Santissimo
Corpo e Sangue di Cristo – Gv 6, 51-58
In
quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io
sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in
eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
Come
al solito è necessario partire da diversi versetti prima per comprendere il
brano letto. Nel vangelo di Giovanni non vi è il racconto dell’istituzione
dell’eucaristia; forse l’evangelista riteneva inutile ripetere quanto gli altri
vangeli, tra cui Marco scritto quasi cinquant’anni anni prima, avevano
ampiamente descritto e al tempo in cui Giovanni scrive, le chiese cristiane
celebravano l’eucaristia da più di mezzo secolo.
A
Giovanni interessa far risaltare il significato dell’eucaristia ed inserisce
qui, come nel grande discorso di addio della cena di pasqua, una descrizione,
profondissima, del senso dell’eucaristia.
Siamo
a Cafarnao, nella sinagoga o probabilmente nel cortile di accesso, vista la
difficoltà che aveva Gesù ad entrare nelle sinagoghe perché non era sposato(1).
Gesù
è reduce da un atto che lo ha portato all’ammirazione del popolo: la
moltiplicazione dei pani (Gv 6,1-13).
Ha dimostrato come è possibile, condividendo il poco che ciascuno ha, sfamarsi
e superare le difficoltà. La folla lo rincorre, non vuole mollare un uomo così
utile, vuole farlo re(2). Gesù rinfaccia subito alla folla questa
intenzione: “voi mi cercate perché vi siete saziati. Procuratevi non il cibo
che perisce, ma quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo
vi darà”(Gv 6,26-27).
Da
qui parte un serrato batti e ribatti tra Gesù e il popolo, che non ha capito
nulla del discorso di Gesù: il popolo ha il problema del pane quotidiano e non
è tanto disposto ad ascoltare discorsi filosofici, specialmente quando Gesù
afferma: “io sono il pane della vita”.
Di
fronte a questa affermazione della divinità di Gesù(3), di fronte
alla apparente bestemmia, non è più il popolo a rispondere, ma i “Giudei”, cioè
gli scribi e i farisei presenti in mezzo alla folla(4). Cafarnao non
è molto distante da Nazareth, per cui vi erano sicuramente persone che
conoscevano la famiglia di Gesù, sapevano da dove veniva e non potevano quindi
accettare un’affermazione del genere. A loro Gesù risponde in modo molto duro,
dichiarandoli ormai esclusi dalla salvezza: voi non credete, perché per credere
a me è necessario l’intervento del Padre. Voi siete destinati a rimanere quello
che siete, dei morti, perché chi crede in me ha la vita eterna.
Subito dopo Gesù riprende l’affermazione del v. 48 riformulandola in questo modo: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo»
(v. 51a). E prosegue: «Se uno mangia
di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita
del mondo» (v. 51b).
In quest’ultima affermazione il pensiero fa un passo in
avanti: il pane che Gesù darà non solo si identifica con la sua persona, ma è
la sua stessa carne che deve essere mangiata perché possa comunicare la vita.
Qui vi sono due concetti da sottolineare, uno derivato
dal linguaggio biblico ed il secondo dalla filosofia greca e per la precisione
dalla filosofia gnostica(5).
Nel linguaggio biblico la carne non è altro che la persona
umana, vista però in tutta la sua limitatezza e fragilità. In Gesù il Verbo (il
progetto di Dio) si è fatto carne (cfr. Gv
1,14), e ora dà la sua carne in cibo all’umanità; in questa frase il verbo
«dare» e la particella «per» (in greco hyper,
in favore di) richiamano il dono di sé che il servo di Jahweh fa per riportare
il suo popolo a Dio (cfr. Is 53,10-11 nella
traduzione dei LXX); di conseguenza, nel linguaggio della chiesa primitiva (cfr. Gal 1,4) e dello stesso Giovanni (cfr. Gv 3,16), questi termini indicano
la morte di Gesù in croce, il cui scopo è quello di mettere la vita eterna a
disposizione del mondo, cioè di tutta l’umanità. L’identificazione del pane
della vita con la «carne» di Gesù orienta l’attenzione del lettore al pane che
nell’ultima cena Gesù darà ai suoi discepoli come segno del suo corpo. Giovanni
però preferisce usare il termine «carne» che per lui indica l’essere umano
vivente, mentre parla di «corpo» soltanto in riferimento al cadavere di Gesù (cfr. Gv 19,38.40; 20,12).
