II Domenica del Tempo Ordinario
– Gv 1,29-34
Il giorno dopo,
vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l'agnello di Dio, colui che
toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: «Dopo di me viene
un uomo che è avanti a me, perché era prima di me». Io non lo conoscevo, ma
sono venuto a battezzare nell'acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».
Giovanni testimoniò
dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e
rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a
battezzare nell'acqua mi disse: «Colui sul quale vedrai discendere e rimanere
lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo». E io ho visto e ho
testimoniato che questi è il Figlio di Dio».
Giovanni afferma che Gesù toglie il peccato del
mondo e lo presenta così alle folle. Per comprendere questa affermazione, prima
di tutto, è necessario conoscere che cosa intendeva Giovanni per “peccato” e
cosa intendiamo noi oggi, altrimenti la sua affermazione è priva di
significato.
Nella teologia che ha
dominato la nostra giovinezza e che ci è stata inculcata tramite il catechismo,
esistevano sostanzialmente due tipi di peccato(1): quello
“comportamentale” e quello “cultuale”.
Il primo ha un
significato chiarissimo, è quello che dipende essenzialmente dai nostri
comportamenti. La teologia indicava i peccati come conseguenza al non aver ottemperato
ai dieci comandamenti ricevuti da Mosè sul Sinai(2).
Il peccato cultuale
è, invece, quello che è legato a modi di formulare il culto e quindi esiste per
un determinato periodo di tempo nella storia dell’uomo, poi, per motivi storici
o di evoluzione della cultura, cambiano le forme cultuali e non viene più
considerato un peccato.
Faccio solo un
esempio: ricorderete che prima del Concilio Vaticano II, il mangiare qualunque
tipo di carne il giorno di venerdì era considerato un peccato mortale(3):
se si mangiava il venerdì un pezzettino anche mimino di mortadella si
commetteva un peccato mortale ovvero si era separati da Dio. Se
malauguratamente, mangiando quel pezzettino di mortadella, questa andava di
traverso e si moriva, si finiva, insegnava la teologia, all’inferno per tutta
l’eternità.
Era ed è chiara
l’assoluta incongruenza di questo insegnamento con tutto l’insegnamento di
Cristo nei vangeli, cosa che risaltava in maniera evidente ad ogni persona che
ragionava con la propria testa: come era possibile che il Padre Eterno, per un
pezzetto di mortadella, si arrabbia con te al punto che non ne vuol più sentire
parlare, e se per caso muori ti condanna ad arrostire per tutta l’eternità? Non
c’è la proporzione tra il gesto e la pena. Peggio ancora: si mette in dubbio la
parola di Cristo che definisce il Padre “l’unico
buono”!
Questo ha causato un
grande esodo di tutte quelle persone che pensavano con il loro cervello e non
ritenevano possibile una situazione del genere; questa è stata ed è una delle
fonti dell’ateismo; infatti il Concilio dice che se molti non credono, la
responsabilità è del Dio che la Chiesa ha presentato loro in contrasto con
quanto è scritto nei vangeli(4).
Giovanni è l’ultimo
profeta dell’AT e ragiona in conformità ai principi dettati nel Pentateuco(5);
nell’AT non esiste una parola per peccato come noi lo intendiamo e non ne esiste
il senso teologico. Nell’AT ci sono parole che sono tutte in relazione con il
patto tra Dio ed il popolo di Israele, in relazione all’osservanza della Legge:
infedeltà, rottura del patto, iniquità, ribellione.
Un giorno all’anno, lo
Jomkipur(6), il sommo sacerdote imponeva le mani su di un caprone,
il capro espiatorio, sul quale scaricava tutte le colpe del popolo, qualunque
esse fossero, poi questo caprone veniva spedito nel deserto ove moriva di fame
e sete. E il popolo era perdonato da tutte le sue colpe.
Ma un secolo prima di
Gesù, una setta nascente, quella dei farisei(7), elaborò una
dottrina relativa al “puro e all’impuro” in maniera meticolosa e ossessiva, e
il senso del peccato invase tutta la vita del credente.
I farisei avevano
estrapolato dalla Legge tutte situazioni che fatichiamo oggi a comprendere
perchè nulla hanno a che fare con il nostro senso teologico di peccato: essere puro,
e quindi privo di peccato, significava che si poteva entrare in relazione con
Dio, impuro significava che questa relazione era chiusa. Non aveva senso
nemmeno pregare.
L’impurità si poteva
contrarre anche negli aspetti fisiologici della vita quotidiana, per gli
aspetti normali della vita, per cui le persone si ritrovavano sempre ad essere
in una condizione di impurità; in questo senso la vittima più tartassata, come
sempre, era la donna.
