1. Definizione del
Tempo Pasquale.
Si dà il nome di Tempo
Pasquale al periodo formato dalle settimane che decorrono dalla Domenica di
Pasqua al Sabato dopo la Pentecoste. Questa è certo la parte più sacra
dell'anno liturgico, considerando l'importanza della festa di Pasqua, chiamata
fin dagl'inizi del Cristianesimo la "Festa delle feste", la
"Solennità delle solennità”.
2. Data della festa di
Pasqua.
Nei Vangeli la
resurrezione di Cristo è scoperta il giorno successivo al sabato; la sua
commemorazione, quindi, non poteva aver luogo in un altro giorno della
settimana. Il legarsi ad un giorno della settimana e non ad una data ha
permesso di separare la Pasqua dei Cristiani da quella degli Ebrei, la quale,
fissata al quattordici del mese di Nissan (corrispondente, con qualche
approssimazione, al nostro 7 aprile) anniversario dell'uscita del popolo
dall'Egitto, cadeva ora in uno, ora in un altro dei giorni della settimana.
In considerazione del
gran numero di Ebrei che avevano ricevuto il Battesimo e che formavano da
principio il nucleo della Chiesa cristiana, per non urtare la loro
suscettibilità, fu pure presa la risoluzione che la regola relativa al giorno
della nuova Pasqua sarebbe stata applicata successivamente e con prudenza.
L’azione di Paolo, di
alcuni degli Apostoli e di discepoli che, per professione, avevano necessità di
viaggiare, portarono alla formazione di Chiese in regioni situate anche fuori
dei confini dell'Impero Romano, dove non sempre era necessario confrontarsi con
le consuetudini ebraiche. In queste Chiese fu stabilito molto presto che la
Pasqua venisse celebrata nel suo giorno naturale, la domenica.
Solo nell’Asia Minore
si rifiutò per molto tempo di uniformarsi a questo uso comune. San Giovanni
Apostolo, che, secondo la tradizione, visse a lungo ad Efeso e vi morì, aveva
creduto bene di non esigere dai numerosi Ebrei, che dalla Sinagoga erano
passati al Cristianesimo, la rinuncia alla legge giudaica per la celebrazione
della Pasqua, ed i fedeli che, convertiti dal paganesimo, vennero ad accrescere
il numero di quella cristianità così fiorente, si appassionarono fino
all'eccesso per quella tradizione, che si riallacciava all'origine delle Chiese
dell'Asia Minore. Ma con l'andare avanti degli anni una tale anomalia cominciò
a pesare nei rapporti con le altre Chiese; vi si sentiva come un'impronta di
giudaismo e l'unità del culto cristiano veniva a soffrirne.
La tradizione parla di
due vescovi di Roma, Aniceto nel 150 e Vittore nel 185, che tentarono per mezzo
di trattative amichevoli di condurre le Chiese dell'Asia Minore ad abbandonare
le tradizioni giudaiche, ma nulla si era potuto ottenere contro un pregiudizio
che si fondava su di una tradizione reputata sacra in quelle regioni. Vittore
credette di potervi riuscire meglio dei suoi predecessori suggerendo che si
tenessero concili nei vari paesi in cui il Vangelo era penetrato, e che vi
venisse esaminata la questione della Pasqua. Lo storico Eusebio, un secolo e
mezzo dopo, scriveva che ancora si conservava il ricordo delle decisioni prese
in proposito; il concilio di Efeso, presieduto da Policrate, vescovo di quella
città, fu il solo a resistere. Vittore, giudicando che questa opposizione non
poteva venire sopportata più oltre, emise una sentenza con la quale le Chiese
ribelli dell'Asia Minore venivano separate dalla comunione con la Chiesa
universale. Una condanna tanto severa, formulata suscitò la reazione di molti
vescovi. Ireneo, che reggeva allora la cattedra di Lione, intervenne in favore
di quelle Chiese, le quali, secondo lui, non erano colpevoli che di una
decisione poco illuminata. E ottenne la revoca di un provvedimento la cui
severità sembrava sproporzionata alla colpa. Questa revoca produsse il suo
effetto: durante il secolo seguente Anatolio, vescovo di Laodicea, nel suo
libro sulla Pasqua scritto nel 276, attesta che già da qualche tempo le Chiese
dell'Asia Minore avevano abbandonato le tradizioni ebraiche.
Per una strana
coincidenza, press'a poco nella stessa epoca, vi fu lo scandalo di una nuova
scissione circa la celebrazione della Pasqua, questa volta da parte delle
Chiese della Siria, della Cilicia e della Mesopotamia. Si videro infatti
abbandonare la consuetudine cristiana e apostolica, per riprendere quella, di
rito giudaico, del quattordici del mese di Nissan.
