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Le esegesi riportate in questo blog non sono frutto delle mie capacità, in realtà molto modeste. Le ricavo leggendo diversi testi dei più importanti specialisti a livello mondiale, generalmente cattolici, ma non disdegno di verificare anche l’operato di esegeti protestanti, in particolare anglicani. Se si escludono alcuni miei approfondimenti specifici, per la parte tecnica dell’analisi critica il mio testo di riferimento è questo:

- Giovanni Leonardi
, Per saper fare esegesi nella Chiesa, 2007 Ed. Elledici (testo promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale). Questo testo è molto semplice, veramente alla portata di tutti; per migliorare la capacità di analisi deve essere affiancato da altri due testi per la parte linguistica, anch’essi a livello divulgativo:

- Filippo Serafini,
Corso di greco del nuovo testamento, 2003 Ed. San Paolo.
- Luciana Pepi, Filippo Serafini,
Corso di ebraico biblico, 2006 Ed. San Paolo (da usare solo nel caso si voglia approfondire l’etimologia semitica sottesa ai vocaboli greci).

I testi della Bibbia in lingua originale sono pubblicati da varie case editrici; in particolare per i Vangeli segnalo l'ottimo testo della Edizioni Enaudi e quello sinottico della Edizioni Messagero in quanto hanno i testi greco ed italiano a fronte. Si trovano anche in vari siti in rete, ma non sempre sono testi aggiornati con le ultime scoperte a livello archeologico o paleografico.
Per la parte sostanziale normalmente faccio riferimento a documenti prodotti dalle fonti seguenti, che riporto in ordine decrescente di frequenza di utilizzo:

- École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), retto dai Domenicani e dove ha lavorato anche il Card. Martini.
- Centro Studi Biblici “G. Vannucci” – Montefano (An), retto dall’Ordine dei Servi di Maria.
- Sito www.Nicodemo.net gestito da P. Alessandro Sacchi.
- Università degli studi di Torino – Corso di Letteratura cristiana antica – Prof.essa Clementina Mazzucco.
- Fr. Dante Androli, OSM, docente di esegesi alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum – Roma
- Università degli studi La Sapienza di Roma – Corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Prof.essa Emanuela Prinzivalli.
- Biblia, Associazione laica di cultura biblica – Settimello (Fi)


lunedì 14 marzo 2016

Domenica delle Palme



Domenica delle palme – Vangelo Lc 19,28-40
Passione Lc 22,14-23.56
(Si omette il testo della Passione data la sua lunghezza)
Dette queste cose, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme. Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: «Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. E se qualcuno vi domanda: «Perché lo slegate?», risponderete così: «Il Signore ne ha bisogno»». Gli inviati andarono e trovarono come aveva loro detto. Mentre slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché slegate il puledro?». Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno». Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada.
Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo:
«Benedetto colui che viene,
il re, nel nome del Signore.
Pace in cielo
e gloria nel più alto dei cieli!».
Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli». Ma egli rispose: «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre».

Per evitare lunghe ripetizioni, si invitano i lettori a consultare l’esegesi che riporta nella Domenica delle Palme-Anno B. In quella occasione è stata esaminato il brano Mt 21,1-11 del tutto simile a quello di Marco ed a quello di Luca.


Analisi delle cause e delle conseguenze della condanna e della morte di Gesù.

Il verbo obbedire(1), o il termine obbedienza, non ha diritto di cittadinanza nei Vangeli. In effetti il verbo obbedire nei Vangeli è citato 5 volte, ma sempre riferito a elementi contrari all’uomo: il vento, il mare, gli spiriti impuri.
Gesù non ha mai chiesto ai suoi discepoli di obbedirgli, come mai Gesù ha chiesto ai discepoli di obbedire a Dio. L’obbedienza non fa parte del lessico evangelico, ma al posto dell’obbedienza Gesù inaugura la somiglianza: nel Vangelo troviamo sempre l’invito “siate come il Padre vostro”.
Nell’ebraismo il credente è colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi. Nel cristianesimo il credente in Gesù non è spinto a obbedire a nessuno, neanche a Dio, perché Dio non chiede obbedienza, ma chiede di assomigliargli.
Per togliere ogni dubbio, partiamo dalla lettera di Paolo ai Filippesi; vi si legge quest’espressione:
Fil 2,8: umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.
Paolo vuol dire che Gesù, pur essendo nella condizione di uno che, legittimamente, può far valere la sua natura di Figlio di Dio, per essere solidale con tutti gli uomini e per essere “fedele” (questa è la traduzione corretta in luogo di obbedire, come si vedrà più avanti) al messaggio del Padre, ha scelto di stare dalla parte degli ultimi, fino all’estrema miseria, all’infamia della morte di croce, che era il patibolo riservato alla feccia della società.
Il verbo che è tradotto in italiano con “ubbidire”, nella lingua greca significa: “rispondere ad un qualcosa che si ascolta”.
Per esempio, negli Atti degli apostoli, quando Pietro bussò in casa di Maria, una serva di nome Rode si avvicinò per “sentire” chi era che bussava: il verbo è tradotto nelle nostre Bibbie con “sentire”, ed è lo stesso verbo che nella lettera ai Filippesi è stato reso con ubbidire. La frase “essere ubbidiente fino alla morte”, dovrebbe essere preferibilmente tradotta con “per essere fedele (per avere risposto al Padre), fino alla morte”.