Se l’uomo aveva dei
periodi in cui poteva ritenersi puro, la donna era perennemente impura: le sue
mestruazioni la rendevano impura, i rapporti sessuali con il marito, la
maternità stessa la rendeva impura; la donna era in una condizione perenne di
impurità.
Gesù si trova di
fronte ad una situazione in cui tra Dio e gli uomini c’era una cappa; la cappa
del peccato, una situazione che rendeva la vita delle persone impossibile.
Il rapporto tra Dio e
gli uomini instaurato da Mosè, servo di Dio, era un rapporto tra dei servi e il
loro Signore, basato sull’obbedienza. Gesù presenta una nuova relazione con Dio,
non più come dei servi nei confronti del loro Signore, al quale devono obbedire,
ma quella di figli, nei confronti del loro Padre, al quale devono assomigliare;
non più un rapporto di obbedienza, ma un rapporto d’amore.
La conseguenza di
questo è l’eliminazione del concetto di peccato verso Dio: in Gesù, nel suo
messaggio, nel suo insegnamento, non si ritrova mai il peccato in relazione
alla divinità. Tanto meno il peccato come offesa a Dio.
Prima del Concilio vi
era quella breve preghiera chiamata atto di dolore, nel quale si diceva: “…perché
ho offeso Voi…”: l’idea del peccato era un’idea religiosa, che non appartiene
all’insegnamento di Gesù, il peccato come offesa a Dio.
Ogni qual volta Gesù
parla del peccato, esclude Dio. Per questo nei vangeli mai Gesù invita a
chiedere perdono a Dio.
Per Gesù il peccato non
può offendere Dio, ma offende l’uomo.
Il Concilio Vaticano
II nella “Gaudium et Spes” dice che il peccato è una diminuzione dell’uomo
stesso che gli impedisce di raggiungere la propria pienezza.
Gli evangelisti, che
fanno un uso attento delle parole, evitano tutti quei termini che indicano
peccato come trasgressione alla Legge, disobbedienza, violazione, e adoperano
essenzialmente due termini:
• uno che indica
letteralmente la direzione sbagliata di strada che precede sempre l’incontro
con Gesù. Quindi il termine che noi traduciamo con peccato è relativo solo a
chi ancora non conosce Gesù. Se fino allora una persona hai vissuto solo per se,
ora vive per gli altri; questo cambia orientamento alla propria esistenza e il
peccato viene cancellato completamente (vedere tutti gli incontri di Gesù con i
peccatori).
• il secondo è
relativo a dopo l’incontro con Gesù: sono gli errori che noi commettiamo, che gli
evangelisti non chiamano peccati, ma li chiamano errori, sbagli, mancanze, che
vengono cancellati nella misura che noi siamo capaci di cancellare le colpe,
gli sbagli, le mancanze degli altri. Vedere il testo del Padre Nostro.
Nel vangelo di Giovanni
troviamo un’altra espressione emblematica che riguarda il peccato.
Quando Giovanni il
Battista vede Gesù dice: “Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il -
attenzione all’articolo determinativo singolare!- il
peccato del mondo” (Gv 1,29).
È molto opportuno
ricordarci questo termine che è singolare: purtroppo - speriamo che in una
futura riforma liturgica venga corretto - chi celebrera l’Eucaristia, poco
prima della comunione, dice: “Agnello di Dio che togli i peccati del mondo”.
Perché è stata
modificata la frase di Giovanni? Quali sono i peccati del mondo? Secondo chi ha
compilato la liturgia, sono i nostri peccati.
L’agnello di Dio, nella
teologia in uso fino a qualche decennio fa, è l’animale sacrificato per i
peccati degli uomini; per questa teologia Gesù è morto per i nostri peccati(8),
ha espiato le nostre colpe, cose che fin da piccoli venivano messe in testa alle
persone, devastando la psiche ed ingenerando penitenze talvolta cruente.
In realtà non era
questo che intendeva Giovanni. L’agnello di Dio al quale Giovanni si riferisce
è l’agnello che Mosè chiede al suo popolo di mangiare la notte della
liberazione dalla schiavitù egiziana, perché la sua carne doveva dare la forza
per iniziare questo percorso di libertà e il suo sangue, sparso sugli stipiti
delle case, liberava dall’azione dell’angelo della morte, dello sterminatore,
secondo una tradizione risalente a ben prima di Abramo.
Questo è l’agnello di
Dio,
che trasposto poi nel messaggio cristiano indica Gesù la cui carne, mangiata,
dà la capacità di compiere il cammino verso la piena liberazione, il cui sangue
non libererà da una morte fisica ma libererà dalla morte definitiva, concedendo
all’uomo di continuare la vita attraverso la morte.
