Domenica delle Palme
Vangelo
(Mc 11,1-10) - Passione e morte di Gesù (Mc 14,1-15,47)
(si omette il testo della Passione a causa
della sua lunghezza)
Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e
Betània, presso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due dei suoi discepoli e disse
loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso,
troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e
portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: “Perché fate questo?”, rispondete: “Il
Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”».
Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una
porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro:
«Perché slegate questo puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù.
E li lasciarono fare.
Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro
mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla
strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e
quelli che seguivano, gridavano:
«Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto
il Regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli!».
Ogni
volta che leggiamo il Vangelo1 dobbiamo sempre tener presente che i
Vangeli non sono cronaca, ma teologia. Non riguardano la storia, ma riguardano
la fede. Questo è tanto più vero in un brano come questo, dell’ingresso di Gesù
a Gerusalemme che scegliamo oggi per la festa della domenica delle Palme.
Scrive l’evangelista: “Quando furono
vicini a Gerusalemme”, Gesù ha già annunziato per la terza volta - e
il numero tre significa quello che è definitivo - che a Gerusalemme incontrerà
la morte. Ma una tecnica di Marco è non annunciare mai la morte di Gesù senza
alludere alla sua risurrezione. Ecco perché subito dopo Gerusalemme parla del
monte degli Ulivi che in questo Vangelo è immagine simbolica della vittoria del
Cristo sulla morte, della condizione definitiva dell’uomo che è passato
attraverso la morte.
E Gesù manda i suoi discepoli nel villaggio.
“Gesù mandò due dei suoi discepoli e disse
loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso,
troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito”.
Ogniqualvolta troviamo nei Vangeli il termine
‘villaggio’ è sempre in una situazione negativa, di incomprensione, di ostilità
a Gesù e al suo messaggio perché mentre la città è il luogo dove le mode vanno
e vengono, il villaggio è il luogo della tradizione, dove le tradizioni si
radicano e hanno difficoltà ad essere estirpate e dove ogni novità viene vista
con diffidenza e difficoltà.
Allora il termine ‘villaggio’ indica che
questo brano sarà sotto il segno – come fra poco vedremo – della
incomprensione.
Gesù manda i discepoli nel villaggio dicendo
che in questo si troverà un puledro legato sul quale nessuno è mai salito.
Ripeto, non sono indicazioni di cronaca, ma di teologia, non riguardano la
storia, ma riguardano la fede. Gesù si riferisce al profeta Zaccaria. Il
profeta Zaccaria, unico tra i profeti, presentava un Messia di pace, non un
Messia violento, non un Messia dominatore, un Messia che avrebbe cavalcato non
la mula, che era la cavalcatura regale, e neanche un destriero, ma anzi avrebbe
fatto scomparire da Gerusalemme i carri e i cavalli.
Il Messia che fa scomparire i cavalli,
simbolo di forza, si presenta sopra un puledro d’asina, su un asinello, la
cavalcatura comune della gente del popolo. Quindi Gesù slega - ecco il fatto
che questo puledro era legato - slega questa profezia che era stata censurata
da parte della tradizione religiosa che voleva nel Messia il trionfatore, il
vincitore.
Ebbene, la reazione della folla di fronte
alla scelta di Gesù è duplice. Scrive l’evangelista che “Portarono il
puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra”.
Il mantello nella simbologia, significa
l’individuo, la persona, allora i discepoli accolgono, accettano quest’immagine
di Messia non violento, di Messia portatore di pace, colui che avrebbe
realizzato la profezia di Zaccaria, e in segno di adesione, mettono il proprio
mantello, cioè la propria esistenza, dove? La mettono sul puledro d’asina.
Quindi sono disposti a seguire un Messia di
pace.
E Gesù, scrive l’evangelista, non “vi montò”, ma “vi sedette”. Cioè Gesù ci si installa.
Questa è la sua immagine del Messia. Non
quella, come vedremo tra poco, del trionfatore, secondo la tradizione del
Figlio di Davide – il Messia è il Figlio di Davide, colui che come questo re,
attraverso la violenza avrebbe imposto il Regno di Israele – ma colui che,
attraverso il dono della vita avrebbe inaugurato il Regno di Dio.
Ma se i discepoli hanno dato adesione a
questa immagine di Messia di pace, non così la folla, che scrive l’evangelista
“stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde,
tagliate nei campi”.
Quando c’era l’intronizzazione regale, il
popolo, in segno di sottomissione, metteva il proprio mantello, che come
abbiamo detto è immagine della propria vita, e lo metteva per strada. Era un
segno di sottomissione al re. Il popolo non accetta di essere liberato, vuole
essere sottomesso, vuole essere dominato, magari da un re migliore, da un re
più importante, ma non accoglie il messaggio di liberazione portato da Gesù.
