima era: cosa ci sto a fare al mondo? La madre di tutte le domande. Non ne parlavo in casa, forse avevo paura di essere preso in giro. Non ne parlavo con i compagni di liceo, neanche con quello con cui andavo particolarmente d'accordo. Al liceo vi era un insegnante di religione intelligente e sensibile; a questa domanda rispose in modo da incuriosirmi: guardati intorno, il cielo, il sole, gli amici, la tua voglia di vivere saranno ben finalizzati a qualcosa. Finalizzati si, ma da chi? Ecco il primo passo: spostai la ricerca da "cosa ci sto a fare" a "chi mi ci ha messo". Passo non semplice, che implicava lo spostamento dei miei interessi da me stesso, al rapporto con un altro, chiunque esso fosse. Incominciai a frequentare la Chiesa più per cercare risposte che per fede, anzi, la frequentai solo perché era l'unico "ente" nei dintorni di casa che parlasse di "quell'altro", anche se in modo non ben definito. Anzi, se devo essere onesto, tutto mi sembrava posticcio, o meglio, campato per aria. E poi era la negazione della vita: se questo "qualcuno" mi aveva messo sulla terra per vivere, non poteva continuamente negarmi di farlo, chiedermi sempre di restituirgli quello che mi aveva dato. Oppure questo qualcuno era stato tanto incapace da aver sbagliato tutto e cercava di rimediarvi? Eravamo nel '60; durante la celebrazione della messa il Vangelo era letto in latino. La "predica" quasi mai riguardava il vangelo ed era sempre un invito alla mortificazione, un'esaltazione della sofferenza, in poche parole, una negazione della vita. Per un ragazzo di diciassette anni quelle parole erano più un invito alla fuga che un avvicinarsi alla fede: era questo il motivo per cui sono nato? Follia! Forse aveva ragione mio padre, i preti raccontano sempre frottole. Mi venne allora l'idea di andare all'origine di tutto e di acquistare un vangelo in italiano, ma questo cozzava contro la difficoltà di reperire un testo che non fosse un riassunto oppure un testo di origine protestante. In quegli anni era di moda una specie di somma dei quattro Vangeli parzialmente romanzata; i fedeli cattolici erano evidentemente giudicati non degni di conoscere il testo originale delle parole di Gesù. Allora non conoscevo ancora la bolla papale con la quale Pio IV, nel 1580, vietava la lettura delle Sacre Scritture ai laici(1). La cosa si trascinò senza grandi novità fino al 1962; avevo diciannove anni e quel genio di Giovanni XXIII incaricò le Edizioni S. Paolo di stampare la Bibbia in italiano: fu un vero best – seller e la comprai anch'io insieme a molti dei miei compagni. Ebbi il coraggio di leggerla tutta; coraggio perché dell'Antico Testamento non capii nulla; c'era qualcosa che non quadrava: come potevano esserci due creazioni dell'uomo differenti come descrizione e modalità, oppure due edizioni dei dieci comandamenti con sostanziali differenze? E queste erano solo le prime due difficoltà che avevo incontrato! Al contrario i Vangeli furono una scoperta meravigliosa, in particolare quelli di Giovanni e di Luca; l'inno all'amore di Dio per l'uomo proclamato da Giovanni, e l'esaltazione della sua misericordia dipinta da Luca mi aprirono gli occhi. Fu in quel momento che compresi come la sequela di Cristo consisteva nell'accettare la vita con tutta la sua umanità, la sua fisicità e la gioia che da questo derivava. La vita sulla terra assumeva un senso se aveva come scopo l'amore in tutte le sue accezioni. Da questi primi passi iniziò l'analisi dei Vangeli che mi portò, lentamente e con grandi difficoltà, negli anni della maturità, a scoprire la sostanza del messaggio di Cristo ed è questa scoperta che voglio condividere con voi.