Ricordo che, fino a pochi decenni fa, la morte in croce di Gesù era presentata come il supremo atto di obbedienza di Gesù al Padre. Dio era presentato come una persona adirata per i peccati compiuti dagli uomini che richiedeva, per perdonarli, il sangue di una vittima, suo figlio.
Il Padre era quindi presentato come sede di sentimenti prettamente umani: l’ira, l’offesa, il desiderio di vendetta, il piacere di vedere soffrire un uomo per appagare il proprio sentimento di rivalsa.
Sentite cosa ne pensava un predicatore del 1600:
«In effetti, non appartiene che a Dio di vendicare le ingiurie: fin tanto che la sua mano non si coinvolge, i peccati non sono puniti che debolmente: a lui solo ap­partiene di far giustizia, come si conviene, ai peccatori; lui solo ha il braccio abba­stanza potente per trattarli secondo il loro merito. A me, a me la vendetta: sì io so ben render loro il dovuto: Mihi vindicta et ego retribuarrì (Rm 12,19). Era necessa­rio, dunque, fratelli miei, che Egli stesso venisse con tutti i suoi fulmini contro il suo Figlio; e poiché Egli aveva messo in Lui i nostri peccati, egli doveva porvi an­che la sua giusta vendetta. L'ha fatto, cristiani, non dubitiamone. Per questo il pro­feta ci insegna che, non contento di averlo consegnato alla volontà dei suoi nemici, lui stesso, volendo fare la sua parte, l’ha colpito e lacerato con i colpi della sua mano potente: Et Dominus voluit conterere eum in infirmitate (Is 53,10). L'ha fatto, dice, l'ha voluto fare, voluit conterere: con un disegno premeditato. Giudicate, si­gnori, fin dove arriva il supplizio; né gli uomini né gli angeli lo possono concepi­re» (J. BOSSUET, Per il Venerdì Santo. 26 marzo 1660, Oeuvres oratoires, T. 3, 385).
Scritti similari se ne possono trovare in ogni epoca.
Ammettiamo che il desiderio di vendetta di Dio fosse vero e che abbia obbligato Gesù ad accettare la sua morte nella mostruosa sofferenza della croce; questo fatto sarebbe in netto contrasto con la figura di Dio amore, di quel Dio che Gesù in tutta la sua predicazione ha presentato come talmente innamorato dell’uomo da perdonarlo ancor prima che lui lo chieda. Se il Padre ha chiesto a Gesù di obbedire e lasciarsi uccidere, tutti i Vangeli sono un falso, un enorme ammasso di menzogne.
Ciò nonostante bisogna convenire che quanto sopra detto(2) “…esprime bene l'immaginario dei credenti e il modo di pen­sare ancor oggi il senso della morte di Gesù, come un atto dell'ira vendicativa di Dio che vuoi riparare la sua giustizia offesa dal peccato. Gesù, allora, diven­ta il sostituto o il sacrificio espiatorio dell'ira di Dio che noi ci siamo meritati. Egli si assoggetta spontaneamente a portare la pena per riparare la giustizia di­vina, perché noi siamo risparmiati, a motivo della comune partecipazione alla umana natura, dalla misericordia del medesimo Dio. Così in Dio la giustizia e la misericordia sono egualmente soddisfatte …”.
Ma anche esaminata da questo punto di vista, rimane la visione di un Dio sanguinario, più un dio pagano, che il Dio di Gesù.
Chiariamo immediatamente una cosa: Gesù è stato ucciso perché il gruppo dirigente dello stato ebraico di allora ha ritenuto indispensabile eliminarlo per conservare il proprio potere(4) e i propri introiti economici. La morte di Gesù non era nelle intenzioni originarie di Dio anche se è stata, come vedremo, una scelta cosciente di Gesù.
L’azione di Gesù, durante gli ultimi tre anni della sua vita, è stata caratterizzata da un ripetuto scontro con le autorità religioso-politiche ebraiche(4). Con i suoi atti ha ripetutamente messo in discussione tutto l’insieme dei precetti rituali che erano la base della vita, religiosa e civile, della società israelita. Ha soprattutto liberato i credenti dall’obbligo della mediazione sacerdotale; Cristo ha indicato come al credente è possibile rivolgersi al Padre senza l’intermediazione del Tempio e quindi dei sacerdoti.
Per comprendere la gravità di questo messaggio occorre comprendere com'era l'istituzione religiosa giudaica, che si basava tutta sul concetto di un Dio che continuamente chiedeva, un Dio mai sazio. Naturalmente, le offerte non andavano a Dio, ma andavano a riempire la tasca e la pancia dei sacerdoti.
Le persone per essere gradite a Dio dovevano, tre volte all'anno, fare un pellegrinaggio a Gerusalemme, portare in offerta alimenti, specialmente offerte di bestiame; con il tempo questo era diventato un grande affare commerciale.
Pensate, a titolo di esempio, ad un abitante di Nazareth che doveva andare a Gerusalemme: data la distanza non si portava dietro l'agnello o la capra da sacrificare al Tempio, ma lo comperava a Gerusalemme.