E Gesù si trova come un ostaggio. Scrive
l’evangelista “Quelli che precedevano e quelli che seguivano”, Gesù si
trova in mezzo, non è più Gesù a indicare il cammino, ma è la folla che l’ha
preso come in ostaggio.
Sia quelli che lo precedono che quelli che lo
seguono “gridavano”… E perché l’evangelista adopera il verbo gridare per
quello che è un salmo, il salmo 118, “Osanna, benedetto colui che viene nel
nome del Signore”? Avrebbe dovuto usare il verbo ‘acclamare’, invece la
folla grida, grida come gli spiriti immondi che rifiutano l’azione del Signore.
E grida come il cieco di Gerico che vede in Gesù il Messia Figlio di Davide (“Figlio di Davide, abbi pietà di me”). E
questi che gridano “Osanna al Figlio di
Davide”, quando si renderanno conto di aver sbagliato persona, perché Gesù
non è il Figlio di Davide2, le stesse persone che ora hanno
acclamato Gesù gridando “Osanna”, saranno quelli che grideranno
“Crocifiggilo!”, perché, ce lo dice l’evangelista, loro gridavano “Benedetto
il Regno che viene, del nostro padre Davide!”
Non hanno capito che
Gesù viene a inaugurare il Regno di Dio, loro vogliono che Gesù resusciti il
defunto Regno di Davide, Regno di Israele, ma Gesù non inaugura il Regno di
Davide, ma il Regno di Dio, un Regno universale dove ogni persona si possa
sentire accolta, amata e dove il segno non sia la sottomissione, la
dominazione, ma l’amore e il servizio.
Note:
1. Tratto da un’omelia di Padre Alberto Maggi OSM. – 2. ‘Figlio’ nella
mentalità ebraica significa colui che assomiglia al Padre, non colui che
biologicamente deriva dal padre: Gesù non è il Figlio di Davide, ma il Figlio
del Dio vivente perché pensa e si comporta come Lui. Non toglie la vita, ma
dona la sua.
Analisi
delle cause e delle conseguenze della condanna e della morte di Gesù.
Il
verbo obbedire(1), o il termine obbedienza, non ha diritto di
cittadinanza nei Vangeli. In effetti il verbo obbedire nei Vangeli è citato 5
volte, ma sempre riferito a elementi contrari all’uomo: il vento, il mare, gli
spiriti impuri.
Gesù
non ha mai chiesto ai suoi discepoli di obbedirgli, come mai Gesù ha chiesto ai
discepoli di obbedire a Dio. L’obbedienza non fa parte del lessico evangelico,
ma al posto dell’obbedienza Gesù inaugura la somiglianza: nel Vangelo troviamo
sempre l’invito “siate come il Padre vostro”.
Nell’ebraismo
il credente è colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi. Nel
cristianesimo il credente in Gesù non è spinto a obbedire a nessuno, neanche a Dio,
perché Dio non chiede obbedienza, ma chiede di assomigliargli.
Per
togliere ogni dubbio, partiamo dalla lettera di Paolo ai Filippesi; vi si legge
quest’espressione:
Fil 2,8: umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla
morte e alla morte di croce.
Paolo
vuol dire che Gesù, pur essendo nella condizione di uno che, legittimamente,
può far valere la sua natura di Figlio di Dio, per essere solidale con tutti
gli uomini e per essere “fedele” (questa è la traduzione corretta in luogo di
obbedire, come si vedrà più avanti) al messaggio del Padre, ha scelto di stare
dalla parte degli ultimi, fino all’estrema miseria, all’infamia della morte di
croce, che era il patibolo riservato alla feccia della società.
Il
verbo che è tradotto in italiano con “ubbidire”, nella lingua greca significa:
“rispondere ad un qualcosa che si ascolta”.
Per
esempio, negli Atti degli apostoli, quando Pietro bussò in casa di Maria, una
serva di nome Rode si avvicinò per “sentire” chi era che bussava: il verbo è
tradotto nelle nostre Bibbie con “sentire”, ed è lo stesso verbo che nella
lettera ai Filippesi è stato reso con ubbidire. La frase “essere ubbidiente
fino alla morte”, dovrebbe essere preferibilmente tradotta con “per essere
fedele (per avere risposto al Padre), fino alla morte”.
Ricordo
che, fino a pochi decenni fa, la morte in croce di Gesù era presentata come il
supremo atto di obbedienza di Gesù al Padre. Dio era presentato come una
persona adirata per i peccati compiuti dagli uomini che richiedeva, per
perdonarli, il sangue di una vittima, suo figlio.
Il
Padre era quindi presentato come sede di sentimenti prettamente umani: l’ira,
l’offesa, il desiderio di vendetta, il piacere di vedere soffrire un uomo per
appagare il proprio sentimento di rivalsa.
