III Domenica di Quaresima – Lc 13,1-9
In quello stesso tempo si
presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato
aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola,
Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i
Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite,
perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò
la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli
abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete
tutti allo stesso modo».
Diceva anche questa parabola: «Un
tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi
frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che
vengo a cercare frutti su quest'albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque!
Perché deve sfruttare il terreno?». Ma quello gli rispose: «Padrone, lascialo
ancora quest'anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime.
Vedremo se porterà frutti per l'avvenire; se no, lo taglierai»».
Questo brano(1) si colloca nella sezione del vangelo di Luca che
riguarda il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (Lc 9,51–19,27), nella quale sono raccolti numerosi detti di Gesù
riguardanti la realizzazione del regno. Esso si situa al termine della prima
parte di questa sezione (Lc 9,51–13,21),
dove si trovano i detti riguardanti soprattutto la risposta che Dio si attende
da Israele nel momento in cui sta per realizzarsi il suo regno.
Il brano liturgico si divide in due parti: il primo è un invito alla
conversione (vv. 1-5); il secondo riporta la parabola del fico sterile (vv.
6-9). Per la prima di queste due parti Luca si serve di materiale proprio,
mentre per la seconda si ispira a un brano di Marco.
Quando
ci si appresta a leggere questo brano, come pure ampie parti del precedente
cap. 12, è indispensabile avere delle specifiche conoscenze che ci corazzino
contro le interpretazioni tradizionali tutte tese a sottolineare il castigo di
Dio di fronte alla mancanza della conversione; infatti il brano trova posto nella
liturgia della Quaresima.
Se
noi però esaminiamo la teologia che impregna tutto il vangelo di Luca,
scopriamo che essa è impegnata soprattutto a sottolineare la misericordia di
Dio e non la sua volontà punitiva; basta pensare a questo proposito alla
parabola del Figliol prodigo che è la netta ed indiscussa negazione della
volontà punitiva di Dio. E allora? Luca era forse uno schizzofrenico che un
giorno diceva una cosa e il giorno dopo cambiava parere? Non credo proprio; è
assai più probabile che l’interpretazione tradizionale sia sbagliata come del
resto in altre parti di questo e degli altri vangeli. La domanda è perché
questo è potuto succedere.
I vangeli sono stati scritti in greco(2),
però dal quarto secolo in poi il greco, nella nostra area occidentale, non
veniva più parlato né compreso e si provvide a tradurre il testo in latino.
La trasposizione dal greco al latino non può
rendere certe sfumature, certe ricchezze e soprattutto, una traduzione non è mai
esente da errori(3); per questo, da quando Il Concilio Vaticano II
ha invitato alla lettura dei vangeli anche i laici, si susseguono le traduzioni
che, con continui aggiustamenti, cercano di rendere al meglio il vero
significato dei vangeli(4). A tutto questo è indispensabile
aggiungere che la Chiesa dei primi secoli (ma la cosa si è in parte prolungata
almeno fino al 1960), ha rifiutato di utilizzare testi ebraici del I e II secolo
per apprendere le tradizioni, il pensiero e i modi di dire giudaici appartenenti
a quel periodo, il che ha portato a macroscopici errori nell’interpretazione
del pensiero di Cristo, errori che ancora oggi non sono stati corretti del
tutto.
Uno dei danni più tremendi, ed ora che siamo
in Quaresima è un bene dirlo, li ha portati un errore di traduzione del perentorio
invito di Gesù “Se non vi convertite non entrate nel regno(5) di
Dio”.
Per conversione si intende orientare
diversamente la propria esistenza, cioè se fino ad adesso hai vissuto per te, d’ora
in avanti vivi per gli altri. L’invito di Gesù venne tradotto e interpretato
con “Se non fate penitenza”.
Da questo errore grossolano deriva tutta la
storia della spiritualità cristiana fatta di persone penitenti, perché
pensavano che non bastava accettare le sofferenze inevitabili che la vita
presenta ma bisognava procurarsene altre per far contento Dio: qualcosa di
atroce, di insultante, di blasfemo nei confronti di Dio!
Leggiamo certe vite di santi, poveretti,
vittime di questa credenza, che si infliggevano delle penitenze per essere
accettati da Dio. Oggi un padre che fosse contento nel vedere il figlio che si
infligge delle sofferenze per farlo felice, sarebbe una persona alla quale verrebbe
tolta immediatamente la patria potestà. Eppure Dio era considerato così.
Quindi si credeva che Dio volesse una vita di
penitenza.
La parola penitenza è assente dal messaggio
di Gesù, mai Gesù invita a fare penitenza, mai Gesù invita a mortificarsi, non
invita nemmeno a fare digiuno e astinenza. L’unica volta che il verbo
mortificare è presente nel NT, è nel capitolo 3 della lettera di Paolo ai
colossesi, dove Paolo dice “mortificate”, cioè fate morte, nei confronti degli atteggiamenti
negativi per sé e per gli altri, come l’egoismo, l’avarizia, la cattiveria, ma
non vi private delle cose belle della vita, non rinunciate alle cose piacevoli.