L'appalto per la vendita degli animali per i sacrifici, che tra l’altro dovevano essere degli animali perfetti, secondo quanto indicato dalla Legge, l'aveva la famiglia del sommo sacerdote. L'uomo arrivava, comperava l'animale sul monte degli Ulivi, dove c'era un accampamento col bestiame da vendere, lo portava al Tempio dove veniva sacrificato; con questo atto la persona riceveva, o almeno credeva di ricevere, il perdono delle sue colpe, dei suoi peccati(5).
Nel sacrificio normale si donava a Dio il sangue e gli organi interni della vittima che venivano bruciati sull’altare. La parte rimanente dell'animale veniva spartito fra i sacerdoti. Siccome c'era un esubero di produzione, la carne che avanzava veniva venduta nelle macellerie di Gerusalemme, tutte appartenenti alla famiglia del sommo sacerdote. Perciò, il poveretto che andava al pellegrinaggio si trovava a pagare praticamente tre volte lo stesso agnello se voleva poi mangiare.
Proviamo ad immaginare la ripercussione nel Tempio della novità assoluta di un Dio che non chiede più sacrifici. È il crollo dell'istituzione, è il crollo dell'economia di Gerusalemme. Ecco perché, all'inizio del Vangelo di Matteo, quando viene dato l'annuncio della nascita di Gesù si legge che tutta Gerusalemme tremò (Mt2,3). Perché se veramente Dio non sta più nel Tempio, se Dio non chiede più sacrifici, crolla tutta l'istituzione, crolla tutto quanto.
A questa spina nel fianco della classe dirigente ebraica, si deve aggiungere l’invito di Gesù, rivolto al popolo, a ragionare con la propria testa, cosa mai gradita da qualsiasi governo(6).
Il Sinedrio(7) aveva condannato Gesù molto tempo prima di catturarlo, come si legge sul Talmud(8), e per quaranta giorni il banditore aveva percorso le strade di Gerusalemme annunciando la sua condanna. Gesù sapeva sicuramente di questa condanna, ma non fugge, anzi, compie un atto clamoroso: fa il suo ingresso in Gerusalemme tra due ali di folla esultante. Perché? Per capirlo andiamo a leggere il Vangelo di Giovanni (12,20-36):
Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli chiesero: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose: «È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna.
Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà. Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!».
La folla che era presente e aveva udito diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Rispose Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me». Questo diceva per indicare di qual morte doveva morire. Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?». Gesù allora disse loro: «Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce».
Gesù disse queste cose, poi se ne andò e si nascose da loro.
Gesù è solo; è al termine della sua predicazione, della sua vita in mezzo alle folle e si rende conto della sua sconfitta: tutta la sua opera non è servita a nulla. Gli unici che lo seguono, che vogliono conoscerlo, sono greci. Il suo popolo, Israele, non solo non lo vuole seguire, ma nemmeno ascoltare(9) da quando si è accorto che Gesù non vuole riconquistare il regno di Israele, ma vuole insegnare loro a vivere senza la Legge, accogliendo l’amore di Dio.
Gesù è un fallito, le sue parole si disperdono al vento; in quel momento comprende che esiste una sola cosa che convincerà i suoi compatrioti della verità racchiusa nelle sue parole, se egli accetterà di morire a causa delle sue parole.
Finora era fuggito “per paura dei Giudei”, si era rifugiato prima in Galilea, poi nel territorio di Tiro e Sidone, ed infine dai  samaritani. Ora non più, ora entrerà in Gerusalemme sfidando il Sinedrio che lo ha condannato: “È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto ….Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”.
E’ il momento della grande decisione, del suo atto di coraggio; ricorda le parole del profeta Zaccaria (Zac9,9) e vi si adegua (Mt11,1-10):
“Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Betfage, verso il monte degli ulivi, disse ai suoi discepoli: andate nel villaggio davanti a voi e subito troverete un’asina legata e con essa un puledro: scioglieteli e conduceteli a me …”
Qui si vede più chiaro che mai che il Vangelo non è cronaca ma teologia, cioè non riguarda la storia ma la fede. L’evangelista ci sta dando dei precisi segnali: andate nel villaggio… Quando nei vangeli troviamo l’espressione il villaggio con l’articolo determinativo ma senza il nome del villaggio indica che la situazione è di incomprensione del messaggio di Gesù. Il villaggio è il simbolo della tradizione, il villaggio è nemico delle novità, è il luogo dove il nuovo viene visto con sospetto, perché vige l’imperativo: Si è sempre fatto così, perché cambiare?
L’evangelista ha, inoltre, una ricchezza di particolari riguardo all’asina e al puledro; in questo caso si rifà al libro della Genesi quando Giacobbe benedice i dodici figli, i Patriarchi, i capostipiti delle 12 tribù di Israele, e parlando del più importante, Giuda, che era rappresentato dall’immagine del leone, si dice: “la benedizione non sarà tolta dallo scettro di Giuda né dal bastone di comando dei suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e al quale è dovuta l’obbedienza dei popoli. Egli lega alla vite il suo asinello e alla stessa vite il figlio della sua asina (Gn49,10-11)”.