Sentite
cosa ne pensava un predicatore del 1600:
«In effetti,
non appartiene che a Dio di vendicare le ingiurie: fin tanto che la sua mano non si coinvolge, i peccati non sono puniti che
debolmente: a lui solo appartiene di far giustizia, come si conviene, ai
peccatori; lui solo ha il braccio abbastanza
potente per trattarli secondo il loro merito. A me, a me la vendetta: sì io so ben render loro il dovuto: Mihi vindicta et ego retribuarrì (Rm 12,19). Era necessario, dunque, fratelli miei, che Egli stesso venisse
con tutti i suoi fulmini contro il suo
Figlio; e poiché Egli aveva messo in Lui i nostri peccati, egli doveva porvi anche
la sua giusta vendetta. L'ha fatto, cristiani, non dubitiamone. Per questo il
profeta ci insegna che, non contento di
averlo consegnato alla volontà dei suoi nemici, lui stesso, volendo fare la sua
parte, l’ha colpito e lacerato con i colpi della sua mano potente: Et Dominus voluit conterere eum in infirmitate (Is 53,10). L'ha
fatto, dice, l'ha voluto fare, voluit
conterere: con un disegno premeditato. Giudicate, signori, fin dove arriva il supplizio; né gli uomini
né gli angeli lo possono concepire»
(J. BOSSUET, Per il Venerdì Santo. 26
marzo 1660, Oeuvres oratoires, T. 3, 385).
Scritti
similari se ne possono trovare in ogni epoca.
Ammettiamo
che il desiderio di vendetta di Dio fosse vero e che abbia obbligato Gesù ad
accettare la sua morte nella mostruosa sofferenza della croce; questo fatto
sarebbe in netto contrasto con la figura di Dio amore, di quel Dio che Gesù in
tutta la sua predicazione ha presentato come talmente innamorato dell’uomo da
perdonarlo ancor prima che lui lo chieda. Se il Padre ha chiesto a Gesù di
obbedire e lasciarsi uccidere, tutti i Vangeli sono un falso, un enorme ammasso
di menzogne.
Ciò nonostante bisogna convenire che quanto sopra detto(2)
“…esprime bene l'immaginario dei credenti e il modo di pensare ancor oggi il
senso della morte di Gesù, come un atto dell'ira vendicativa di Dio che
vuoi riparare la sua giustizia offesa dal peccato. Gesù, allora, diventa il sostituto o il sacrificio espiatorio
dell'ira di Dio che noi ci siamo meritati. Egli si assoggetta
spontaneamente a portare la pena per riparare la giustizia divina, perché noi siamo risparmiati, a motivo della
comune partecipazione alla umana natura, dalla misericordia del medesimo Dio.
Così in Dio la giustizia e la
misericordia sono egualmente soddisfatte …”.
Ma
anche esaminata da questo punto di vista, rimane la visione di un Dio
sanguinario, più un dio pagano, che il Dio di Gesù.
Chiariamo
immediatamente una cosa: Gesù è stato ucciso perché il gruppo dirigente dello
stato ebraico di allora ha ritenuto indispensabile eliminarlo per conservare il
proprio potere(4) e i propri introiti economici. La morte di Gesù
non era nelle intenzioni originarie di Dio anche se è stata, come vedremo, una
scelta cosciente di Gesù.
L’azione di Gesù, durante gli ultimi tre anni della sua vita, è
stata caratterizzata da un ripetuto scontro con le autorità religioso-politiche
ebraiche(4). Con i suoi atti ha ripetutamente messo in discussione
tutto l’insieme dei precetti rituali che erano la base della vita, religiosa e
civile, della società israelita. Ha soprattutto liberato i credenti
dall’obbligo della mediazione sacerdotale; Cristo ha indicato come al credente è
possibile rivolgersi al Padre senza l’intermediazione del Tempio e quindi dei
sacerdoti.
Per comprendere la
gravità di questo messaggio occorre comprendere com'era l'istituzione religiosa
giudaica, che si basava tutta sul concetto di un Dio che continuamente
chiedeva, un Dio mai sazio. Naturalmente, le offerte non andavano a Dio, ma
andavano a riempire la tasca e la pancia dei sacerdoti.
Le persone per essere
gradite a Dio dovevano, tre volte all'anno, fare un pellegrinaggio a
Gerusalemme, portare in offerta alimenti, specialmente offerte di bestiame; con
il tempo questo era diventato un grande affare commerciale.
Pensate, a titolo di
esempio, ad un abitante di Nazareth che doveva andare a Gerusalemme: data la
distanza non si portava dietro l'agnello o la capra da sacrificare al Tempio,
ma lo comperava a Gerusalemme.
