Domenica 24 novembre 2013 – XXXIV Domenica
del Tempo Ordinario
Lc 23,35-43
Il popolo
stava a vedere; i capi invece lo deridevano dicendo: «Ha salvato altri! Salvi
se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l'eletto». Anche i soldati lo deridevano,
gli si accostavano per porgergli dell'aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei
Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c'era anche una scritta: «Costui è il re
dei Giudei».
Uno dei
malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te
stesso e noi!». L'altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore
di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché
riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha
fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo
regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
Concludiamo l'anno liturgico di Luca con la
più inquietante e devastante festa liturgica, quella di Cristo Re(1).
Fatichiamo a sentire famigliarità con la
dimensione della regalità, immersi come siamo in una esperienza democratica,
anche se faticosa e, talvolta, deludente. I re che ancora vediamo sono, il più
delle volte, re dei settimanali scandalistici e dei gossip da quattro soldi, e
non ci invitano certo a riflettere.
Eppure questa festa, se pur lontana dalla
nostra sensibilità, porta in sé una vera e propria novità di vita, se presa sul
serio.
Il senso della festa è quello di rivolgere lo
sguardo altrove, in avanti, chiederci, seriamente, dove stiamo andando a
finire.
Le ragioni per scoraggiarsi non mancano, e la
fragile storia fatta di armi e di violenza, continua a dettare legge. No, non è
cambiato molto in questi duemila anni di cristianesimo, il Regno sembra essere
un bel progetto rimasto sulla carta. Ma non è così: la festa di oggi ci
richiama ad una verità che sfida la nostra tiepida contemporaneità, il nostro
cristianesimo miope, fatto di piccoli progetti. Se Gesù Cristo è re significa
dire che avrà l'ultima parola sulla storia, su ogni storia, quindi anche sulla
mia storia personale.
Dire che Cristo è re, significa non
arrendersi all'evidenza della sconfitta di Dio e dell'uomo, credere che il
mondo non sta precipitando nel caos, ma nell'abbraccio tenerissimo e gravido
del Padre. Dire che Cristo è re, significa creare spazi di rappresentanza del
Regno là dove stiamo vivendo la nostra vocazione alla vita, piccoli spazi
pubblicitari per dire agli smarriti di cuore: ecco, Dio vi ama.
Oggi è la festa in cui le comunità guardano
avanti, al di là e al di dentro dei nostri sforzi perché, sempre, il metro di
giudizio del nostro essere Chiesa è la realizzazione del Regno.
Chiediamocelo noi, se nei nostri Consigli
Pastorali, nelle nostre programmazioni, è sempre evidente che tutto ciò che facciamo,
dalla catechesi alla carità, è indirizzato alla realizzazione del Regno.
Già questa riflessione ci mette in crisi. Noi
ci scoraggiamo se in Parrocchia una proposta non funziona, non ci passa neanche
per l'anticamera del cervello che, forse, non era consona all'edificazione del
Regno.
Ma c'è di più: la regalità di Gesù è una
regalità che contraddice la nostra visione di Dio.
Perché questo Dio è più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato.
Perché questo Dio è più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato.
Ecco: questo è il nostro Dio, un Dio
sconfitto.
Non un Dio trionfante, non un Dio
onnipotente, ma un Dio osteso, mostrato, sfigurato, piagato, arreso, sconfitto.
Una sconfitta che, per Lui, è un evidente
gesto d'amore, un impressionante dono di sé.
Un Dio sconfitto per amore, un Dio che –
inaspettatamente – manifesta la sua grandezza nell'amore e nel perdono. Dio –
lui sì – si mette in gioco, si scopre, si svela, si consegna.
Dio non è nascosto, misterioso: è evidente,
provocatoriamente evidente; appeso ad una croce, apparentemente sconfitto,
gioca il tutto per tutto per piegare la durezza dell'uomo.
Gesù è venuto a dire Dio, a raccontarlo. Lui,
figlio del Padre ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E l'uomo replica.
"No, grazie". Forse preferiamo un Dio un po' severo e scostante,
sommo egoista bastante a se stesso, potente da convincere e da tenere buono.
Forse l'idea pagana di Dio che ci facciamo ci
soddisfa maggiormente perché ci assomiglia di più, non ci costringe a
conversione, ci chiede superstizione: candele accese, preghiere ripetute a
pappagallo, litanie inconcludenti; non piega i nostri affetti verso la
comprensione e l’aiuto agli altri, ma solletica il nostro egoismo.
La chiave di lettura del vangelo di oggi è
tutta in quell'inquietante affermazione della folla a Gesù: "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso". Frase che
Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: tutti concordano nel
ritenere un segno di debolezza il dover dipendere dagli altri.
Il potente, così come ce lo immaginiamo, è
colui che salva se stesso, può permettersi di pensare solo a sé, ha i mezzi per
essere soddisfatto, senza avere bisogno degli altri.
Dio è ciò che non possiamo permetterci di
essere, il più potente dei potenti, che può tutto, che non ha bisogno di niente
e di nessuno, beato lui! Dio diventa la proiezione dei nostri più nascosti e
inconfessati desideri, è ciò che ammiriamo nell'uomo politico riuscito, ricco e
sicuro, allora cerchiamo di sedurlo, di blandirlo, di corromperlo.
No, il nostro Dio non salva se stesso, salva
noi, salva me.
Dio si autorealizza donandosi,
relazionandosi, aprendosi a me, a noi.
I due ladroni - infine - sono la sintesi del
diventare discepoli. Il primo sfida Dio, lo mette alla prova: se esisti fa' che
accada questo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso (di nuovo!) e
noi, e me. Concepisce Dio come un re di cui essere suddito. Ma a certe
condizioni, ottenendo in cambio ciò che desidera: una redenzione in extremis.
Non ammette le sue responsabilità, non è adulto nel rileggere la sua vita,
tenta il colpo. Non è amorevole la sua richiesta: trasuda piccineria ed
egoismo. Come - spesso – la nostra fede. Cosa ci guadagno se credo?
L'altro ladro, invece, è solo stupito. Non sa
capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì, vicino a lui e condivide la sofferenza.
Una sofferenza conseguenza delle sue scelte, la sua. Innocente e pura quella di
Dio. Ecco l'icona del discepolo: colui che si accorge che il vero volto di Dio
è la compassione e che il vero volto dell'uomo è la tenerezza e il perdono.
Nella sofferenza possiamo cadere nella disperazione, oppure cadere ai piedi
della croce e confessare: davvero quest'uomo è il Figlio di Dio.
Che re sbilenco: un re che indica un altro
modo di vivere, che contraddice il nostro "salvare noi stessi" per
salvare gli altri o – meglio – per lasciarci salvare da Lui.
Siamo onesti, amici. Luca ci lascia con una
domanda da porci seriamente: lo vogliamo davvero un Dio così? Un Dio debole che
sta dalla parte dei deboli? E' questo, davvero, il Dio che vorremmo? Di quale
Dio vogliamo essere discepoli? Di quale re vogliamo essere sudditi? Non date
risposte affrettate, per favore, sennò ci tocca convertirci.
Nota: 1. L’esegesi che segue è liberamente tratta da un’omeria
di Don Paolo Curtaz del 21.11.2010.