Spiritualità e mortificazione Parto da qui perché il tema della spiritualità e della mortificazione hanno viaggiato sempre a braccetto nella nostra povera Chiesa cattolica. Questi temi, inoltre, sono quelli che, da ragazzo, mi hanno fatto comprendere che esisteva qualcosa di travisato in tutto quello che si predicava. Un qualcosa che andava contro l'uomo e non per l'uomo. Il nome spiritualità, a causa delle tradizioni nefaste che abbiamo avuto in eredità dal passato richiama qualcosa di contrapposto alla carnalità, alla fisicità umana. Una persona spirituale diviene così una persona disincarnata, entrando necessariamente in conflitto con la felicità umana, in quanto la felicità umana può essere raggiunta solo dalla persona nella sua interezza, spirito e corpo; altrimenti non avrebbe senso la risurrezione della carne, non avrebbe senso nemmeno la risurrezione di Cristo. La spiritualità risulta quindi contro natura perché la natura dell'uomo è desiderare la pienezza della felicità. Per essere persone spirituali, secondo la tradizione, bisognerebbe rinnegare una parte importante, essenziale della propria vita che è quella dei sensi, del piacere, della sessualità: basta pensare alla morale cattolica che è estremamente rigorosa sulla sfera della sessualità sulla quale, però, Gesù, nei vangeli, non ha mai detto una parola. Gesù, invece, si è scagliato, e con una durezza verbale che non ha paragoni, sulla sete del potere, degli onori, del denaro. Questi sono gli aspetti sui quali Gesù si è battuto in maniera violenta e che spesso vengono, secondo me colpevolmente, taciuti. La spiritualità, in passato, era diventata un lusso per pochi eletti, i così detti "perfetti", dei quali si diceva che avevano scelto la parte migliore, staccandosi così completamente dai vangeli. Ringraziando Dio, che penso fatichi sette camicie a raddrizzare la strada che noi ci intestardiamo a percorrere, c'è sempre stato nella vita della Chiesa un filone di persone che hanno accettato il Vangelo come base della loro vita. Prendiamo ad esempio due personaggi che hanno influito profondamente, uno nel bene e l'altro nel male, nella spiritualità cristiana: uno si chiamava Giovanni, era un uomo di Assisi che, quando ha incontrato il Vangelo, se ne è innamorato al punto da trasformare la sua esistenza e ha fatto della sua vita veramente un canto di lode del Signore. L'altro si chiamava Lotario dei Segni, era un conte, una persona funerea, forse psichicamente disturbata, che purtroppo ha scritto un libro che è divenuto un best-seller per secoli e secoli, devastando la vita dei credenti. Il Vangelo lo avevano tutti due, uno l'aveva accettato, l'altro se ne era allontanato. Uno è diventato santo (quello che era innamorato del vangelo) con il nome di Francesco, l'altro è diventato papa, papa Lotario(2). Entrambi avevano il Vangelo: Francesco vedeva il mondo con gli occhi di Gesù ed era portato ad amare; l'altro scrisse un libro allucinato "Il disprezzo del mondo" di cui riporto soltanto alcune righe tanto per avere l'idea del suo pensiero: "… l'uomo viene concepito dal sangue putrefatto per l'ardore della libidine e si può dire che già stanno accanto al suo cadavere i vermi funesti; da vivo generò lombrichi e pidocchi, da morto generò vermi e mosche. Da vivo ha creato sterco e vomito, da morto produrrà putredine e fetore, da vivo ha ingrassato un unico uomo, da morto ingrasserà numerosissimi vermi … felici quelli che muoiono prima di nascere e che prima di conoscere la vita hanno provato la morte. Mentre viviamo, continuamente moriamo e finiremo di essere morti allorquando finiremo di vivere perché la vita mortale altro non è che una morte vivente". Questo libro determinò la spiritualità cristiana per secoli. Tutto il contrario di Francesco che, uomo solare, uomo innamorato del vangelo, chiama fratello anche il fuoco del chirurgo che con un ferro rovente cercava di cicatrizzargli le palpebre (lui soffriva di malattie agli occhi) ed è arrivato a chiamare sorella perfino la morte. Non ho il coraggio di scusare gli errori del passato dicendo: ma erano figli del tempo. Il vangelo è identico, i risultati sono opposti: Lotario comandò la crociata per andare ad uccidere gli infedeli, Francesco andò a parlare al sultano per portare anche a lui la buona notizia. I danni prodotti da questo tipo letteratura (quello riportato è solo un esempio della produzione di quei secoli(3) sono stati incalcolabili perché hanno spinto la teologia ad occuparsi più della sofferenza che della gioia, più della mortificazione che del piacere, più del pianto che del riso. E la felicità dov'è? La felicità è nell'aldilà: la predicazione della Chiesa insegnava che più si soffriva di qua, più si era felici nell'aldilà, perché