L'appalto per la
vendita degli animali per i sacrifici, che tra l’altro dovevano essere degli
animali perfetti, secondo quanto indicato dalla Legge, l'aveva la famiglia del
sommo sacerdote. L'uomo arrivava, comperava l'animale sul monte degli Ulivi,
dove c'era un accampamento col bestiame da vendere, lo portava al Tempio dove
veniva sacrificato; con questo atto la persona riceveva, o almeno credeva di
ricevere, il perdono delle sue colpe, dei suoi peccati(5).
Nel sacrificio
normale si donava a Dio il sangue e gli organi interni della vittima che
venivano bruciati sull’altare. La parte rimanente dell'animale veniva spartito
fra i sacerdoti. Siccome c'era un esubero di produzione, la carne che avanzava
veniva venduta nelle macellerie di Gerusalemme, tutte appartenenti alla
famiglia del sommo sacerdote. Perciò, il poveretto che andava al pellegrinaggio
si trovava a pagare praticamente due volte lo stesso agnello se voleva poi
mangiare.
Proviamo ad
immaginare la ripercussione nel Tempio della novità assoluta di un Dio che non
chiede più sacrifici. È il crollo dell'istituzione, è il crollo dell'economia
di Gerusalemme. Ecco perché, all'inizio del Vangelo di Matteo, quando viene
dato l'annuncio della nascita di Gesù si legge che tutta Gerusalemme tremò (Mt 2,3). Perché se veramente Dio non
sta più nel Tempio, se Dio non chiede più sacrifici, crolla tutta
l'istituzione, crolla tutto quanto.
A questa
spina nel fianco della classe dirigente ebraica, si deve aggiungere l’invito di
Gesù, rivolto al popolo, a ragionare con la propria testa, cosa mai gradita da
qualsiasi governo(6).
Il
Sinedrio(7) aveva condannato Gesù molto tempo prima di catturarlo,
come si legge sul Talmud(8), e per quaranta giorni il banditore
aveva percorso le strade di Gerusalemme annunciando la sua condanna. Gesù
sapeva sicuramente di questa condanna, ma non fugge, anzi, compie un atto
clamoroso: fa il suo ingresso in Gerusalemme tra due ali di folla esultante.
Perché? Per capirlo andiamo a leggere il Vangelo di Giovanni (12,20-36):
Tra
quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c’erano anche alcuni
Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli
chiesero: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo
andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose: «È giunta l’ora che sia glorificato il
Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in
terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la
sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la
vita eterna.
Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà
anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà. Ora l’anima mia è
turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono
giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal
cielo: «L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò!».
La folla che era presente e aveva udito diceva che era
stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Rispose Gesù:
«Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo
mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io, quando sarò
elevato da terra, attirerò tutti a me». Questo diceva per indicare di qual
morte doveva morire. Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla
Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio
dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?». Gesù allora
disse loro: «Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la
luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa
dove va. Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce».
Gesù disse queste cose, poi se ne andò e si nascose da
loro.
Gesù è
solo; è al termine della sua predicazione, della sua vita in mezzo alle folle e
si rende conto della sua sconfitta: tutta la sua opera non è servita a nulla.
Gli unici che lo seguono, che vogliono conoscerlo, sono greci. Il suo popolo,
Israele, non solo non lo vuole seguire, ma nemmeno ascoltare(9) da
quando si è accorto che Gesù non vuole riconquistare il regno di Israele, ma
vuole insegnare loro a vivere senza la Legge, accogliendo l’amore di Dio.
Gesù è un
fallito, le sue parole si disperdono al vento; in quel momento comprende che
esiste una sola cosa che convincerà i suoi compatrioti della verità racchiusa
nelle sue parole, se egli accetterà di morire a causa delle sue parole.
Finora
era fuggito “per paura dei Giudei”,
si era rifugiato prima in Galilea, poi nel territorio di Tiro e Sidone, ed
infine dai samaritani. Ora non più, ora
entrerà in Gerusalemme sfidando il Sinedrio che lo ha condannato: “È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo.
In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore,
rimane solo; se invece muore, produce molto frutto ….Io, quando sarò elevato da
terra, attirerò tutti a me”.
E’ il
momento della grande decisione, del suo atto di coraggio; ricorda le parole del
profeta Zaccaria (Zac9,9) e vi si
adegua (Mt11,1-10):
“Quando furono vicini
a Gerusalemme e giunsero presso Betfage, verso il monte degli ulivi, disse ai
suoi discepoli: andate nel villaggio davanti a voi e subito troverete un’asina
legata e con essa un puledro: scioglieteli e conduceteli a me …”
Questo ingresso che,
volutamente o no, ha messo Gesù alla ribalta, è in pratica una tentazione per
il Sinedrio: sono qui, venite a prendermi. La folla osannante che lo chiama
Figlio di Davide è un ottima scusa per accusarlo di fronte ai romani di voler
sovvertire la signoria di Cesare per farsi re; scusa indispensabile perché i
romani non avrebbero mai eseguito una condanna a morte per accuse di tipo
religioso o per atti in contrasto con la Torah.
