(segue dalla domenica precedente)
Lo sviluppo del messianesimo regale porterà gli ebrei
a concepire un messia con caratteristiche ben precise che avranno una
importanza enorme nella vita di Gesù:
il messia (ovvero
l’unto, il consacrato) aveva il compito di giudicare e distruggere i peccatori(1)
(cioè le persone che non seguono la Legge) che con la loro presenza impediscono
la venuta del Regno di Dio(2), di restaurare il Regno di Israele, di
sottomettere tutti i popoli della terra che renderanno tributi ad Israele. Se
leggiamo la terza parte del profeta Isaia(3) (IV secolo a.C.), dove
l’autore, in un clima di esaltazione, descrive il regno di Dio, dice: “io vedo il regno di Dio, dove schiere immense
di dromedari e di cammelli, che portano le ricchezze dei pagani a Gerusalemme”.
Secondo la mentalità ebraica il regno di Dio consiste quindi nel fatto che
Israele sottometterà i popoli pagani e riscuoterà i loro tributi; nel regno di
Dio, le principesse e i principi pagani, saranno i loro servi. Nel Talmud(4),
che è un testo che vuole essere preciso, definisce che il numero degli schiavi,
per ebreo, sarà di 2480 a testa.
Il messia nascerà dalla
stirpe di Davide, sarà quindi Figlio di Davide(5); come tutti i re
che lo hanno preceduto, sarà adottato da Dio(6) che lo custodirà e
lo aiuterà.
Quando Gesù inizierà la sua vita pubblica dovrà
combattere contro questa concezione del messia e troverà enorme difficoltà a
farsi capire, anche nell’ambito ristretto degli Apostoli che fino all’ultimo
aspetteranno il momento nel quale Gesù, abbandonate le vesti miti, sarebbe
diventato il Re di Israele.
3. La “pressione” della Torah.
Se l’ansia dell’attesa
del Messia diventava sempre più parossistica con il passare degli anni, sul
popolo ebraico gravava anche un peso (un “giogo” come dirà Gesù; Mt 11,28-30) spesso insopportabile: la
Legge, la Torah.
Nata per definire
regole di comportamento etico, con il Levitico ed il Deuteronomio dalle regole
generali si era passati ad una casistica fin troppo minuta che, se era
comprensibile in campo liturgico, nella vita comune diventava una vera palla al
piede.
La rigidità, o meglio,
la precisione nell’applicazione della Torah vede sorgere dei sostenitori nel
gruppo dei farisei.
Il nome
deriva dal greco pharisaios, che viene dall’ebraico perushim, che significa
“separati”. Essi infatti si separano dagli altri uomini perché il regno di Dio
è solo per i giusti, coloro che rispettano la Legge, (ma per Gesù il regno non
è per i santi ma per gli esclusi, i pagani, i peccatori e le prostitute Mt 21,31). I farisei costituiscono un
movimento religioso spirituale radicale, i cui membri, laici e progressisti,
vanno a formare una potente corrente spirituale, costituita da un numero non
irrilevante di persone devote con atteggiamenti molto radicali. Solitamente
pacifici, ma talora spietati verso chi si opponeva alla loro visione religiosa,
tant’è vero che uno dei due fondatori del movimento degli zeloti era un
fariseo; lo stesso apostolo Paolo prima della conversione era stato un fariseo,
feroce persecutore dei cristiani e Stefano fu una delle tante vittime. Essi
rispettavano in tutti giorni dell'anno le norme di purità e di santità che i
sacerdoti erano obbligati a rispettare solo una volta l'anno; anche nel
pagamento delle decime al Tempio esageravano, pagando anche per i prodotti che
ne erano esenti: più preti dei preti! “Separati” da tutti gli altri uomini che
non potevano, o non volevano, rispettare quotidianamente le 613 regole o
precetti, religiosi o igienici o rituali, estrapolati dalla Legge scritta ed
orale. Il numero 613 viene dalla somma di 248 precetti (le parti del corpo
umano) e 365 proibizioni (i giorni dell'anno): ossia tutto l'uomo e tutto
l'anno, per tutta la vita.
Non solo, ma
erano anche rispettosi delle 1521 azioni proibite nel giorno di sabato (i 39
lavori principali usati nella costruzione del Tempio, suddivisi a sua volta in
39 sotto lavori), secondo le indicazioni degli Scribi. Per la mentalità
farisaica ciò li rendeva più vicini e graditi a Dio e solo così avrebbero
conseguito la resurrezione alla fine dei tempi e la vita eterna. Costituivano
un'elite religiosa che, con la perfetta osservanza, si "separava" da
tutto ciò che, secondo i dettami del Levitico, avrebbe potuto contaminare il
loro stato di purità, uomini compresi, ma specialmente le donne, i malati, i
morti, i peccatori, gli stranieri.