la felicità non è di questo mondo. Possibile che nessuno si era accorto che con Gesù la spiritualità era radicalmente cambiata? Gesù travolge la spiritualità ebraica passando dalla spiritualità del dolore alla spiritualità della gioia come si dimostra facilmente mettendo a confronto la massima espressione della fede nell'Antico Testamento, cioè Giovanni il Battista, e Gesù. Gesù dice di Giovanni il Battista: è il più grande dei nati tra figli di donna(4); Giovanni, quando appare, annunzia un battesimo di penitenza, cioè un cambiamento radicale nella persona, che è finalizzata alla richiesta di perdono dell'offesa fatta a Dio. L'azione di Giovanni Battista è tutta rivolta verso Dio. Dopo Giovanni appare Gesù; nei Vangeli vengono date due definizioni di Gesù che non si contraddicono, ma si completano a vicenda: Gesù è il figlio di Dio e Gesù è il figlio dell'uomo. Il prologo nel Vangelo di Giovanni contiene, proprio sul finire, una affermazione che deve essere stata sconcertante per i lettori di allora (oggi pochi lettori la notano): Dio nessuno l'ha mai visto, solo il figlio unigenito ne è la spiegazione(5). L'affermazione di Giovanni sembra assolutamente inesatta: la Bibbia, parola di Dio, afferma che Mosè e almeno altri settanta anziani hanno visto Dio. Ma l'evangelista dice che Dio nessuno l'ha mai visto perché tutte le rivelazioni dell'Antico Testamento sono nulla, al confronto del volto di Dio che Gesù ha mostrato. Giovanni, affermando in maniera perentoria che Dio nessuno lo ha mai visto e solo Gesù ne è la rivelazione, sta dando una indicazione fondamentale: non è Gesù che è uguale a Dio, ma Dio è uguale a Gesù. Questo è il vero punto di partenza per la spiritualità cristiana: l'affermazione che Gesù è uguale a Dio comporta che ho già una idea di chi è Dio, derivata dalla tradizione religiosa, dalle devozioni o da altro, altrimenti il paragone non sarebbe possibile. Ma se invece affermo che Dio è uguale a Gesù devo accantonare tutto quello che credo di sapere di Dio e devo concentrare la mia attenzione soltanto su Gesù, su quello che ha fatto e su quello che ha detto. Solo così si può capire chi è Dio; più avanti, sempre nello stesso Vangelo uno dei discepoli, Filippo, gli chiederà: "Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre»" ( 6). Per far comprendere l'azione di Dio, Gesù fa questa affermazione: se non credete, credetelo se non altro per le opere che io faccio(7). Se leggiamo i Vangeli vediamo che le opere di Dio sono tutte a favore del bene dell'uomo. Quando Gesù nella sua esistenza si è trovato in conflitto tra la dottrina e il bene dell'uomo, tra la legge e l'amore dell'uomo, Gesù non ha avuto nessuna esitazione: Gesù si è sempre posto a fianco del bene dell'uomo; Cristo applica sempre la Torà, la Legge(8), filtrandola attraverso il criterio dell'effetto che essa può avere sull'uomo. Prendiamo, a questo proposito, il caso dell'uomo dalla mano inaridita: Entrò di nuovo nella sinagoga. C'era un uomo che aveva una mano inaridita, e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato per poi accusarlo. Egli disse all'uomo che aveva la mano inaridita: «Mettiti nel mezzo!». Poi domandò loro: «È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?». Ma essi tacevano. E guardandoli tutt'intorno con indignazione, rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell'uomo: «Stendi la mano!». La stese e la sua mano fu risanata. E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire(9). Questa è la seconda volta che, nel Vangelo di Marco, Gesù entra in una sinagoga. Ci aspetteremmo di vedere gente che prega, che è intenta al culto. Invece, l'unico personaggio che l'evangelista mette in evidenza è un uomo dal braccio paralizzato; il fatto che, nell'originale greco, alla parola "braccio" ci sia l'articolo significa che è il braccio destro, quindi quello che rappresenta l'azione(10). L'evangelista vuole che il lettore si renda conto che il frutto dell'adesione agli insegnamenti impartiti nella sinagoga è un uomo che, avendo il braccio destro che compie il lavoro non utilizzabile, è un uomo senza vita, un uomo che non può lavorare. Esso è il simbolo di tutti gli uomini che Cristo è venuto a