Il problema, per il
Sinedrio, era la cattura: in prossimità della Pasqua vi erano in Gerusalemme
decine di migliaia di pellegrini, molti dei quali Galilei, con i quali non si
poteva scherzare. I Galilei erano teste calde, quasi tutti armati e quasi tutti
appartenenti al movimento degli zeloti, pronti a difendere un loro concittadino
dalle malsane idee dei fratelli della tribù di Giuda.
I Galilei, durante la
Pasqua, vivevano quasi tutti nelle grotte esistenti lungo le pendici del Monte
degli Ulivi, dove, molto probabilmente, anche Gesù e i Dodici avevano affittato
una grotta per dormire. Queste grotte sono ancor oggi visibili e visitabili da
chi si reca in Terra Santa.
In queste condizioni
le guardie del Tempio non avrebbero potuto andare di grotta in grotta a
chiedere di Gesù senza rischiare di essere come minimo picchiati se non di
lasciarci la pelle; qui si innesta la vicenda di Giuda che offre ai sacerdoti
la possibilità di indicare a colpo sicuro Gesù alle guardie che venivano ad
arrestarlo.
Quello di Giuda fu un
tradimento? Secondo il Vangelo di Giovanni fu tradimento causato
dall’ingordigia verso il denaro; Giovanni tratta Giuda con un’acredine che fa
pensare ad una vecchia ruggine tra i due.
Oggi si pensa che
Giuda fosse profondamente deluso del comportamento di Gesù: Giuda, infatti, era
uno zelota (iscariota = portatore di pugnale) e si era unito al gruppo
pensando, come molti dei dodici del resto, ad una rivoluzione contro i romani
guidata da Gesù(11). Vedendo che Gesù non prendeva l’iniziativa, ne
ha voluto provocare la reazione ponendolo di fronte al fatto compiuto: o
reagisci, o sei arrestato; del resto il luogo dove doveva avvenire la consegna
di Gesù avrebbe fornito facilmente le truppe per una rapida reazione
all’arresto. Sarebbe bastato un grido di aiuto di Gesù e i galilei presenti
avrebbero facilmente avuto ragione delle guardie del Tempio che, per
disposizione romana, non potevano essere armate che di bastoni.
A questo punto si
innesta il concetto che Gesù aveva della violenza. Gesù non avrebbe mai alzato
il pugnale contro un qualsiasi essere umano, né avrebbe consentito che fosse
fatto da altri. Gesù avrebbe sempre seguito la volontà del Padre di amare
tutti, indistintamente; una volta deciso di non fuggire più, non esisteva altra
alternativa che non passasse per la violenza, se non la sua consegna spontanea
senza spargimento di sangue. Solo questo poteva permettergli di fare “la
volontà del Padre”.
Nei
Vangeli risulta chiaro questo atteggiamento di Cristo nei confronti della
violenza ed in particolare al momento della sua cattura.
L'ultima cena, nel contesto
di una comunione particolarmente intima con i suoi, propone una tensione
apparentemente insostenibile:
quella tra una comunione-presenza definitiva e indefettibile offerta nel gesto del pane e del
vino e la sua prossima separazione
dai discepoli. Egli propone un gesto sconvolgente in cui sembra venir meno quello che è donato: la pretesa della
sua assoluta rappresentanza di Dio che è
data nella comunione a Gesù e la morte/separazione che è già intravista
come decisiva negazione di quella pretesa.
Forse è qui che ritrova
l'abisso
ineffabile di come Gesù ha compreso e spiegato la sua morte: il morire di Gesù, e il morire di croce,
è visto come la condizione di una dedizione incondizionata di sé, di una
solidarietà assoluta che si realizza precisamente nel non far valere la propria
pretesa della sua assoluta
rappresentanza di Dio, ma nell'affidarla
radicalmente nelle mani del Padre.
La
tremenda notte passata in preghiera nell’orto del Getsemani in cui Gesù,
perfettamente conscio di quello che succederà di li a poco, è tentato di
chiedere aiuto: “.. se è possibile
allontana da me questo calice …”; la sua natura umana quasi chiede al Padre
di derogare dall’amore, di difendersi, ma subito subentra il desiderio di
assimilarsi al Padre e accetta l’immenso atto d’amore che ne è la conseguenza:
“… ma sia fatta la tua e non la mia
volontà …”, dimostrando l’immenso coraggio di amare fino in fondo tutti,
anche coloro che lo tortureranno, come sta facendo il Padre.
Arrivano a catturarlo in
ottocento(12) il che dimostra la paura che avevano di una eventuale
insurrezione da parte dei galilei e Gesù si consegna spontaneamente stroncando
sul nascere qualunque tentativo di reagire dei suoi.
Il
Sinedrio è riunito in seduta straordinaria, di notte, fatto eccezionale; è
indispensabile modificare la modalità di esecuzione della condanna da
lapidazione a crocifissione.
