Esaltazione della Santa Croce – Gv 3,13-17
«Nessuno
è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio
dell’uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia
innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita
eterna.
Dio
infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque
crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio,
infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché
il mondo sia salvato per mezzo di lui».
Dopo le nozze di Cana (Gv 2,1-12) Gesù ritorna in Giudea e si
reca a Gerusalemme, in occasione della Pasqua. Lì ha luogo l’episodio della cosiddetta
purificazione del tempio (Gv 2,13-22).
Proprio a seguito di questo episodio Gesù riceve la visita di Nicodemo, un
fariseo, capo dei giudei e dottore della legge: il suo atteggiamento guardingo
(Giovanni scrive che il colloquio è avvenuto “di notte” intendendo lontano da
sguardi e orecchie indiscreti) tradisce il timore di critiche e ritorsioni da
parte degli altri giudei; successivamente però egli, come membro del Sinedrio,
avrà il coraggio di dire una parola in difesa di Gesù (cfr. Gv 7,50-52), e dopo la sua morte porterà
l’unguento per imbalsamare il suo corpo (cfr. Gv 19,39).
In lui sono rappresentati
gli strati più sinceri e disponibili del giudaismo, che si aprono alla
predicazione di Gesù e ricevono per primi il suo annunzio di salvezza. In
questo racconto si può leggere una trasposizione giovannea del brano in cui
Marco racconta l’episodio dell’uomo ricco che voleva ottenere la vita eterna,
ma non ha avuto il coraggio di lasciare tutto e seguire Gesù (cfr. Mc 10,17-22; Mt 19,16-30; Lc 18,18-23),
ma può essere anche interpretato come il tentativo di accordo tra due partiti
politici, quello nascente dei nazareni e quello dei farisei, in quel momento
provato e disunito dalle sconfitte subite da parte degli erodiani e dei
sadducei.
Il brano si divide in due
parti: dialogo con Nicodemo circa il battesimo (vv. 1-12) e monologo di Gesù
circa la missione del Figlio (vv. 13-21). La liturgia riprende solo il monologo
di Gesù a partire dal v. 13.
Nel monologo di Gesù sono
riprese e approfondite le idee emerse nella prima parte del colloquio.
Soprattutto viene sviluppato il tema della manifestazione di Dio nella persona
di Gesù. Secondo quanto detto precedentemente, Gesù è l’unico capace di parlare
delle cose del cielo. Su questa linea egli soggiunge: «Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è
disceso dal cielo». Questa affermazione presuppone l’incapacità da parte
dell’uomo di cogliere nella sua interezza il mistero di Dio (cfr. Pr 30,4). Ciò è possibile solo al
«Figlio dell’uomo». Che questi, diversamente da tutti gli altri uomini, sia
salito al cielo è dimostrato dal fatto che egli è disceso dal cielo, come
risulta da Dn 7,13. Identificandosi
con questo personaggio misterioso Gesù mette in luce il suo rapporto
specialissimo con Dio. Un pensiero analogo era già stato espresso
dall’evangelista al termine del prologo quando aveva affermato che solo il
Figlio unigenito ha potuto rivelare il Padre, perché è nel (verso il) suo seno,
cioè ha fin dall’inizio un rapporto unico con lui (cfr. Gv 1,18). A differenza di qualsiasi altro uomo egli conosce Dio ed
è dotato del potere di manifestarlo agli uomini.
Gesù approfondisce poi il
tema della manifestazione di Dio con queste parole: «E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia
innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita
eterna». Nel giudaismo il serpente di bronzo (cfr. Nm 21,4-9), era considerato il simbolo di quel Dio che aveva già
dato nella legge un pegno di salvezza (cfr. Sap
16,5-7). Il verbo «innalzare» viene applicato sia al serpente che al Figlio
dell’uomo; mentre però nel primo caso riguarda solo un moto locale, nel secondo
richiama il successo ottenuto dal servo di JHWH mediante la sua morte in croce
(cfr. Is 52.13: «Il mio servo... sarà
innalzato»), nonché la comparsa del Figlio dell’uomo davanti al trono di Dio
(cfr. Dn 7,13).
Per Giovanni l’innalzamento
di Gesù sulla croce fa di lui, ad analogia del serpente di bronzo, un segno di
salvezza, e al tempo stesso denota il suo successo come servo di JHWH e come
Figlio dell’uomo. Su questo sfondo la morte di Gesù in croce viene vista come
la sua massima esaltazione, perché è il momento in cui si attua il suo ritorno
al Padre, e al tempo stesso la riconciliazione dell’umanità con Dio.
Secondo lo stile giovanneo
la stessa idea viene ripresa, in modo parallelo, nel versetto successivo con
questa espressione: «Dio infatti ha tanto
amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui
non muoia, ma abbia la vita eterna». All’innalzamento del Figlio dell’uomo
corrisponde in questa frase l’amore di Dio che dà il suo Figlio unigenito; il
«mondo» indica l’umanità intera, non in senso negativo, ma in quanto bisognosa
di salvezza. Anche qui, come nel versetto precedente, lo scopo è il
conferimento della vita eterna. Il fatto che in questo contesto venga usato il
verbo «dare» (didômi) e non il più consueto «consegnare» (paradidômi),
collegato alla morte del servo di JHWH (Is
53,6 nei LXX), significa che l’evangelista non pensa semplicemente alla
morte di Gesù in croce, ma a tutta la sua vita di amore e di dedizione ai
fratelli. Alla croce, intesa come ritorno a Dio, corrisponde quindi
l’esperienza umana di Gesù, vista come dono che Dio ha fatto all’umanità per
dimostrarle il suo amore. Gesù dunque è «innalzato» perché Dio stesso lo aveva
«donato»: in questi due verbi è racchiuso tutto il mistero del Figlio
dell’uomo, su cui si basa quella fede da cui deriva la «vita eterna», cioè la
vita di comunione con Dio. In questo versetto l’attributo di «Figlio dell’uomo»
viene sostituito con quello di «Figlio unigenito» (cfr. Gv 1,18), più significativo per mettere in luce il rapporto
specialissimo che unisce Gesù a Dio.