Questo scisma nella
liturgia afflisse la Chiesa; e uno dei primi intenti del Concilio di Nicea (nel
325) fu di promulgare l'obbligo universale di celebrare la Pasqua di domenica,
stabilendo che la solennità della Pasqua sarebbe stata celebrata nella domenica seguente il primo
plenilunio che viene dopo l'equinozio di
primavera. Il decreto fu approvato all'unanimità ed i Padri componenti
il Concilio ordinarono che "essendo stata superata ogni controversia, i
fratelli orientali solennizzerebbero la Pasqua nello stesso giorno dei Romani,
degli Alessandrini e di tutti gli altri fedeli".
Il Concilio di Nicea
decise pure che il vescovo di Alessandria era incaricato di far fare i calcoli
astronomici, necessari a determinarne ogni anno il giorno preciso.
Purtroppo l'imperfezione
dei mezzi astronomici condusse a confusione nel modo di calcolare il giorno
della Pasqua. È vero che ormai essa fu sempre solennizzata di domenica e che
nessuna Chiesa si permise più di celebrarla lo stesso giorno di quella degli
Ebrei, ma, essendovi vari pareri sull'epoca precisa dell'equinozio di
primavera, accadde che in alcuni anni la data della festa variò a seconda dei
luoghi. A poco a poco ci si allontanò dalla regola del Concilio di Nicea, che
stabiliva di considerare il 21 marzo come il giorno dell'equinozio. Occorreva
riformare il calendario e nessuno era in grado di farlo. I calendari si
moltiplicavano in contraddizione gli uni con gli altri, di modo che spesso Roma
ed Alessandria non riuscivano a mettersi d'accordo. Pur essendoci buona fede da
entrambe le parti, alcune volte la Pasqua venne così celebrata senza quella
simultaneità universale che il Concilio di Nicea aveva voluto instaurare.
L'Occidente si uniformò
all'uso di Roma, che finì per trionfare anche di alcune opposizioni sorte nella
Scozia e in Irlanda, le cui Chiese erano state sviate da cicli inesatti.
Finalmente i progressi della scienza permisero al Papa Gregorio XIII
d'intraprendere e di portare a termine la riforma del calendario. Si trattava
di ristabilire al 21 marzo l'equinozio di primavera, in conformità alla
decisione presa dal Concilio di Nicea. Il Pontefice per mezzo della bolla del
24 febbraio 1581, tolse dieci giorni all'anno seguente, dal 4 al 15 ottobre
completando così l'opera di Giulio Cesare, che al tempo suo aveva già rivolto
la sua attenzione ai calcoli astronomici.
L'adozione del
calendario gregoriano nel mondo fu tutt'altro che immediata; solo negli stati
italiani e in Portogallo venne adottato il 4 ottobre 1582; la Spagna lo fece il
15 ottobre 1582, la Francia il 10 dicembre 1583, la Baviera il 6 ottobre 1583,
l'Austria il 7 gennaio 1584. La Francia adottò poi il calendario della
Rivoluzione francese tra il 26 novembre 1793 e il 31 dicembre 1805; dal 1 gennaio
1806 tornò in vigore il gregoriano.
Gli stati protestanti
furono molto più lenti nell'accettare un calendario che veniva da Roma; la
Prussia il 22 agosto 1610, l'Inghilterra il 3 settembre 1752.
Gli stati
greco-ortodossi (Grecia, Russia, Serbia) mantennero il calendario giuliano fino
alla prima guerra mondiale e la chiesa greco-ortodossa usa ancora oggi il calendario
giuliano come calendario liturgico.
3. Il
Tempo pasquale
Il Tempo di Pasqua dura
cinquanta giorni, sette volte sette giorni, una settimana di settimane, con un
domani; e il numero sette è un'immagine della pienezza (si pensi al racconto
della creazione nel primo capitolo della Genesi), l'unità che si aggiunge a questa
pienezza moltiplicata apre su un aldilà. È così che il tempo di Pasqua, con la
gioia prolungata del trionfo pasquale, è divenuto per i padri della Chiesa
l'immagine dell'eternità e del raggiungimento del mistero del Cristo. Per
Tertulliano alla fine del secondo secolo, la cinquantina pasquale è il tempo
della grande allegrezza durante il quale si celebra la fase gloriosa del
mistero delle redenzione dopo la risurrezione del Cristo, fino all'effusione
dello Spirito sui discepoli e su tutta la Chiesa nata dalla Passione del
Cristo. Secondo sant'Ambrogio: "I nostri avi ci hanno insegnato a
celebrare i cinquanta giorni della Pentecoste come parte integrante della
Pasqua".
A ciò che un solo
giorno è troppo breve per celebrare, la Chiesa consacra cinquanta giorni, che
sono estensione della gioia pasquale; il digiuno è stato sempre bandito in
questo periodo, anche dai più austeri degli asceti. I cinquanta giorni sono
come una sola domenica.
Le domeniche successive alla
domenica di Pasqua tradizionalmente sono identificate da un nome latino che
corrisponde alla prima parola dell'introito
della messa. Esse sono:
- Domenica in Albis
- Misericordias Domini
- Jubilate (Domenica del Buon Pastore)
- Cantate
- Rogate (Vocem jocunditatis)
- Exaudi (domenica successiva alla festa dell'Ascenzione)
- Pentecoste
(segue la prossima domenica)