Questa
scelta è un atto politico: nel Deuteronomio è scritto che questa morte è
riservata ai maledetti da Dio, a coloro cui Dio ha voltato le spalle
permettendo una morte così atroce. E’ l’unico modo che i sacerdoti(13)
hanno per dimostrare la falsità della predicazione di Gesù: se Gesù muore in
croce abbandonato da Dio tutto quello che lui ha insegnato perde qualunque
significato, era una menzogna ingannevole.
Atto
politico perfetto, che richiede, però, la collaborazione dei romani che non si
muoveranno se non avranno il sospetto che l’azione di Gesù era un pericolo per
la loro sovranità.
Ecco il
ricorso a Pilato, ecco l’accusa di volersi fare re, ecco la reazione della
folla che fa pressione sul debole proconsole romano timoroso di trovarsi di
fronte un’ennesima rivolta; se indugia, questa volta la sommossa non sarà
conseguenza della propria stoltezza e incapacità(14), ma del suo
assurdo rifiuto di fronte ad un nemico dell’Impero. Per farlo rimuovere a
Tiberio sarebbe bastato anche meno.
Gesù è
condannato; i discepoli si disperdono, la sua solitudine è impressionante.
Rimane in balia della soldataglia per ore. Sfinito dal dolore, sanguinante, con
l’animo distrutto dagli insulti e dall’attesa del terribile supplizio, viene
condotto al patibolo tra due ali di folla; anche questo è un atto che il
Sinedrio ha attentamente programmato come distruzione della figura di Gesù di
fronte ai suoi seguaci.
Gesù è crocifisso,
è innalzato come lui stesso ha detto; è talmente debole che resisterà poco più
di due ore alla tortura(15).
Gesù
muore; poco prima ha lanciato il suo grido: “Dio
mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. E’ l’inizio del salmo 22 che
Gesù ha tentato di proclamare. Non è un grido disperato: nel salmo 22 c’è prima
una manifestazione di sofferenza e di richiesta di aiuto, poi la proclamazione
del Padre che salva. Per Gesù è il suo grido di vittoria: ci sono riuscito,
tutti guarderanno a me e la volontà del Padre è rispettata.
Lo
sguardo di tutti è rivolto a lui. “… È uno spettacolo che occorre vedere e rivedere [...], penetrare,
scrutare e ripensare. È il grande dramma, l’unico che vale la pena di vedere
perché illumina tutti gli altri» (Maggioni 2001, 158).
E’ uno sguardo - bisogna
aggiungere - già attraversato dalla luce della risurrezione che ci fa vedere la luce abbagliante del Padre a
cui Gesù consegna lo spirito, ci mostra il
perdono di Dio, la sua riconciliazione, la ricongiunzione del malfattore nell'oggi del paradiso, lo squarciarsi del
velo del Tempio ormai inutile, non più luogo della presenza di Dio.
D'altra parte, si esprime in un linguaggio di
confessione, perché rivela la nostra ansia
nel tempo della ultima tribolazione («Figlie
di Gerusalemme... piangete su voi stesse e sui vostri figli»), dimostra il nostro orgoglio inconsapevole («Padre
perdona loro perché non sanno quello che fanno»!), l'insensatezza della nostra sfida e del nostro rifiuto («Se sei tu il Cristo...»), suscita il
riconoscimento del giusto e insieme
della nostra ingiustizia («Gesù ricordati
di me quanto entrerai nel tuo Regno»),
ci spinge alla confessione delle nostre colpe («Se ne tornavano percuotendosi il
petto») e da ultimo riconosce la identità di Gesù, quella del giusto di Dio
(«Veramente quest'uomo era giusto!»).
Ecco lo spettacolo della croce: mentre ci fa riconoscere
la morte di Gesù come il luogo della
riconciliazione e del perdono, rivela noi a noi stessi come gli indifferenti, i
distanti, coloro che rifiutano o sfidano Dio, ma insieme come coloro che proprio
riconoscendo la morte del Figlio che consegna se stesso al Padre, si battono il petto, chiedono il perdono, si dichiarano
colpevoli, confessano la colpa, si
aprono all'oggi della salvezza.
Ecco la conversione del
cuore che è ad un tempo
condizione e frutto della contemplazione della croce. Ecco lo sguardo che ha plasmato quel vedere credente che trae
origine dalla risurrezione di Gesù.
Quello che la predicazione ed i segni non sono riusciti
a dare, viene donato tutto sulla croce. Il predicatore, il profeta che per tre
anni ha sfidato il potere religioso aprendo gli occhi a centinaia di discepoli su
un Dio amore nascosto dalla legge ed è sfuggito tante volte alla cattura, si è
consegnato volontariamente agli aguzzini per insegnare a tutti che l’amore non
permette mancanze, che le proprie convinzioni non cedono davanti al patibolo,
che si muore per quello che si pensa e ci si affida al Padre per il quale la
coerenza (“…il vostro dire sia si si e no
no…”) ha un valore superiore a tante preghiere e tante devozioni.