Purtroppo questa spiritualità ha fatto sì che
il nome Dio fosse associato al dolore, alla sofferenza, alla tristezza ma mai
al piacere. Il piacere era (ed è ancora oggi) una parola quasi al limite del
peccato.
Se a certi teologi togliete il dolore e la
sofferenza rimangono disoccupati, non sanno più di cosa parlare di Dio, ma Dio
è gioia, allegria, piacere: impariamo a credere a Gesù che, riprendendo quella
che era già la spiritualità espressa dal profeta Osea (Os 6,6), per ben due volte nel vangelo di Matteo annuncia “Imparate cosa significa: misericordia voglio
e non sacrifici”(Mt 9,13.12,7).
La
nostra vita di credenti è basata sul messaggio di Gesù, ma se questo messaggio
è tradotto male e interpretato peggio, la nostra vita ne ha seri danni.
Vediamo
ora cosa dice il brano.
“In quello stesso tempo si presentarono alcuni a
riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere
insieme a quello dei loro sacrifici.”
Questo eccidio non è noto da altre fonti storiche, ma è certamente verosimile
nel clima surriscaldato della Giudea del primo secolo: infatti Giuseppe Flavio(6)
parla di un massacro di samaritani compiuto nel 35 d.C. da soldati romani sul
monte Garizim in occasione di un sacrificio.
E’ probabile che Luca si riferisca a una repressione avvenuta nel tempio,
mentre si sacrificavano gli agnelli per la celebrazione pasquale. La strage
assumeva una particolare gravità per il fatto che era stata compiuta nel luogo
sacro, durante un rito liturgico.
Secondo la mentalità in essere allora, Dio era responsabile di tutto ciò
che capitava in questo mondo: perciò era spontaneo pensare che era lui a
volere, o per lo meno a permettere, tutto il male commesso dagli uomini,
presentando le sue conseguenze come una punizione per i loro peccati. Questa
concezione nel vangelo di Giovanni è smentita da una espressa dichiarazione di
Gesù(7) (cfr. Gv 9,3).
Presupponendo questa credenza, la risposta di Gesù diviene così
comprensibile: “Prendendo la parola, Gesù disse
loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per
aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti
allo stesso modo…”
Secondo Luca, nella sua risposta Gesù non dà alcun giudizio su quanto è
accaduto. Dalle sue parole sembra unicamente trasparire la credenza popolare
secondo la quale le disgrazie sono punizioni di Dio per i peccati di coloro che
ne sono colpiti. Gesù non lo dice espressamente, come fanno invece gli amici di
Giobbe (Gb 2.3) e diversi testi
biblici, ma neppure lo nega. Egli si limita a precisare che essi non erano più
peccatori di tutti gli altri.
Stupisce la totale insensibilità di Gesù nei confronti dei galilei uccisi
da Pilato: egli non prende posizione né a loro favore, né contro di loro. La
loro vicenda serve solo da ammonizione(8), mentre le loro scelte
personali sono passate sotto silenzio: essi sono considerati in partenza come
peccatori e non si pone neppure l’ipotesi che siano morti per qualcuno di quei
valori per cui Gesù ha combattuto ed è morto (cfr. Lc 4,18-19). Ma questa stilizzazione è dovuta alla tradizione
giudaica nella quale si inserisce, e non dice nulla dei veri sentimenti di
Gesù.
“…O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre
di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti
di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo
stesso modo».
Questo fatto, anch’esso non riportato da altre fonti storiche, dà
l’impressione di essere accaduto da poco tempo: per la mentalità del tempo si
trattava pure qui di una punizione divina. Anche in questo caso Gesù non
smentisce tale opinione, ma osserva che questi morti non erano più peccatori di
tutti gli altri: da qui ricava nuovamente un invito alla conversione. Se tali
sciagure sono capitate a persone non poi così fuori del normale, su tutti
incombe la possibilità di mancare l’ingresso nel regno, se non si convertono.
Il punto di vista rappresentato nei due detti lucani sembra essere, più
che un’idea di Gesù, la ripresa tardiva di una mentalità più arcaica. Le due
ammonizioni non insistono però sull’aspetto di punizione insito nei due gravi
avvenimenti, ma piuttosto sulla responsabilità del momento attuale. Dio offre a
tutti il suo amore, che può essere accolto convertendosi al vangelo oppure
rifiutato in piena libertà.
Nel contesto lucano del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, nelle due
disgrazie è visto forse un preannunzio della distruzione della città santa,
considerata da Israele come una punizione che ha attirato su di sé per aver
rifiutato il suo Messia. Ma più in profondità si tratta dell’indicazione della
mancata volontà di ingresso nel regno.
“Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato
un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò.”
Sia Marco che Matteo raccontano un gesto simbolico, la maledizione del
fico sterile, compiuto da Gesù dopo il suo ingresso messianico a Gerusalemme,
per indicare la sterilità religiosa degli israeliti, soprattutto dei sacerdoti
del tempio (cfr. Mt 21,18-19; Mc
11,12-14.20). Luca modifica questo episodio, mantenendone il significato.