liberare(11). "… e lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato per poi accusarlo …" Gli ebrei, che amavano la casistica, si erano chiesti qual era il comandamento più importante e avevano concluso che il comandamento più importante era quello che anche Dio osservava; infatti, il sabato, al termine della creazione, Dio si è riposato. Sulla base di questo avevano quindi stabilito che l'osservanza di questo comandamento racchiudeva l'osservanza di tutta la legge e che una trasgressione volontaria di questo comandamento comportava la pena di morte. Gesù, sistematicamente, tutti i sabati, trasgredisce la legge. In effetti non c'era bisogno, poteva guarire anche in un altro giorno; ma lui, sistematicamente, la trasgredisce per far vedere la falsità di una legge contrabbandata in nome di Dio. Di sabato non solo era proibito curare gli ammalati, ma anche visitarli. Afferma il Talmud(12): "Se di sabato ti si spezza un braccio o una gamba, ti è proibito metterla sotto l'acqua fredda". In nome di Dio si lascia l'uomo nel dolore. Rivediamo la scena: nella sinagoga vi è quindi questo paralitico; Gesù entra nella sinagoga e, lungo i muri dove si trovano i sedili, ci sono altri che stanno ben attenti per vedere se Gesù guarisce quest'uomo. L'oggetto di questa attenzione non è quello, per noi naturale, di ringraziare il Signore per l'azione compiuta da Gesù, è invece, dice il Vangelo, "per denunciarlo". A queste persone non interessa il bene dell'uomo: interessa che la legge non venga trasgredita; che poi l'uomo soffra ha poca importanza: sofferenza più, sofferenza meno, acquisterà più meriti di fronte a Dio. Qui c'è un conflitto tremendo tra il bene di Dio e il bene dell'uomo. Ma, come vedremo, è un conflitto soltanto apparente, un conflitto che ha creato l'uomo. Gesù dice all'uomo dal braccio inaridito: "Mettiti in mezzo". Questo è un atto importantissimo; spesso, leggendo i Vangeli, noi occidentali, noi uomini del 2000 non siamo in grado di cogliere quei particolari che l'evangelista pone per rendere comprensibile il significato di quello che scrive; erano cose di comprensione immediata nel suo tempo, ma a noi, oggi, possono sfuggire. "In mezzo alla sinagoga" era il luogo dove era posizionato un palo o un treppiede cui venivano appesi i rotoli della Torah. Intorno ai libri sacri che stavano in mezzo vi erano i fedeli in adorazione. Potremmo fare un paragone con il tabernacolo delle nostre chiese, anche se il paragone è improprio. Gesù mette in mezzo l'uomo paralizzato, al posto della Legge: nella vita del cristiano, il primo posto lo deve occupare sempre l'uomo a cui volere bene. E' un atto fondamentale che dovrebbe guidare tutta la nostra vita. Poi Gesù dice a quelli che lo circondano: "È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o toglierla?". I presenti tacciono, non si espongono. Di fronte a questa domanda io stesso mi sarei messo sotto un mattone: che atto di accusa! Ai presenti non interessa nulla la salute di quest'uomo: a loro interessa trovare un motivo per accusare Gesù, perché l'insegnamento di Gesù sta facendo saltare tutta la struttura della religione ebraica, tutto il prestigio degli scribi, dei farisei, dei sacerdoti, insomma della gente che conta. Capite perché hanno dovuto ucciderlo? "E guardandoli tutt'intorno con indignazione...": è la prima e forse unica volta in cui Gesù si mostra adirato, ma ne aveva tutte le ragioni! Andare contro il bene dell'uomo è l'unico vero peccato che il credente può compiere, tutto il resto è roba da poco(13). Gesù li guarda con ira e "… rattristato per la durezza dei loro cuori, disse a quell'uomo: «Stendi la mano!». La stese e la sua mano fu risanata.". Un uomo è stato riportato alla vita. La reazione dei presenti è tutta improntata alla valutazione delle conseguenze di quel gesto sui loro interessi, altro che ringraziare Dio: "E i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire". Gesù è pericoloso sia per l'istituzione religiosa rappresentata dai farisei che per l'istituzione civile rappresentata dal partito di Erode. Gesù è riuscito a mettere d'accordo due categorie che si guardavano in cagnesco e, per dirla con parole di oggi, è riuscito a mettere destra