I Sinottici, Paolo e Giovanni non faranno altro che
rileggere questo nucleo ricuperando le grandi immagini dell'AT: perciò, nella loro elaborazione,
la morte di Gesù diviene la «redenzione», il «sacrificio», il «riscatto»; Gesù
porta a compimento tutti i sacrifici dell'AT, ma non li realizza più in
un gesto rituale, bensì nel dare la sua vita per la moltitudine, nell'offerta
personale.
Così i testi
dell'istituzione dell'Eucaristìa (Mc 14,24; Mt 26,27; Lc 22,20; 1Cor 11,25) possono
parlare del dono di Gesù come “sacrificio” di alleanza.
Diversi autori sono spinti
a pensare al rito di espiazione e purificazione (Eb 9-10; 18; Rm 3,25; 2Cor
5,21; 1Gv 2,2; 4,10) e la lettera agli Efesini parlerà di olocausto (5,2).
Così Giovanni si riferirà
alla tematica dell'agnello
pasquale all'inizio (1,29) e alla fine (19,31-37) del suo vangelo, con uno
stupendo richiamo. Si tratta di un sacrificio che non mira a mutare la volontà
di un Dio adirato, ma si
iscrive entro l'alleanza di Dio che rende possibile i gesti di riconciliazione del suo popolo.
Egualmente, il NT parla della morte di Gesù come redenzione (Mt
20,25-28;
1 Tim 2,6; Tito 2,14): essa rimanda alla esperienza di liberazione del popolo
di Israele dall'Egitto, secondo l'immagine del 'goel (redentore), che nel diritto familiare era il parente
prossimo che doveva riscattare il fratello caduto in schiavitù.
Dio si fa il fratello maggiore che riscatta il
suo popolo dalla schiavitù dell'Egitto, lo
libera dalla soggezione al Faraone. Così Gesù è il redentore, è colui che da
la sua vita in riscatto per la moltitudine, non perché sia tenuto a pagare
qualcosa a qualcuno, ma perché è il volto del Dio fedele a sé stesso, che non può lasciare noi in balia del
nostro egoismo e della morte.
Con Gesù il Padre ci ha dato tutto se
stesso, la sua stessa vita,
lasciandola in balìa del tradimento, dell'abbandono, della morte violenta e della
sopraffazione di noi uomini. Per questo Gesù muore per noi, nel duplice senso
di «a causa» del nostro peccato e di «a vantaggio» nostro.
Assumendo e portando il nostro rifiuto, lo
riconcilia nel luogo stesso dove noi abbiamo chiuso le porte a Dio, e lo trascende
nel suo gesto d'amore incondizionato.
Forse solo qui, in punta di piedi, può essere
posta la domanda, su cui invece noi abbiamo spesso costruito interminabili
discorsi. Perché era necessaria la sofferenza, l'inaudito dolore a cui Gesù si è
sottomesso? Dio non poteva
salvarci in un modo più diretto, meno violento, non poteva condonarci tutto, senza la croce del
Figlio? Perché la passione e la morte di Gesù? Perché una morte così? A queste domande
formidabili non si può rispondere che balbettando. Certo possiamo notare che Gesù ci
riconcilia non perché soffre, ma mentre soffre. La sofferenza non è una scelta di
Dio, ma una conseguenza del rifiuto e della negazione degli uomini.
Note: 1. Il testo che segue è in parte
liberamente tratto dalla conferenza “Disobbediente fino alla morte” tenuta in
Assisi nel settembre 2002 da Padre Alberto Maggi, OSM. – 2. Quanto segue è liberamente tratto da un articolo di Mons.
Franco Giulio Brambilla. – 3. Gv 11,
49-53 Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell’anno,
disse loro: «Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia
un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera». Questo però non lo
disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva
morire per la nazione e non per la nazione soltanto, ma anche per riunire
insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di
ucciderlo. – 4. Vedi come esempio Mt 15,1 e Mc 3,22. – 5. Penso sia
opportuno ricordare che il peccato secondo la cultura ebraica era molto diverso
dalla concezione di peccato che ci ha presentato Cristo e quest’ultima è
diversa a sua volta dalla concezione cattolica del peccato. – 6. Lc 7,22: … i ciechi riacquistano la vista,
gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono … - 7. Il
Sinedrio era una assemblea di anziani e maggiorenti giudaici a cui i romani
avevano concesso di governare Israele dal punto di vista religioso ed
amministrativo. Il Sinedrio era presieduto dal Sommo Sacerdote in carica
(scelto in pratica dai romani), da rappresentanti della casta sacerdotale e
delle altre caste influenti nel paese. Aveva anche funzioni giudiziarie ma non
poteva comminare la pena di morte né, tanto meno, eseguirla. – 8. “Un araldo,
per quaranta giorni, prima dell’esecuzione, uscì gridando: Sarà lapidato perché
ha praticato la stregoneria e ingannato Israele per sviarlo” (Sanh.,B.,43a).