L’evangelista ci sta dicendo che è Gesù il proprietario di questa asina e del suo asinello e  questo atto è in riferimento alla profezia della benedizione di Giacobbe: è giunto il proprietario dell’asina, è giunto colui che aveva lo scettro del popolo di Israele. L’invito a sciogliere le due bestie significa che si realizza questa profezia.
“E se qualcuno vi dirà poi qualcosa rispondete: il Signore ne ha bisogno ma lo rimanderà subito”.
E’ la prima volta che Gesù riferisce a se stesso il titolo di Signore, Adonai, che era un modo di appellare Dio. Gesù rivendica per sé il nome di Dio, colui che libera il suo popolo. L’evangelista vede in questo gesto la conferma di una profezia che era stata censurata dalla tradizione religiosa, perché era una profezia che non era accettata dai teologi dell’epoca in quanto parlava di benedizione e non di vendetta.
“Questo avvenne perché si adempisse la parola del profeta; dite alla figlia di Sion: ecco il tuo re viene a te, mite, seduto su un’asina con un puledro, figlio di giumenta”.
L’evangelista qui riprende liberamente la profezia di Zaccaria, modificando gli aspetti di questa profezia, che non sono confacenti alla figura di Gesù. Nella profezia si diceva: esulta grandemente figlia di Sion… l’evangelista scrive semplicemente: dite alla figlia di Sion… La figlia di Sion è Gerusalemme e non deve esultare. Gerusalemme, nel Vangelo di Matteo, fin dall’inizio appare sotto una luce tetra, sinistra.
L’evangelista toglie il termine esulta perché Gerusalemme ha poco da esultare. Toglie anche il termine vittorioso perché Gesù non è vittorioso. Quello che invece prende da Zaccaria è: ecco a te viene il re seduto su un’asina. Gesù ha scelto per entrare a Gerusalemme non la cavalcatura regale che era la mula o quella dei principi e condottieri che era il destriero, il cavallo, ma la cavalcatura normale delle persone comuni. Non è entrato in modo eclatante, ma su un’asina con un puledro. Un’immagine di una dolcezza e mitezza straordinarie: un’asina che ha appena partorito il suo puledro.
Gesù con questo gesto vuole sciogliere questa profezia di un messia che non viene con le armi ma portando pace, che non viene come conquistatore, ma come un’offerta di vita.
“I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù. Condussero l’asina e il puledro e misero su di essi i mantelli. E Gesù si sedette sopra. Ma la folla numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada”.
Qui c’è tutta una serie di azioni simboliche che vanno comprese riferendoci alla cultura dell’epoca. Il fatto di condurre significa che sono d’accordo con Gesù: hanno accettato che Gesù sia il Messia di pace e non il messia violento e conquistatore: l’espressione di adesione è l’aver messo sugli animali i mantelli. Il mantello è la parte esterna dell’abbigliamento della persona e indicava l’individuo stesso.
Quindi Gesù entra in Gerusalemme nella maniera più semplice, con dei discepoli che hanno accolto questa sua modalità.
Ma la reazione della gente non è dello stesso tipo.
La folla vuole un Messia violento al quale è pronta a sottomettersi. Per questo prendono i mantelli e li mettono sulla strada. Porre il mantello, che indica la persona stessa, sulla strada e farlo calpestare dal re e dal suo cavallo significava accettare di essere sottomessi dal re. Era un atto tipico dell’intronizzazione di un nuovo re.
Il popolo non vuole la libertà. Il popolo vuole essere dominato, sottomesso, in cambio della sicurezza. Mentre i discepoli hanno capito, la folla stende i mantelli sulla strada “… mentre altri tagliavano i rami degli alberi e li stendevano sulla strada”.
La tradizione diceva che il Messia, che nessuno conosceva, si sarebbe rivelato durante una festa talmente importante che non aveva bisogno di essere nominata, la festa delle Capanne.
La festa si svolgeva tra settembre e ottobre. Tutti gli ebrei erano invitati a dimorare per una settimana sotto delle frasche, in ricordo della liberazione dall’Egitto quando il popolo dimorò per 40 anni sotto le tende. La folla è questo che vuole. Si sottomette a lui dimostrando l’attaccamento ad un Messia potente, accettando il dominio sulle proprie vite; vogliono che Gesù si manifesti come il Messia delle Capanne. Ecco il perché del taglio delle frasche.
Gesù, così, viene preso in ostaggio. Non è Gesù che determina il cammino; infatti: “E le folle che lo precedevano e quelle che lo seguivano gridavano: Osanna al Figlio di Davide. Benedetto colui che viene nel nome del Signore, osanna nel più alto dei cieli”.
Gesù è incastrato, è in mezzo: un gruppo davanti determina la strada che deve percorrere e un altro dietro lo segue in modo che Gesù non abbia altra scelta. Ecco l’equivoco che costerà caro a Gesù, o forse era proprio quello che voleva.
Cantano a Gesù, per il quale ormai le ore sono contate, il salmo 118, il salmo che si cantava per la festa delle Capanne. Usano l’espressione ebraica Oshannà (forza salvaci) ma verso chi la usano?... Verso il Figlio di Davide(10).
Le folle che hanno catturato Gesù lo acclamano dicendo: salvaci, Figlio di Davide. E’ questo che la gente vuole: un messia condottiero che attraverso la violenza e la spietatezza, conquisti il potere.