Nel linguaggio della filosofia gnostica conoscere una
persona, comprenderne i pensieri, gli ideali, le intenzioni, le speranze e
condividerle era un po’ come cibarsi di questa persona in quanto solo
nutrendosi di lei era possibile comprenderla integralmente. In questo senso il
corpo di Gesù è vero cibo, perché solo così si assimila integralmente la sua
parola ed il suo pensiero. Come si vede i due concetti si intersecano
completandosi a vicenda nel discorso di Gesù.
Nel brano successivo Gesù focalizza la sua attenzione su
questo aspetto del suo annunzio. I giudei esprimono nuovamente la loro
incredulità chiedendosi: «Come può costui
darci la sua carne da mangiare?» (v. 52).
Gesù non risponde alla loro domanda, ma prosegue: «In verità, in verità vi dico: se non
mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete
in voi la vita» (v. 53). Con queste parole Gesù, invece di attenuare il
senso dell’affermazione precedente, ne accentua il carattere realistico
sottolineando come per avere la vita sia necessario non solo mangiare la sua
carne ma anche bere il suo sangue. Nel linguaggio biblico l’espressione «carne
e sangue» designa la persona umana nella sua totalità (cfr. Gv 1,13). Il fatto che la carne sia disgiunta dal sangue
rimanda alle parole della cena e più a monte allude da una parte ai sacrifici
del tempio, nei quali carne e sangue venivano separati, e dall’altra alla morte
di Gesù in croce, interpretata in chiave sacrificale. Sullo sfondo è presente
anche il tema biblico del banchetto escatologico (cfr. Is 55,1-2) e del
banchetto della sapienza (cfr. Pr 9,5; Sir 24,20), dove si parla non solo di
cibo, ma anche di bevanda. La disgiunzione della carne da mangiare dal sangue
da bere comporta una grave provocazione nei confronti del mondo giudaico, per
il quale il sangue non poteva essere bevuto (cfr.
Gen 9,4; Lv 3,17; Dt 12,16.23-25).
Nei due versetti successivi Gesù prosegue: «Chi mangia (in greco ho trôgôn) la mia
carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo
giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (vv.
54-55). Con queste espressioni egli non fa altro che ribadire
quanto affermato precedentemente, sottolineando che la sua carne è «vero» cibo
e il suo sangue è «vera» bevanda: il verismo del mangiare, accentuato mediante
l’uso del verbo greco trôgein, «masticare», non elimina però il
significato simbolico dell’affermazione. L’effetto di questo mangiare e bere è
la vita eterna che appare come una realtà già presente e al tempo stesso
futura, in quanto coincide con la risurrezione che avrà luogo «nell’ultimo
giorno(6)».
Il significato della vita promessa a chi mangia la sua
carne e beve il suo sangue viene ulteriormente specificato da Gesù con queste
parole: «Chi mangia la mia carne e beve
il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha
mandato me e io vivo per (mezzo di) il Padre, così anche colui che mangia di me
vivrà per (mezzo di) me» (vv. 56-57).
Tra Gesù e colui che mangia il suo corpo e beve il suo
sangue, si instaura dunque un’intima comunione di vita, che si modella su
quella che unisce Gesù al Padre, anzi ne è la conseguenza e lo sviluppo logico:
come il Figlio, che è stato mandato dal Padre, attinge da lui tutta la sua
vita, così chi mangia il Figlio attinge da lui quella stessa vita che egli ha
ricevuto dal Padre.