Persone pie,
laici che si ritenevano gli eletti tra gli eletti, eppure disprezzati dagli
Esseni che non li ritenevano abbastanza osservanti. I farisei, devoti
osservanti della legge, guide spirituali del popolo, pensavano che la venuta
della signoria di Dio (ovvero del messia) dipendesse dalla fedeltà
all'osservanza e non si impegnavano nel miglioramento della situazione sociale ingiusta.
Erano quindi spiritualisti inattivi che, sebbene odiassero il regime romano,
non ne mettevano in pericolo la stabilità.
Secondo loro
Dio avrebbe inaugurato la sua signoria per mezzo del Messia, con una specie di
colpo di stato che avrebbe cambiato la situazione politica e sociale.
Professionisti del sacro e modelli di santità, si sentivano, ed erano
considerati, un esempio da seguire, amati e stimati dalla gente, che li
considerava i giusti per antonomasia. Alcuni, i più ricchi e influenti, facevano
parte anche del Sinedrio. Per questa ragione il loro comportamento tendeva alla
separazione da coloro che non si comportavano in maniera siffatta; essi,
infatti, nutrivano profondo disprezzo nei riguardi del popolo che, troppo
occupato a sopravvivere, non poteva rispettare la Legge. Si ritenevano gli
eletti tra gli eletti, l’elite spirituale, i santi, i puri, i pii laici
osservanti che volevano essere d’esempio, traendone un grande potere spirituale
che andava crescendo anche perché molti farisei erano anche scribi e
aggiungevano alla superiorità dell’esempio, quella della conoscenza della
Scrittura.
I farisei
avevano bisogno degli scribi che sostenevano il loro stile di vita e gli scribi
avevano bisogno dei farisei per mettere in pratica i loro insegnamenti. Ciò li
rendeva presuntuosi, arroganti, sicuri di sé perché autosufficienti, fino a
giungere a considerare la loro salvezza come un diritto conseguito per aver
rispettato ogni precetto della Legge: pensavano, anzi erano conviti, di dover
meritare l'amore gratuito di Dio: “«Due uomini salirono al tempio a pregare:
uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così
tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non
sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo
pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello
che possiedo»” (Lc 18,10-12). Ma
spesso il loro era solo uno scrupoloso quanto vuoto formalismo
spettacolarizzato, condannato da Gesù, ma ancora in voga ai nostri giorni: “E quando pregate, non siate simili agli
ipocriti che, nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, amano pregare stando
ritti, per essere visti dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto
la loro ricompensa” (Mt 6,5).
Al contrario
dei Sadducei, dichiaravano che anche la Legge orale era di origine divina,
credevano all’esistenza degli angeli, all'immortalità dell'anima e nella
resurrezione dei giusti nell’ultimo giorno. È a loro che si deve molto nella
salvaguardia delle tradizioni ebraiche e del Giudaismo dopo la distruzione del
Tempio e di Gerusalemme, nell’anno 70 d.C. ad opera dei romani comandati da
Tito.
Le premesse
per la nascita di questi movimenti religiosi giudaici osservanti si possono far
risalire al VI secolo a.C., al ritorno dall’esilio babilonese, al tempo della
riforma di Esdra e Nehemia, quando, per volontà dei re persiani succeduti a
Ciro il Grande, viene ricostruita Gerusalemme con il suo Tempio e si
ristabilisce l’osservanza della Legge in Palestina. Ma la nascita della fazione
dei farisei si può far risalire all'epoca dei Maccabei, con Giovanni Ircano I
(135-104) che diede vita ad un principato con una marcata impronta ellenistica,
in aperto antagonismo con la classe sacerdotale ed aristocratica dei sadducei.
Fra l'altro i farisei asserivano che tutto il popolo di Israele era santo e non
solo i sacerdoti, così che questi andarono progressivamente perdendo gran parte
della loro importanza politica e religiosa, con l’aumento del prestigio di
scribi e farisei. Siccome lo scopo della loro ribellione al potere politico era
solo quello di voler vivere totalmente secondo la tradizione della Legge, i
farisei ben presto abbandonarono la lotta armata (anche contro i romani)
intrapresa al tempo dei Maccabei, quando ebbero la completa libertà di culto.