“Entrato lui in Gerusalemme, tutta la città fu scossa dicendo: chi è costui?” Il verbo adoperato dall’evangelista è lo stesso da cui deriva la parola scisma, terremoto. Quando Gesù entra in Gerusalemme, la città è terremotata.
Notate il disprezzo e la paura. Gli abitanti di Gerusalemme non vanno incontro a Gesù: subiscono questo ingresso del Messia figlio di Davide portato dalla folla. E la città viene terremotata perché sa che la fine del suo predominio, del suo privilegio è vicina. Gerusalemme in questo Vangelo viene sempre presentata in una luce sinistra.
La stella dei magi non brillerà mai sulla città di Gerusalemme. Gesù risuscitato, in questo Vangelo, non apparirà mai a Gerusalemme. Gerusalemme è una città di morte ed è incompatibile con la vita. Bisogna uscire da Gerusalemme se si vuole fare esperienza del Cristo Risorto.
“E le folle dicevano: questo è il profeta, Gesù quello da Nazaret in Galilea”. A quel tempo dire Galileo, non indicava solo un luogo di provenienza, ma Galileo era sinonimo di rivoluzionario, testa calda.
Giuseppe Flavio, uno storico dell’epoca dice che i Galilei sono bellicosi fin da piccoli. C’è stato un precedente che lo conferma, quello di Giuda, il Galileo, creduto il Messia. E’ questo quello che si attendono, ma Gesù scombina i piani di questa folla e l’azione che compie pregiudica la sua esistenza. Loro attendono il Messia, figlio di Davide, il Messia del Tempio, il proclamatore, il vincitore, ma hanno sbagliato persona.
Proprio a causa di questo errore tutte le folle che hanno accolto Gesù al grido Osanna al Figlio di Davide saranno le stesse che nel giro di poco tempo grideranno crocifiggilo, crocifiggilo. Hanno sbagliato persona: un messia portatore di pace non è quello che volevano e quindi dall’esaltazione passano all’odio.
Questo ingresso che, volutamente o no, ha messo Gesù alla ribalta, è in pratica una tentazione per il Sinedrio: sono qui, venite a prendermi. La folla osannante che lo chiama Figlio di Davide è un ottima scusa per accusarlo di fronte ai romani di voler sovvertire la signoria di Cesare per farsi re; scusa indispensabile perché i romani non avrebbero mai eseguito una condanna a morte per accuse di tipo religioso o per atti in contrasto con la Torà.
Il problema, per il Sinedrio, era la cattura: in prossimità della Pasqua vi erano in Gerusalemme decine di migliaia di pellegrini, molti dei quali Galilei, con i quali non si poteva scherzare. I Galilei erano teste calde, quasi tutti armati e quasi tutti appartenenti al movimento degli zeloti, pronti a difendere un loro concittadino dalle malsane idee dei fratelli della tribù di Giuda.
I Galilei, durante la Pasqua, vivevano quasi tutti nelle grotte esistenti lungo le pendici del Monte degli Ulivi, dove, molto probabilmente, anche Gesù e i Dodici avevano affittato una grotta per dormire. Queste grotte sono ancor oggi visibili e visitabili da chi si reca in Terra Santa.
In queste condizioni le guardie del Tempio non avrebbero potuto andare di grotta in grotta a chiedere di Gesù senza rischiare di essere come minimo picchiati se non di lasciarci la pelle; qui si innesta la vicenda di Giuda che offre ai sacerdoti la possibilità di indicare a colpo sicuro Gesù alle guardie che venivano ad arrestarlo.
Quello di Giuda fu un tradimento? Secondo il Vangelo di Giovanni fu tradimento causato dall’ingordigia verso il denaro; Giovanni tratta Giuda con un’acredine che fa pensare ad una vecchia ruggine tra i due.
Oggi si pensa che Giuda fosse profondamente deluso del comportamento di Gesù: Giuda, infatti, era uno zelota (iscariota = portatore di pugnale) e si era unito al gruppo pensando, come molti dei dodici del resto, ad una rivoluzione contro i romani guidata da Gesù(11). Vedendo che Gesù non prendeva l’iniziativa, ne ha voluto provocare la reazione ponendolo di fronte al fatto compiuto: o reagisci, o sei arrestato; del resto il luogo dove doveva avvenire la consegna di Gesù avrebbe fornito facilmente le truppe per una rapida reazione all’arresto. Sarebbe bastato un grido di aiuto di Gesù e i galilei presenti avrebbero facilmente avuto ragione delle guardie del Tempio che, per disposizione romana, non potevano essere armate che di bastoni.
A questo punto si innesta il concetto che Gesù aveva della violenza. Gesù non avrebbe mai alzato il pugnale contro un qualsiasi essere umano, né avrebbe consentito che fosse fatto da altri. Gesù avrebbe sempre seguito la volontà del Padre di amare tutti, indistintamente; una volta deciso di non fuggire più, non esisteva altra alternativa che non passasse per la violenza, se non la sua consegna spontanea senza spargimento di sangue. Solo questo poteva permettergli di fare “la volontà del Padre”. 
Nei Vangeli risulta chiaro questo atteggiamento di Cristo nei confronti della violenza ed in particolare al momento della sua cattura.