Vi è però una condizione che spesso sfugge, o che
allontaniamo dai nostri pensieri perché non siamo tanto disposti ad accettarla.
Mangiare il Corpo di Cristo non è un rito magico; l’atto di accogliere Cristo
in noi significa che vogliamo(7) entrare in comunione con lui,
significa che noi condividiamo in tutto e per tutto la Parola di Cristo, anche
e soprattutto quell’unico comandamento che ci ha lasciato: “amatevi l’un
l’altro come io vi ho amato (Gv
13,34) ”; il comandamento
che ha sostituito ed superato i comandamenti del Sinai.
Quel
comandamento è stato annunciato pochi minuti dopo che Gesù aveva lavato i piedi
ai suoi discepoli (Gv 13,5-11), e
questo non era un servizio piacevole, visto che si camminava praticamente
scalzi e le vie della città erano anche le fogne.
Accostarsi all’eucaristia vuol dire accettare di fronte
a Dio e a tutta la comunità di divenire noi stessi pane per gli altri, di
aiutare gli altri ovunque vi sia bisogno, anche a scapito dei nostri interessi,
anche se l’altro non merita nemmeno di essere guardato, anche se abbiamo
ricevuto da lui il più feroce dei torti.
È questa la condizione fondamentale
per accostarsi alla mensa di Cristo, è questo l’abito nuziale di cui parla Matteo(8); è per far
comprendere questo che Paolo ha sottolineato con gravità “chi mangia e beve
senza riconoscere(9) il corpo del Signore, mangia e beve la propria
condanna” (1Cor
11,29).
Se noi ci nutriamo del corpo di Cristo, se noi diveniamo
pane per gli altri, adeguandoci quindi alla volontà di Dio, riceviamo
l’adempimento della promessa di Cristo: la vita eterna.
Più che un dogma, più che una morale, più che una
ideologia, il cristianesimo è questo: la divinizzazione dell’uomo!
Il discorso giunge così alla sua conclusione: «Questo è il pane disceso dal cielo, non
come quello che mangiarono i vostri padri e morirono. Chi mangia (ho trôgôn) questo pane vivrà in
eterno» (v. 58). Con queste parole Gesù, riprendendo
espressioni già usate precedentemente (cfr.
Gv. 6,31-33.49-50), afferma di essere lui il pane disceso dal cielo,
perché, diversamente dalla manna, dà una vita che dura eternamente. La sua
persona, donata sulla croce per tutta l’umanità e rappresentata nei segni
eucaristici del pane e del vino, è dunque il nutrimento dei tempi escatologici,
dal quale scaturisce la vita piena nella comunione con il Padre.