e sinistra d'accordo. Si odiavano, perché i farisei erano persone dalla vita integerrima e denunciavano gli erodiani dalla vita immorale, mentre gli erodiani vivevano senza far caso alla legge e non potevano vedere questi bigotti che mettevano loro sempre i bastoni tra le ruote: ma appena vedono che c'è un nemico comune, ecco che si mettono assieme per eliminarlo. In questo episodio cosa dobbiamo vedere, qualcosa da collocare solo in quel particolare momento storico, o un insegnamento che è valido pure per noi oggi? L'insegnamento è questo: non è la legge il criterio che ci dice se siamo o no in comunione con Dio, ma è il bene che si fa all'uomo. Gesù mette un uomo in mezzo alla sinagoga dove c'era la legge. Il criterio di scelta tra il bene e il male non viene dato da un codice esterno all'uomo, ma è dall'uomo stesso! Questa centralità dell'uomo sarà causa della condanna a morte di Gesù. C'è un altro aspetto che vorrei esaminare: da ragazzo ho vaghi ricordi dei così detti "fioretti", delle rinunce a cui si era chiamati per acquisire meriti. Da adulti la cosa diviene ancora più impegnativa e si parla di penitenza, mortificazione, croci da portare. La domanda che sorge è: è Dio, o meglio, è Cristo che chiede queste mortificazioni? Se leggo i Vangeli, la risposta sembra più sul no che sul si. Leggiamo questi tre brani: Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati(14). Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». Gesù li udì e disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori». Allora gli si accostarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché, mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano?». E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno(15). Gesù disse loro: «Dategli voi stessi da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C'erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai discepoli: «Fateli sedere per gruppi di cinquanta». Così fecero e li invitarono a sedersi tutti quanti. Allora egli prese i cinque pani e i due pesci e, levati gli occhi al cielo, li benedisse, li spezzò e li diede ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono e si saziarono e delle parti loro avanzate furono portate via dodici ceste(16). Annoto di seguito i punti fondamentali dei questi tre brani: "Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena". "Misericordia io voglio e non sacrificio". "Tutti mangiarono e si saziarono". Può sembrare strano a chi non è abituato alla esegesi, cioè alla interpretazione dei Vangeli, ma tutti e tre i brani letti vogliono dire la stessa cosa: la sequela di Cristo è gioia, sazietà e amore reciproco. Nella nostra tradizione l'idea di Dio e della sua volontà raramente o, meglio, quasi mai viene associata all'idea di felicità. Se pensate a Dio, la vostra formazione, i vostri ricordi fanno si che è più facile associarlo alla sofferenza che alla felicità; al dolore che alla gioia. Questo sorge dal fatto che ci è stato presentato un Dio che proibisce di cogliere il bello della vita e obbliga a tutto quello che è penoso. Dice il Concilio Vaticano II che l'esistenza di un numero sempre crescente di atei o di indifferenti è responsabilità dei cristiani che hanno presentato sempre un Dio che non esiste, un Dio che punisce e minaccia, un Dio che pretende(17). A un Dio così io non crederei mai. Il messaggio di Gesù riportato dai Vangeli dimostra che l'uomo è chiamato ad essere pienamente felice qui, in questa esistenza terrena, oltre che nell'al di là. Dio vuole che l'uomo si felice: "Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena". La sofferenza, il dolore non è e non sarà mai un valore né tanto meno un merito; durante i nostri momenti bui, durante le disgrazie che ci colpiscono, Cristo non si mette a contabilizzare i nostri meriti, lamento dopo lamento; al contrario Cristo soffre con noi, è sottobraccio a noi, ci accarezza, ci abbraccia, piange con noi, ci porta in braccio verso la luce della fine della sofferenza e io questo lo posso dire per esperienza personale. E allora, come mai esiste il dolore? Paolo nella lettera ai Romani (8,19 – 23) afferma: "...La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo..." Paolo