L'ultima cena, nel contesto di una comunione particolarmente intima con i suoi, propone una tensione apparentemente in­sostenibile: quella tra una comunione-presenza definitiva e indefettibile offer­ta nel gesto del pane e del vino e la sua prossima separazione dai discepoli. Egli propone un gesto sconvolgente in cui sembra venir meno quello che è donato: la pretesa della sua assoluta rappresentanza di Dio che è data nella comunione a Gesù e la morte/separazione che è già intra­vista come decisiva negazione di quella pretesa.
Forse è qui che ritrova l'abisso ineffabile di come Gesù ha compreso e spiegato la sua morte: il morire di Gesù, e il morire di croce, è visto come la condizione di una dedizione incon­dizionata di sé, di una solidarietà assoluta che si realizza precisamente nel non far valere la propria pretesa della sua assoluta rappresentanza di Dio, ma nell'affidarla radicalmente nelle mani del Padre.
La tremenda notte passata in preghiera nell’orto del Getsemani in cui Gesù, perfettamente conscio di quello che succederà di li a poco, è tentato di chiedere aiuto: “.. se è possibile allontana da me questo calice …”; la sua natura umana quasi chiede al Padre di derogare dall’amore, di difendersi, ma subito subentra il desiderio di assimilarsi al Padre e accetta l’immenso atto d’amore che ne è la conseguenza: “… ma sia fatta la tua e non la mia volontà …”, dimostrando l’immenso coraggio di amare fino in fondo tutti, anche coloro che lo tortureranno, come sta facendo il Padre.
Arrivano a catturarlo in ottocento(12) il che dimostra la paura che avevano di una eventuale insurrezione da parte dei galilei e Gesù si consegna spontaneamente stroncando sul nascere qualunque tentativo di reagire dei suoi.
Il Sinedrio è riunito in seduta straordinaria, di notte, fatto eccezionale; è indispensabile modificare la modalità di esecuzione della condanna da lapidazione a crocifissione.
Questa scelta è un atto politico: nel Deuteronomio è scritto che questa morte è riservata ai maledetti da Dio, a coloro cui Dio ha voltato le spalle permettendo una morte così atroce. E’ l’unico modo che i sacerdoti(13) hanno per dimostrare la falsità della predicazione di Gesù: se Gesù muore in croce abbandonato da Dio tutto quello che lui ha insegnato perde qualunque significato, era una menzogna ingannevole.
Atto politico perfetto, che richiede, però, la collaborazione dei romani che non si muoveranno se non avranno il sospetto che l’azione di Gesù era un pericolo per la loro sovranità.
Ecco il ricorso a Pilato, ecco l’accusa di volersi fare re, ecco la reazione della folla che fa pressione sul debole proconsole romano timoroso di trovarsi di fronte un’ennesima rivolta; se indugia, questa volta la sommossa non sarà conseguenza della propria stoltezza e incapacità(14), ma del suo assurdo rifiuto di fronte ad un nemico dell’Impero. Per farlo rimuovere a Tiberio sarebbe bastato anche meno.
Gesù è condannato; i discepoli si disperdono, la sua solitudine è impressionante. Rimane in balia della soldataglia per ore. Sfinito dal dolore, sanguinante, con l’animo distrutto dagli insulti e dall’attesa del terribile supplizio, viene condotto al patibolo tra due ali di folla; anche questo è un atto che il Sinedrio ha attentamente programmato come distruzione della figura di Gesù di fronte ai suoi seguaci.
Gesù è crocifisso, è innalzato come lui stesso ha detto; è talmente debole che resisterà poco più di due ore alla tortura(15).
Gesù muore; poco prima ha lanciato il suo grido: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. E’ l’inizio del salmo 22 che Gesù ha tentato di proclamare. Non è un grido disperato: nel salmo 22 c’è prima una manifestazione di sofferenza e di richiesta di aiuto, poi la proclamazione del Padre che salva. Per Gesù è il suo grido di vittoria: ci sono riuscito, tutti guarderanno a me e la volontà del Padre è rispettata.
Lo sguardo di tutti è rivolto a lui. “… È uno spettacolo che occorre vedere e rivedere [...], penetrare, scrutare e ripensare. È il grande dramma, l’unico che vale la pena di vedere perché illumina tutti gli altri» (Maggioni 2001, 158).
E’ uno sguardo - bisogna aggiungere - già attraversato dalla luce della risurrezione che ci fa vedere la luce abbagliante del Padre a cui Gesù consegna lo spirito, ci mostra il perdono di Dio, la sua riconciliazione, la ricongiunzione del malfat­tore nell'oggi del paradiso, lo squarciarsi del velo del Tempio ormai inutile, non più luogo della presenza di Dio.
D'al­tra parte, si esprime in un linguaggio di confessione, perché rivela la nostra ansia nel tempo della ultima tribolazione («Figlie di Gerusalemme... piangete su voi stesse e sui vostri figli»), dimostra il nostro orgoglio inconsapevole Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno»!), l'insensatezza della nostra sfida e del nostro rifiuto («Se sei tu il Cristo...»), suscita il ricono­scimento del giusto e insieme della nostra ingiustizia («Gesù ricordati di me quanto entrerai nel tuo Regno»), ci spinge alla confessione delle nostre colpe Se ne tornavano percuotendosi il petto») e da ultimo riconosce la identità di Gesù, quella del giusto di Dio («Veramente quest'uomo era giusto!»).