L’influenza
dei farisei si espanse molto al finire del I secolo d.C. quando, dopo la
distruzione del Tempio, finito il culto e dispersa la nazione giudaica,
scomparsi sadducei, erodiani, esseni e zeloti, i farisei divennero le guide
esclusive del Giudaismo e i feroci persecutori dei cristiani, che furono
scomunicati e cacciati dalle sinagoghe. Di questa cacciata rimane un’eco nel
capitolo 23 del vangelo di Matteo. I farisei contestavano Gesù e i suoi
discepoli dichiarandoli impuri perché avevano rapporti con peccatori e
pubblicani, e addirittura mangiavano alla stessa tavola, non rispettavano il
sabato e non digiunavano due volte la settimana come loro facevano.
Nei vangeli
anche a causa di questa persecuzione, i farisei - e specie gli scribi-farisei -
sono descritti come personaggi molto negativi e sono chiamati ipocriti, guide
cieche, pazzi, razza di vipere, sepolcri imbiancati. Ma questa immagine non
rende giustizia alla complessità del mondo farisaico che, al tempo di Gesù, era
molto variegato e addirittura suddividibile in più categorie. Per esempio,
negli Atti viene ricordata la figura di Gamaliele, il maestro di Paolo
apostolo, che parlava con moderazione nel sinedrio, durante la persecuzione
degli apostoli. Tra l’altro Gesù condivide con loro il pensiero sulla
resurrezione dei morti, negata dai Sadducei. Insieme con gli scribi, i farisei
sono detti “ipocriti” non in senso morale ma nel senso di commedianti perché
recitano una commedia o meglio una tragedia.
Ma la
critica portata dagli evangelisti ai farisei è, in verità, contro la stessa
comunità cristiana: l'evangelista parla alla folla e ai discepoli non in
riferimento al passato, ma al presente, mostrando i danni di una teologia
basata sull'osservanza di regole (il lievito dei farisei). La verità è che
l'evangelista teme che nella sua comunità risorga l’idea farisaica del merito e
della purità; parla ai farisei perché ascoltino i cristiani e, nominando scribi
e farisei, richiama la sua comunità a non ricadere nei loro errori. Si
prospetta la possibilità che agisca di nuovo nelle Chiese primitive il lievito
dei farisei e le categorie del Giudaismo: la spiritualità del merito, delle
pratiche di pietà, dell'ipocrisia, dell'apparire e non dell'accoglienza del
dono gratuito di Dio. Insomma: non bisogna lasciare spazio alle degenerazioni
del fariseismo di tutte le epoche e di tutte le religioni, che purtroppo anche
oggi prova a risorgere contrastando l’azione di Papa Francesco.
Note: 1. Giovanni il battista dirà alle folle: (Mt 3, 12): “Egli ha in
mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il grano nel granaio; ma
brucerà la pula con fuoco inestinguibile.” – 2. Il concetto ebraico (diverso da
quello cristiano) di Regno di Dio si basa su due punti: il primo è legato al
fatto che il re di Israele ha come compito principale di curare il popolo (1Sam
10,1); il secondo si basa su Ez 34, 1-16 in cui Dio proclama che si prenderà
cura lui in prima persona del popolo di Israele. Il Regno di Dio è quindi il
momento in cui è Dio che si occupa direttamente dell’uomo. – 3. Is 49, 23; Is
60, 6; Is 60, 10. – 4. Libro che contiene una serie di insegnamenti, di
decreti, di dibattiti dei Rabbini sull’applicazione della legge di Mosè. Aveva
una notevole importanza e guidava il comportamento di tutti gli ebrei. – 5. Da
non confondere con il “Messia Figlio di Dio”, il cui significato è totalmente
diverso. Gesù non ha mai accettato il titolo di “Messia figlio di Davide”,
perché questo avrebbe stravolto completamente il senso della sua predicazione.
Ha rifiutato anche il titolo “Messia Figlio di Dio”, almeno fino al confronto
con Pilato, quando ormai ogni cosa era compiuta, perché non voleva essere
arrestato per bestemmia prima del tempo. Ha invece sempre accettato il titolo
“Figlio dell’uomo” perché questo si rifaceva al senso datogli da Daniele (Dn
7,13), cioè di uomo che supera misteriosamente la natura umana. – 6. L’adozione
da parte di Dio del re ricalca la tradizione imperiale romana; l’imperatore era
solito, in previsione della sua morte, scegliere tra i suoi conoscenti e
collaboratori, la persona che gli sembrava più adatta a succedergli. Lo
adottava e quindi lo dichiarava suo successore ed erede. Attribuire al re di
Israele l’appellativo di Figlio di Dio era cosa comune, ma questo appellativo
non deve essere confuso con l’attribuzione della natura divina a Cristo.
(segue la prossima domenica)