dice, quindi, che il male, la sofferenza, è propria di un mondo in cui la creazione non è ancora completata; a questa carenza di creazione noi tutti siamo chiamati a porre rimedio decidendo, finalmente e definitivamente, di divenire figli di Dio, collaboratori di Cristo nel completamento della creazione. Dio ci ama e non vuole mai che noi soffriamo, meno che mai accetta che noi ci procuriamo da soli la sofferenza anche se pensiamo che sia a fin di bene: "...Misericordia io voglio, non sacrificio...". Durante la sua predicazione Cristo ha aspramente combattuto contro la pratica del digiuno rituale, sia osteggiando i farisei che la praticavano, sia dimostrando per due volte(18), di fronte a migliaia di persone, che la condivisione e la sazietà sono la base della vita del discepolo: "Tutti mangiarono e si saziarono". Il messaggio del regno di Dio portato da Cristo comporta come momento essenziale la "sazietà" nel suo senso completo, cioè come realizzazione piena di tutte le aspirazioni, gli aneliti, le potenzialità, gli ideali, le utopie dell'essere umano. Sazietà a tutti i livelli, materiali e spirituali; nell'alimentazione, nel vestiario, nell'abitazione, nell'affettività; nell'educazione, nella letteratura, nell'arte, nella scienza che è una scintilla della sapienza di Dio sulla terra. Ma la sazietà non è un momento di compiacimento individuale; la sazietà ha la sua sorgente nella condivisione dei beni e ha come conseguenza e fine un'ulteriore condivisione e così all'infinito in un perpetuarsi di amore. Con un colpo di spugna Cristo cancella la legge che lui chiama "...tradizioni di uomini..." (19)e la sostituisce con il comandamento nuovo "...che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati...". Per questo Paolo, nella lettera a Galati (3,13) afferma: "...Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge...". Tutto questo scaturisce dalla lettura dei Vangeli e degli Atti degli Apostoli; sopratutto in questi ultimi si vede come la gioia, la condivisione e la sazietà erano il fondamento della vita delle prime comunità cristiane. Non tutti gli apostoli accettarono totalmente questa visione di vita così in contrasto con la tradizione ebraica; il primo tra questi è Pietro, fortemente radicato nella concezione farisaica della purità e del digiuno rituale. Per convincere, o meglio per convertire, Pietro sarà necessario l'intervento diretto di Dio Padre(20) che con un perentorio: "...Alzati, Pietro, uccidi e mangia!..." ripetuto tre volte, farà comprendere a Pietro l'inutilità della tradizione giudaica. Gesù ha proposto una relazione con Dio completamente diversa. Essa consiste non più nell'offrire qualcosa a Dio, nel fare le cose per Dio, non più l'uomo servo del Signore, ("...non vi chiamo più servi... ma amici..." Gv 15,15), ma con Gesù inizia l'epoca in cui l'uomo accoglie ciò che Dio fa per lui. Ecco perché Gesù rifiuta il sacrificio, il digiuno, la mortificazione, perché fanno parte di una vecchia e inutile concezione del rapporto con Dio che lui ha superato e ha trasformato. Non più Dio al traguardo dell'esistenza dell'individuo, ma un Dio che è all'inizio dell'esistenza dell'individuo, è lui che prende l'iniziativa di amare l'individuo e non chiede nulla in cambio. L'offerta gratuita di Cristo sulla croce ne è la dimostrazione e la conferma. Con Gesù, ed è stata questa la grande novità che è stata chiamata buona notizia, l'evangelo, con Gesù l'amore di Dio non va più meritato per gli sforzi delle persone, ma va accolto per la grande generosità del Padre(21). Questo era la convinzione dei credenti nei primi secoli, ed è questo che ha permesso al cristianesimo, in pochissimi anni, in un mondo senza radio, senza televisione, senza telefono e con una posta efficiente ma militare e quindi preclusa alla maggioranza del popolo, di diffondersi rapidamente in tutto il mondo allora conosciuto, dall'Armenia ad est fino alla Spagna a ovest; dall'Etiopia a sud fino all'Irlanda a nord. L'abbandono di questi concetti fondamentali è alla base delle crisi di fede che si sono abbattute nella Chiesa compresa quella a cui stiamo assistendo. Come si è verificato questo abbandono? Perché la tradizione cristiana parla di