Ecco lo spettacolo della croce: mentre ci fa riconoscere la morte di Gesù come il luogo della riconciliazione e del perdono, rivela noi a noi stessi come gli indifferenti, i distanti, coloro che rifiutano o sfidano Dio, ma insieme come coloro che pro­prio riconoscendo la morte del Figlio che consegna se stesso al Padre, si batto­no il petto, chiedono il perdono, si dichiarano colpevoli, confessano la colpa, si aprono all'oggi della salvezza.
Ecco la conversione del cuore che è ad un tem­po condizione e frutto della contemplazione della croce. Ecco lo sguardo che ha plasmato quel vedere credente che trae origine dalla risurrezione di Gesù.
Quello che la predicazione ed i segni non sono riusciti a dare, viene donato tutto sulla croce. Il predicatore, il profeta che per tre anni ha sfidato il potere religioso aprendo gli occhi a centinaia di discepoli su un Dio amore nascosto dalla legge ed è sfuggito tante volte alla cattura, si è consegnato volontariamente agli aguzzini per insegnare a tutti che l’amore non permette mancanze, che le proprie convinzioni non cedono davanti al patibolo, che si muore per quello che si pensa e ci si affida al Padre per il quale la coerenza (“…il vostro dire sia si si e no no…”) ha un valore superiore a tante preghiere e tante devozioni.
I Sinottici, Paolo e Giovanni non faranno altro che rileggere questo nucleo ricuperando le grandi immagini dell'AT: perciò, nella loro elaborazione, la morte di Gesù diviene la «reden­zione», il «sacrificio», il «riscatto»; Gesù porta a compimento tutti i sacrifici dell'AT, ma non li realizza più in un gesto rituale, bensì nel dare la sua vita per la moltitudine, nell'offerta personale.
Così i testi dell'istituzione dell'Eucaristìa (Mc 14,24; Mt 26,27; Lc 22,20; 1Cor 11,25) possono parlare del dono di Gesù come “sacrificio” di alleanza.
Diversi autori sono spinti a pensare al rito di espiazione e purifi­cazione (Eb 9-10; 18; Rm 3,25; 2Cor 5,21; 1Gv 2,2; 4,10) e la lettera agli Efe­sini parlerà di olocausto (5,2).
Così Giovanni si riferirà alla tematica dell'a­gnello pasquale all'inizio (1,29) e alla fine (19,31-37) del suo vangelo, con uno stupendo richiamo. Si tratta di un sacrificio che non mira a mutare la volontà di un Dio adirato, ma si iscrive entro l'alleanza di Dio che rende possibile i gesti di riconciliazione del suo popolo.
Egualmente, il NT parla della morte di Gesù come redenzione (Mt 20,25-28; 1 Tim 2,6; Tito 2,14): essa rimanda alla esperienza di liberazione del po­polo di Israele dall'Egitto, secondo l'immagine del 'goel (redentore), che nel diritto familiare era il parente prossimo che doveva riscattare il fratello caduto in schiavitù.
Dio si fa il fratello maggiore che riscatta il suo popolo dalla schia­vitù dell'Egitto, lo libera dalla soggezione al Faraone. Così Gesù è il redento­re, è colui che da la sua vita in riscatto per la moltitudine, non perché sia tenuto a pagare qualcosa a qualcuno, ma perché è il volto del Dio fedele a sé stesso, che non può lasciare noi in balia del nostro egoismo e della morte.
Con Gesù il Padre ci ha dato tutto se stesso, la sua stessa vita, lasciandola in balìa del tradimento, dell'abbandono, della morte violenta e della sopraffazione di noi uomini. Per questo Gesù muore per noi, nel duplice senso di «a causa» del nostro peccato e di «a vantaggio» nostro.
Assumendo e portando il nostro rifiuto, lo riconcilia nel luogo stesso dove noi abbiamo chiuso le porte a Dio, e lo trascende nel suo gesto d'amore incondi­zionato.
Forse solo qui, in punta di piedi, può essere posta la domanda, su cui invece noi abbiamo spesso costruito interminabili discorsi. Perché era neces­saria la sofferenza, l'inaudito dolore a cui Gesù si è sottomesso? Dio non pote­va salvarci in un modo più diretto, meno violento, non poteva condonarci tut­to, senza la croce del Figlio? Perché la passione e la morte di Gesù? Perché una morte così? A queste domande formidabili non si può rispondere che balbet­tando. Certo possiamo notare che Gesù ci riconcilia non perché soffre, ma mentre soffre. La sofferenza non è una scelta di Dio, ma una conseguenza del rifiuto e della negazione degli uomini.