Note: 1. Nel
mondo ebraico il matrimonio non era una scelta dell’individuo, ma un obbligo in
ottemperanza al comandamento di Dio che diceva: “crescete e moltiplicatevi”
(Gen 2,28. La legge (Talmud, Qid. B, 29b) aveva stabilito l’età per il
matrimonio: 18 anni per il ragazzo e 12 per la ragazza e considerava colui che
non si sposava un maledetto da Dio, un omicida, a meno che uno non avesse dei
problemi dal punto di vista sessuale, e quindi fosse un eunuco. Proprio perché
probabilmente girava su di lui questa voce (dai Vangeli non risulta che Gesù
fosse sposato) in risposta a questa accusa, Gesù dice "C’è chi nasce
eunuco, chi diventa eunuco a causa degli uomini e ci sono quelli che si sono
fatti eunuchi per il regno di Dio" (Mt 19,12). L’essere considerato
maledetto da Dio non consentiva l’accesso alla preghiera e quindi alla
Sinagoga. Anche i monaci esseni, contemporanei di Gesù, erano sposati, come
dimostrano le tombe ritrovate nel monastero di Qumran che contengono nello
stesso loculo lo scheletro di un uomo e quello di una donna. – 2. La concezione ebraica della figura del
re è diversa da quella occidentale. Per gli ebrei il re è la persona a cui Dio
affida il popolo, colui che deve provvedere al popolo in nome e per conto di
Dio (1Sam 10); per questo è adottato da Dio (diviene figlio di Dio) intendendo
con ciò che Dio agirà sempre al suo fianco. Questa concezione, profondamente
inserita nella cultura e condivisa da tutti gli ebrei, permetterà a Gesù di
annunciare, con la certezza di essere immediatamente compreso, l’inizio del
“Regno di Dio”, cioè la condizione in cui l’uomo può contare sull’amore di Dio
in qualunque atto ed esigenza della propria vita. Nel Regno di Dio non vi è un
uomo nominato re a provvedere agli altri uomini, ma Dio stesso. È un
significato che sfugge completamente a noi occidentali che, per darne una
spiegazione, abbiamo istintivamente trasferito il Regno di Dio nell’aldilà,
falsando completamente il pensiero di Gesù. – 3. Io sono, in ebraico suona
“yahweh”, il nome di Dio rivelato a Mosè nel roveto ardente. – 4. Per Giovanni
il termine Giudei non ha solo il significato di abitanti della Giudea, ma
soprattutto di oppositori di Gesù, di increduli che provengono dal giudaismo e
non riconoscono Gesù come messia, generalmente scribi e farisei. – 5. Una
definizione di gnosticismo potrebbe essere: nome collettivo indicante un gran
numero di sette paternalistico-idealistiche fortemente diverse tra loro che
furono attive da poco prima dell'Era cristiana al V secolo d.C. e che,
prendendo in prestito la fraseologia ed alcuni dei dogmi delle principali
religioni a loro contemporanee, specialmente del cristianesimo, sostenevano che
la materia fosse un deterioramento dello spirito e l'intero universo una
depravazione della Divinità, ed insegnavano che il fine ultimo di ogni essere
era il superamento della bassezza della materia ed il ritorno allo spirito
Genitore; tale ritorno, sostenevano, era stato facilitato dall'apparizione di
alcuni Salvatori inviati da Dio. Lo strumento per tale superamento era la
conoscenza, da cui il nome del movimento filosofico (che significa conoscere in greco). – 6. La locuzione ultimo giorno proviene esclusivamente
dalla tradizione ebraica e non è presente nei vangeli sinottici. Risulta anche
in contrasto con il significato del brano relativo a Lazzaro (cfr. Gv 11, 1-45). Queste discrepanze
non devono meravigliare perché il vangelo di Giovanni è stato scritto a più
mani sia pure ricalcando gli scritti lasciati da Giovanni. – 7. La componente
della volontà, dell’atto fatto per propria decisione e non subìto, è
fondamentale nel sacramento dell’Eucaristia. Cristo ha detto ”prendente e
mangiate”; non ha detto “aprite le labbra che vi imbocco”; imboccare è
l’atto che si compie a favore dei bambini, degli inconsapevoli. Il gesto di
accogliere la particola nelle nostre mani e di portarla noi, liberi nella
nostra specifica decisione, alla bocca, sottolinea la nostra comunione
consapevole con il Cristo, con tutto quello che questo comporta. Sulla stessa
linea è il fatto di riceve il sacramento in piedi, da figli e non da servi come
nel caso di riceverlo in ginocchio. – 8. Mt 22, 11-12. La parabola del
banchetto nuziale. – 9. Il senso del verbo conoscere, o riconoscere, nella
mentalità orientale ed ebraica in particolare, supera notevolmente quello che
ha nella lingua italiana. Tale verbo indica non solo il verificare l’identità
dell’altro, ma sottolinea soprattutto l’unione stretta fra due individui; nel
caso di un uomo ed una donna esprime infatti l’unione sessuale.