Nei vigneti palestinesi venivano piantati anche alberi da frutto, tra i
quali il più comune era il fico. Spesso nell'AT il popolo d'Israele è
simboleggiato nella vigna (cfr. Is 5,1-2),
talvolta associata all'albero di fico (cfr. Os
9,10; Mi 7,1; Ger 8,13).
“Allora disse al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che
vengo a cercare frutti su quest'albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque!
Perché deve sfruttare il terreno?»”.
Il padrone si lamenta con il vignaiolo perché sono già tre anni che il
fico non porta frutto; i tre anni potrebbero alludere al periodo del ministero
di Gesù, il tempo concesso da Dio per la conversione di Israele: esso sta per
finire senza che ci sia stato un risultato significativo. Ma a questa
interpretazione si oppone il fatto che è Giovanni, e non i sinottici, a
informare che il ministero di Gesù è durato tre anni(9).
“Ma quello gli rispose: «Padrone,
lascialo ancora quest'anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il
concime. Vedremo se porterà frutti per l'avvenire; se no, lo taglierai»”.
Il vignaiolo reagisce con grande prudenza; alla richiesta del contadino
manca una risposta, ma si suppone che essa sia positiva, perché il suo
intervento è un semplice espediente per mettere in luce il progetto del
padrone: è Dio che, proprio perché è paziente, dà tempo all’albero affinché
produca frutti. Ma la conversione è più urgente che mai. È chiaro che la
parabola non si riferisce ai singoli individui ma a una collettività, cioè al
popolo ebraico, come avviene nel racconto affine della maledizione del fico in
Matteo e Marco. La sterilità del fico non simboleggia la mancanza da parte del
popolo ebraico di osservanze rituali o morali, ma il suo rifiuto di accogliere
il Messia inviato da Dio. In questo contesto la “conversione” richiesta non
consiste solo in un cambiamento di mentalità o di comportamento morale, ma anche
nella fede in colui che porta la salvezza a Israele e a tutta l’umanità: è la
sequela che determinerà una nuova prassi conforme alle esigenze del regno di
Dio, simboleggiata nei frutti dell’albero. Nella parabola lucana il rinvio
dell'abbattimento della pianta indica che c’è ancora tempo per la conversione:
affiora qui la nota concezione lucana secondo cui Gesù ritornerà di sicuro, ma
per il momento la sua venuta è stata rimandata per dare a tutti il tempo di
convertirsi.
Note: 1. L’esegesi che segue è stata liberamente tratta da un articolo
pubblicato da P. Alessandro Sacchi su Nicodemo.net. – 2. Esiste la probabilità,
non ancora la certezza, che i vangeli di Marco e di Matteo abbiano avuto una
prima versione in aramaico, poi scomparsa. Non tutti gli studiosi sono di
questo parere perché ritengono che con i costi che allora si dovevano sostenere
per scrivere un libro (la pergamena era carissima), è difficile pensare a
brogliacci poi tradotti: si scriveva direttamente in ”bella” e chi aveva
interesse per il libro se lo copiava a sue spese. Certamente il vangelo di Luca
è stato scritto direttamente in greco, come pure quello di Giovanni. – 3. I
problemi di errata interpretazione da parte della Chiesa orientale di lingua
greca (che leggeva i vangeli in lingua originale) sono decisamente inferiori
sia come numero che come importanza per la vita dei fedeli. Ad esempio nella
Chiesa orientale l’uomo non è considerato intrensicamente peccatore; per questo
la Chiesa
cattolica attribuisce ancor oggi alla Chiesa orientale un "eccessivo
ottimismo antropologico".
– 4. Non sempre le traduzioni sono state felici, ma bisogna
accontentarsi perché talvolta sul tecnico che traduce premono interessi diversi
e non tutti coerenti con le intenzioni di Gesù. – 5. Mi sembra opportuno
ricordare che il “regno” di cui parla Gesù non è l’aldilà, non è il paradiso.
E’ la comunità dei discepoli su questa terra che hanno come principio di vita
l’amore reciproco e verso gli altri, principio che garantisce loro la
risurrezione, cioè la continuazione della vita anche dopo la morte biologica. –
6. Giuseppe Flavio (Gerusalemme 37 d.C circa – Roma 100 d.C. circa) è stato uno
scrittore, storico, politico e militare romano di origine ebraica; scrisse le
sue opere in greco. – 7. Purtroppo, nonostante la smentita di Gesù, questa
mentalità è giunta, almeno in parte, fino a noi e ci perseguita ancora. – 8.
Accenno ad una mia opinione: il fatto che Luca non riporti alcuna negazione da
parte di Gesù in merito a quella tradizione inumana e blasfema, fa pensare che
Gesù approfitti della tradizione per calcare la mano sulla necessità della
conversione come strumento di ingresso nel regno, rinviando ad altro momento un
ragionamento di merito (cfr vangelo di Giovanni). – 9. Ed inoltre lo fa dieci,
o forse venti, anni dopo che i vangeli sinottici sono stati diffusi nelle
Chiese.