mortificazione, di digiuno, di astinenza? Quale è stato il meccanismo che ha così macroscopicamente modificato il messaggio di Cristo? La tendenza a mantenere le tradizioni giudaiche è cosa antica e contro la quale ha sempre combattuto Paolo durante i suoi quasi trent'anni di predicazione; quasi tutte le chiese primitive erano tentate da questo ritorno all'antico. Lo stesso Paolo, ai Colossesi (2, 16- 23), si vede costretto ad affermare: "...Nessuno dunque vi condanni più in fatto di cibo o di bevanda, o riguardo a feste, a noviluni e a sabati: tutte cose queste che sono ombra delle future; ma la realtà invece è Cristo! Nessuno v'impedisca di conseguire il premio, compiacendosi in pratiche di poco conto e nella venerazione degli angeli (oggi diremmo dei santi), seguendo le proprie pretese visioni, gonfio di vano orgoglio nella sua mente carnale, senza essere stretto invece al capo, dal quale tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo di giunture e legami, realizzando così la crescita secondo il volere di Dio. Se pertanto siete morti con Cristo agli elementi del mondo (oggi diremmo: se rifiutate il paganesimo economico imperante), perché lasciarvi imporre, come se viveste ancora nel mondo, dei precetti quali «Non prendere, non gustare, non toccare»? Tutte cose destinate a scomparire con l'uso: sono infatti prescrizioni e insegnamenti di uomini! Queste cose hanno una parvenza di sapienza, con la loro affettata religiosità e umiltà e austerità riguardo al corpo, ma in realtà non servono che per soddisfare la carne..." "Carne": ovvero i nostri legami con l'egoismo umano nella sua massima espressione. Paolo non sembra avere ricevuto influenza dalla filosofia greca pagana (lo gnosticismo, lo stoicismo e il neoplatonismo in particolare) influenze che hanno avuto sulla teologia cristiana dal secondo secolo in poi specialmente in Alessandria d'Egitto, zona stranamente ignorata dalla predicazione di Paolo e, forse, anche dagli altri apostoli. Eppure è proprio Alessandria, con la sua forza culturale ed economica, ad influenzare il mondo latino al punto che proprio da qui, agli albori del V secolo, parte quella spinta che ha portato a trasformare il periodo di gioia e di festa che precedeva il battesimo dei catecumeni alla Veglia pasquale, nella Quaresima, periodo di penitenza, astinenza e digiuno. Ci hanno messo poco meno di due secoli a distruggere la gioia. A tutto questo si sono aggiunti gli errori di traduzione della Bibbia da parte di S. Girolamo (al posto di "convertitevi" tradusse "fate penitenza") e le influenze della mitologia tedesca portata da Carlo Magno. Il risultato di tutto questo lo cominciarono a vedere i papi intorno all' XI secolo con le chiese che si vuotano e con il popolo che si crea riti propri, lontani dalla liturgia ufficiale: i mortuori, i presepi, il culto popolare della madonna (che poco o nulla aveva ed ha a che fare con Maria, Madre di Dio). Il Concilio Vaticano II ha posto le premesse per un ritorno alla chiesa di Paolo, di Giovanni, di Pietro, ad un rinnovamento che, sostanzialmente, è un ritorno all'antico, ad una visione autentica di Cristo, priva delle pesanti incrostazioni che lo ricoprivano fino ad allora. Questo ha consentito, per esempio, di vedere la Quaresima, sostanzialmente, come un periodo di revisione di vita, più vicino al pensiero di Cristo e più consono all'attesa della risurrezione. Si può concludere che chi fa "offerta" a Dio è più vicino alle concezioni giudaiche e del paganesimo greco che al pensiero di Cristo. La vera offerta gradita a Cristo è la misericordia, l'agape, cioè l'amore incondizionato verso gli altri fratelli, in particolare coloro che hanno bisogno della nostra attenzione, e la misericordia è indipendente dal sesso, dallo stato civile, dal colore della pelle, dalla religione professata, dal censo e, soprattutto, da presunti "meriti". E' la misericordia, non l'offerta, il carattere distintivo dei seguaci di Cristo. Gesù non ripete l'imperativo dell'Antico Testamento "siate santi come io sono santo". Nei vangeli non c'è l'invito di Gesù alla santità; Gesù invece dice: siate compassionevoli o meglio misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso. Dio è amore, la misericordia è l'espressione tangibile di questo amore. Ecco allora perché per Gesù l'amore non può essere formulato attraverso le leggi, l'amore può essere comunicato soltanto attraverso a dei gesti che lo esprimano. Non esiste amore se non è accompagnato da un gesto che lo esprime, un amore soltanto teorico, non è amore. L'amore quando è reale deve essere accompagnato da gesti di servizio.