L’accusa a Gesù di essere “uno stregone che ingannava la gente” durerà a lungo
(Giustino, Dialogo con Trifone, 69,
7). Ancora nel IV secolo Girolamo scrive in una lettera che “mago è un altro
nome dato dai Giudei al mio Signore” (Lettera XLV, 6, Ad Asella). – 9. Gv 6, 66-67:
Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con
lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Forse anche voi volete andarvene?». –
10. Dal IX secolo a.C. Israele era diviso in due regni: il regno della casa di
Davide e il regno del nord. La guerra tra di loro è stata un disastro: ha
portato all’occupazione straniera, ormai permanente; nell’attesa della gente
c’era la speranza di un Messia come Davide. Davide, dagli stessi ebrei, è
definito un Serial Killer. Davide ha eliminato sistematicamente tutti
quelli che potevano nuocere al suo potere. Davide era un bandito terribile,
pericolosissimo, che dove arrivava portava devastazione e morte. E’ una figura
che sconcerta: noi siamo abituati a identificarlo col pastorello di Betlemme,
con il duellante contro Golia, ecc… Ma questo l’ha fatto scrivere più tardi lui
stesso, quando ha preso possesso del trono. A corte c’è sempre il compiacente
storiografo che riscrive la storia secondo il volere del potente di turno. Ma
la Bibbia, che contiene anche elementi storici e concreti, afferma che Davide
era un capobanda: un uomo di una ferocia e di una spietatezza incredibili, che
è riuscito a scalzare dal potere il povero Saul e poi ha fatto scrivere che Dio
lo aveva abbandonato. Pensate che per ottenere in moglie la figlia di Saul,
presentò come bomboniere 200 prepuzi dei Filistei (1Sam 18,27). Questo era Davide: le sue mani grondavano sangue.
Tant’è vero che quando volle costruire il tempio del Signore, il Signore gli
mandò il profeta per dirgli: no, le tue mani grondano sangue e tu non mi costruirai
nessun tempio (1Cro 22,7-8). Nell’aspettativa popolare, comunque, questo re
che era riuscito a riunire le 12 tribù e aveva inaugurato il regno di Israele,
era l’ideale del Messia. – 11. Nel Vangelo di Giuda, apocrifo presumibilmente
del IV secolo, si segue un’altra ipotesi, che sia stato lo stesso Gesù a
chiedere a Giuda di fingere di tradirlo per favorire la sua cattura senza
spargimento di sangue. – 12. Secondo Giovanni, per catturare Gesù si scatena
un'operazione di polizia senza pari. Vengono infatti impiegati “la coorte
con il comandante e le guardie dei Giudei” (Gv 18,3.12). Il termine coorte
(in greco speira) indica un distaccamento tra 600 e 1000 soldati al
comando del procuratore romano per il mantenimento dell’ordine nella città di
Gerusalemme. Le guardie in servizio al tempio di Gerusalemme, erano circa
duecento, alle dipendenze del sommo sacerdote per la sicurezza del Tempio. Tra
i due corpi c’era profonda rivalità e inimicizia, ma ora le due forze di
polizia sono unite, di fronte a un unico pericolo. – 13. I sacerdoti hanno
compreso che la condanna a morte di Gesù potrebbe trasformarsi in una
dimostrazione della validità della sua predicazione e la morte come uno
eccezionale strumento di diffusione delle sue idee. – 14. Come nel caso degli
scudi dipinti esposti lungo il muro del Tempio oppure delle insegne della
legione fatte entrare di notte in Gerusalemme; se poi si ricorda che i soldati
della legione si erano voluti chiamate
“I porci” per dispregio ai giudei che consideravano il maiale un animale impuro
al sommo grado, si completa il quadro dei guai di Ponzio Pilato. – 15. La morte
non sopravveniva mai prima di tre giorni. Normalmente il condannato moriva tra
il terzo e il settimo giorno. La morte avveniva per asfissia: immaginate una persona appesa, che per respirare deve sollevarsi
facendo forza sui piedi; quando le forze mancheranno morirà per l’impossibilità
a sollevarsi. In alcuni casi, per prolungare la sofferenza, mettevano sotto il
sedere un piccolo piolo, sul quale la persona, in qualche modo, poteva
appoggiarsi per cercare di riprendere fiato. Ecco perché, avvicinandosi la
giornata della Pasqua, ai due condannati con Gesù spezzano le gambe, in questo
modo, non potendosi più alzare, muoiono immediatamente.