Note: 1. Il testo che segue è in parte liberamente tratto dalla conferenza “Disobbediente fino alla morte” tenuta in Assisi nel settembre 2002 da Padre Alberto Maggi, OSM. – 2. Quanto segue è  liberamente tratto da un articolo di Mons. Franco Giulio Brambilla. – 3. Gv 11, 49-53 Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno, disse loro: «Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera». Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo. – 4. Vedi come esempio Mt 15,1 e Mc 3,22. – 5. Penso sia opportuno ricordare che il peccato secondo la cultura ebraica era molto diverso dalla concezione di peccato che ci ha presentato Cristo e quest’ultima è diversa a sua volta dalla concezione cattolica del peccato. – 6. Lc 7,22: … i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono … - 7. Il Sinedrio era una assemblea di anziani e maggiorenti giudaici a cui i romani avevano concesso di governare Israele dal punto di vista religioso ed amministrativo. Il Sinedrio era presieduto dal Sommo Sacerdote in carica (scelto in pratica dai romani), da rappresentanti della casta sacerdotale e delle altre caste influenti nel paese. Aveva anche funzioni giudiziarie ma non poteva comminare la pena di morte né, tanto meno, eseguirla. – 8. “Un araldo, per quaranta giorni, prima dell’esecuzione, uscì gridando: Sarà lapidato perché ha praticato la stregoneria e ingannato Israele per sviarlo” (Sanh.,B.,43a). L’accusa a Gesù di essere “uno stregone che ingannava la gente” durerà a lungo (Giustino, Dialogo con Trifone, 69, 7). Ancora nel IV secolo Girolamo scrive in una lettera che “mago è un altro nome dato dai Giudei al mio Signore” (Lettera XLV, 6, Ad Asella). – 9. Gv 6, 66-67: Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Forse anche voi volete andarvene?». – 10. Dal IX secolo a.C. Israele era diviso in due regni: il regno della casa di Davide e il regno del nord. La guerra tra di loro è stata un disastro: ha portato all’occupazione straniera, ormai permanente; nell’attesa della gente c’era la speranza di un Messia come Davide. Davide, dagli stessi ebrei, è definito un Serial Killer. Davide ha eliminato sistematicamente tutti quelli che potevano nuocere al suo potere. Davide era un bandito terribile, pericolosissimo, che dove arrivava portava devastazione e morte. E’ una figura che sconcerta: noi siamo abituati a identificarlo col pastorello di Betlemme, con il duellante contro Golia, ecc… Ma questo l’ha fatto scrivere più tardi lui stesso, quando ha preso possesso del trono. A corte c’è sempre il compiacente storiografo che riscrive la storia secondo il volere del potente di turno. Ma la Bibbia, che contiene anche elementi storici e concreti, afferma che Davide era un capobanda: un uomo di una ferocia e di una spietatezza incredibili, che è riuscito a scalzare dal potere il povero Saul e poi ha fatto scrivere che Dio lo aveva abbandonato. Pensate che per ottenere in moglie la figlia di Saul, presentò come bomboniere 200 prepuzi dei Filistei (1Sam 18,27). Questo era Davide: le sue mani grondavano sangue. Tant’è vero che quando volle costruire il tempio del Signore, il Signore gli mandò il profeta per dirgli: no, le tue mani grondano sangue e tu non mi costruirai nessun tempio (1Cro 22,7-8). Nell’aspettativa popolare, comunque, questo re che era riuscito a riunire le 12 tribù e aveva inaugurato il regno di Israele, era l’ideale del Messia. – 11. Nel Vangelo di Giuda, apocrifo presumibilmente del IV secolo, si segue un’altra ipotesi, che sia stato lo stesso Gesù a chiedere a Giuda di fingere di tradirlo per favorire la sua cattura senza spargimento di sangue. – 12. Secondo Giovanni, per catturare Gesù si scatena un'operazione di polizia senza pari. Vengono infatti impiegati “la coorte con il comandante e le guardie dei Giudei” (Gv 18,3.12). Il termine coorte (in greco speira) indica un distaccamento tra 600 e 1000 soldati al comando del procuratore romano per il mantenimento dell’ordine nella città di Gerusalemme. Le guardie in servizio al tempio di Gerusalemme, erano circa duecento, alle dipendenze del sommo sacerdote per la sicurezza del Tempio. Tra i due corpi c’era profonda rivalità e inimicizia, ma ora le due forze di polizia sono unite, di fronte a un unico pericolo. – 13. I sacerdoti hanno compreso che la condanna a morte di Gesù potrebbe trasformarsi in una dimostrazione della validità della sua predicazione e la morte come uno eccezionale strumento di diffusione delle sue idee. – 14. Come nel caso degli scudi dipinti esposti lungo il muro del Tempio oppure delle insegne della legione fatte entrare di notte in Gerusalemme; se poi si ricorda che i soldati della legione si erano  voluti chiamate “I porci” per dispregio ai giudei che consideravano il maiale un animale impuro al sommo grado, si completa il quadro dei guai di Ponzio Pilato. – 15. La morte non sopravveniva mai prima di tre giorni. Normalmente il condannato moriva tra il terzo e il settimo giorno. La morte avveniva per asfissia: immaginate una persona  appesa, che per respirare deve sollevarsi facendo forza sui piedi; quando le forze mancheranno morirà per l’impossibilità a sollevarsi. In alcuni casi, per prolungare la sofferenza, mettevano sotto il sedere un piccolo piolo, sul quale la persona, in qualche modo, poteva appoggiarsi per cercare di riprendere fiato. Ecco perché, avvicinandosi la giornata della Pasqua, ai due condannati con Gesù spezzano le gambe, in questo modo, non potendosi più alzare, muoiono immediatamente.