Note 1."… per esperienza è risultato chiaro che se la Sacra Bibbia è permessa senza discriminazione in lingua volgare, ne deriva maggior male che bene a causa della fragilità umana …". 2. Eletto al soglio pontificio nel 1198 con il nome di Innocenzo III, muore nel 1216. Nel Il disprezzo del mondo (De contemptu mundi) grava un senso di angoscia e di disperazione, appena attenuata dalla speranza nella salvezza eterna; il libro che conobbe un immenso successo fino al XVII secolo, quando Pascal ne riprese la tematica in modo del tutto nuovo. Nel descrivere la miserabile condizione dell'uomo, corrotto dal peccato fin dal momento della nascita, il linguaggio di Lotario assume toni di allucinato e violento realismo che a tratti fanno pensare a un Góngora o a un John Donne. Ci si può chiedere allora se il futuro organizzatore della crociata contro gli Albigesi non condividesse in qualche misura, nel suo intimo, la pessimistica visione catara di un creato in balia del Principe delle tenebre. Tale visione, ha marcato l'Occidente cristiano finendo per generare un'idea dualistica per cui spirito e corpo sono contrapposti come il bene al male e il corpo coinciderebbe con il male stesso. Visione sicuramente non cristiana. Tutto ciò è profondamente distante dalla luminosa visione testimoniata nella maggioranza degli scritti patristici. Il pensiero di Lotario ha dunque contribuito a distanziare l'Occidente dalla serena prospettiva della Chiesa antica e dall'Oriente cristiano che la incarna, al quale si attribuisce ancor oggi un "eccessivo ottimismo antropologico". 3. Un altro libro devastante che ha influito per secoli si chiamava "L'imitazione di Cristo" di cui non si conosce l'autore, anche se può essere posizionato in un ambiente monastico tra il XIII ed il XIV secolo. Anche questo è stato un libro devastante e pessimista. Soltanto una immagine: "la mattina fa conto di non arrivare alla sera e quando poi si farà sera, non osare sperare nel domani, sii dunque sempre pronto". 4. Mt 11,11 5. Gv 1, 18 6. Gv 14, 8-91 7. Gv 10, 37 8. Vedere soprattutto il Libro del Deuteronomio 9. Mc 3, 1-6 10. Questi particolari non meraviglino: essi sono ricavati dalla conoscenza che oggi si ha della tecnica di scrittura in essere nel primo secolo dopo Cristo, dalle usanze ebraiche del tempo e dalla lettura del Talmud. 11. La parola "inaridita" mal si adatterebbe ad una mano paralizzata, ma è usata dall'evangelista per fare riferimento al passo di Ez 37,1-14 nel quale le ossa inaridite sono quelle del popolo di Israele distrutto dai suoi stessi governanti. Da qui l'interpretazione che l'uomo paralizzato rappresenti tutti gli uomini oppressi dalla Legge. 12. Gli Ebrei credevano che quando Mosè salì sul monte Sinai, Dio gli avesse consegnato due leggi: una scritta nelle tavole e una, l'interpretazione di questa legge, spiegata a voce. Questa spiegazione a voce, che nei tempi si era arricchita, più o meno all'epoca di Gesù, venne messa per iscritto. Questo è il Talmud; contiene una serie di insegnamenti, di decreti, di dibattiti dei Rabbini sull'applicazione della legge di Mosè e sono una miniera fondamentale per le nostre traduzioni. Purtroppo, e questo fu un danno enorme, la Chiesa condannò il Talmud come opera demoniaca e per secoli; l'ultimo rogo è stato verso la fine del 1600 in Polonia. Quando si trovavano i Talmud venivano bruciati nella piazza della cattedrale perché si riteneva che erano un'opera satanica. Oggi non c'è nessun studioso serio che possa fare a meno del Talmud. 13. Vedere il giudizio finale secondo Matteo 25, 31-46. 14. Gv 15, 9 – 12 15. Mt 9, 10 – 15 16. Lc 9, 13 – 17 17. Vedi Gaudium e Spes n. 19. 18. Vedere, in merito, la moltiplicazione dei pani Mc 6,42; Mt 14,20 e15,37; Lc 9,17 19. Mc 7, 8 – 13 20. Att 10,13 21. Lc 15, 11-32