Ma - scrive
l’evangelista - quest’agnello di Dio è colui che toglie, (attenzione, toglie, non
espia) elimina, il peccato del
mondo.
Cioè, prima della
venuta di Gesù, c’era un peccato che era come una cappa che gravava sul mondo e
che Gesù non è venuto per espiare, ma a eliminare.
Il peccato del mondo,
secondo l’evangelista e lo si evince dai successivi
capitoli del suo vangelo, è il rifiuto alla pienezza di vita che Dio è
venuto a proporre a ogni uomo.
Dio vuole che ogni
uomo, accogliendo il suo amore, raggiunga la piena realizzazione di se stesso.
Quindi non è un Dio che diminuisce gli uomini, non è un Dio che li limita, ma è
un Dio che li potenzia, chiede agli uomini di raggiungere una condizione di
pienezza umana, che coincide addirittura con la condizione divina.
Ma come si fa a
rifiutare una proposta che è tutta a vantaggio dell’uomo? Non è possibile
rifiutare. Purtroppo il peccato del mondo è legato al crimine commesso dalle
autorità religiose che vedono nel progetto di Dio sugli uomini la fine del loro
potere. Le autorità religiose sono riuscite a creare un sistema in cui l’uomo (pensate
al senso dell’impurità) si sente sempre colpevole, sempre indegno, e
soprattutto lontano da Dio. Per liberarsi da questa sensazione di indegnità non
rimane che rivolgersi al sacerdote come intermediario nei confronti di Dio: tra
l’uomo e Dio si inserisce l’istituzione religiosa, ci sono i sacerdoti con i
loro riti, c’è il tempio, c’è il culto, le osservanze, e la Legge.
E questa Legge fa si
che l’uomo si senta perennemente in colpa, sempre indegno dell’amore di Dio. E’
un circolo vizioso in cui chi ci guadagna è solo il tempio e la casta
sacerdotale.
Per questo Gesù agirà sempre in contrasto con le
autorità religiose ed in contrasto con la Legge; per affermare questo accetterà
di morire di una morte orrenda: crocifisso.
Note: 1. In questa
spiegazione non seguo la teologia morale (per intenderci quella che distingueva
tra peccato ”mortale” e peccato “veniale”) ma l’analisi sociologica della
religione molto più vicina all’uomo della teologia morale. – 2. E’ opportuno
ricordare che la formulazione dei 10 comandamenti che si insegnava nel
catechismo non era uguale a quella di Mosè, ma era stata modificata per
adattarsi alle concezioni morali in uso nel XIX secolo. Il popolo non poteva
accorgersi di queste modifiche perché, in base ad una bolla di Pio IV (1590),
non gli era consentito di leggere la Bibbia. – 3. Come sia nato questo precetto
non è ancora chiaro del tutto; l’ipotesi più probabile è che esso sia sorto
intorno al V secolo nell’Africa del Nord dove, a contatto con consistenti
gruppi cristiani, vivevano gruppi pagani vegetariani per motivi religiosi
(vedevano negli animali l’espressione della divinità). I cristiani, per
imitazione, cominciarono ad astenersi dalle carni il venerdì, giorno della
morte di Gesù. Il precetto assunse forme diverse a seconda delle regioni in cui
si abitava: ad esempio nella zona dell’Italia cantrale, in particolare nel
Lazio, l’astenzione riguardava i latticini; nel Veneto ci si asteneva dalle
uova. – 4. Vedi Gaudium e Spes n. 19. –
5. Si chiamano Pentateuco i primi cinque
libri della Bibbia ebraica. – 6. In ebraico Jom significa
giorno, kipur significa perdono. – 7. Il termine farisei significa “separato”,
perché, osservando tutti i dettami della Legge, si separano dagli altri; erano
riusciti a estrapolare dalla Legge di Mosè ben 365 azioni che sono proibite.
365 come i giorni dell’anno, più 248 azioni che sono obbligatorie pari a quanto
allora si credeva fossero i componenti del corpo umano. – 8. Spiegare le motivazioni che hanno portato Gesù ad
accettare quella morte atroce esula da questa esegesi. La spiegazione, inoltre,
comporterebbe una lunga disamina. Al momento ricordo solo che la frase di Paolo
“morto per i nostri peccati” andrebbe più correttamente tradotta “morto a causa
dei nostri peccati” ed il “nostri” è riferito al popolo ebraico i cui capi
hanno mandato a morte Gesù per conservare il proprio potere senza che il
popolo, o almeno la parte più influente, facesse nulla.