XXIX Domenica del Tempo
Ordinario – Mc 10, 35-45
[Mentre erano sulla
strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano
sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti. Presi di nuovo in disparte i
Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: «Ecco, noi saliamo
a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e
agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo
derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo
tre giorni risorgerà»](1)
Gli si avvicinarono
Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu
faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che
io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno
alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete
quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel
battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù
disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui
io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o
alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato
preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».
Il
brano di oggi non presenta grandi difficoltà interpretative se lo si legge
tutto, a partire dal versetto 32.
Iniziando
la salita a Gerusalemme, Gesù vuole smentire le attese e le aspettative dei
dodici(2): “Mentre erano sulla
strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano
sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti.”
L’evangelista
dice: “…erano nella strada…”; nelle interpretazioni normalmente si
seguono le chiavi di lettura che l’evangelista ci dà: “nella strada” è il
collegamento che fa l’evangelista ad un altro episodio, alla parabola dei
quattro terreni dove Gesù semina il suo messaggio (cfr. Mc 4,1-9). Nella spiegazione che segue la parabola, Gesù dice che
il seme è la sua parola, il suo messaggio, ma, mentre sta per cadere, non fa in
tempo ad arrivare per terra, che arriva il satana e lo porta via. Questa
indicazione è importante ed è la chiave di lettura di tutto il brano. Il satana,
nel vangelo di Marco, come negli altri vangeli, rappresenta il potere.
Gesù
sta dicendo qualcosa che deve essere preso molto sul serio. Vuol dire che
coloro che appartengono alla sfera del potere, sono completamente refrattari al
messaggio di Gesù.
“…per salire a
Gerusalemme…”
ormai siamo alla tappa conclusiva, Gesù sta andando a scontrarsi con
l’istituzione religiosa; “…Gesù camminava
davanti a loro…” camminano in gruppo, ma Gesù va avanti, diritto verso
Gerusalemme; “…ed essi erano sgomenti…”
i dodici, che accompagnano Gesù, sono sconcertati (“sconcertati” e non sgomenti,
sembra essere la traduzione più corretta).
Siamo
al terzo annuncio della passione, e i dodici (cioè l’Israele che segue Gesù) non
capiscono e sono sconcertati. Notate la sottigliezza dell’evangelista, aggiunge:
“…coloro che lo seguivano erano
impauriti.” Ci sono due gruppi
dietro Gesù. Ci sono quelli che lo accompagnano e sono i dodici che hanno uno
sconcerto perché - e sarà una costante del vangelo - non capiscono mai il
messaggio di Gesù. La tradizione religiosa in loro è talmente forte da impedire
la comprensione del messaggio di Gesù.
C’è
un altro gruppo, che indica coloro che non sono compresi in Israele, quindi coloro
che vivevano fuori della legge o coloro che provenivano dal mondo pagano,
questi lo seguono. Per l’evangelista è una denuncia tremenda: questi lo
seguono, gli altri no, i dodici si limitano ad accompagnare Gesù.
C’è
differenza tra accompagnare e seguire. Accompagnare significa accompagnare
fisicamente, vanno dietro Gesù. Seguire significa avere accettato, non solo la
figura di Gesù, ma anche il suo messaggio. La reazione di questi che lo
seguivano è la paura: hanno capito
tutto. I dodici non hanno capito.
Gesù
separa i due gruppi: “Presi di nuovo in
disparte i Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: «Ecco,
noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai capi dei
sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani,
lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e
dopo tre giorni risorgerà»”.
Gesù
non parla di Messia, ma parla di “Figlio
dell’uomo”(3), non quello atteso dalla tradizione d’Israele, ma
l’uomo che raggiunge la pienezza di vita in questa sua esistenza.
Gesù
parla ai dodici, non al resto del gruppo, che credono ancora nella validità delle
istituzioni religiose giudaiche e che seguono Gesù come un riformatore
dell’istituzione corrotta, le istituzioni sacre sulle quali si reggeva Israele:
il tempio, la legge, il sacerdozio, dovevano essere purificate dal Messia. Il
contrasto tra Gesù e i suoi è che Gesù non è venuto a purificare questa
istituzione, ma ad eliminarla, o almeno a insegnare ad ignorarla.
Gesù
è uscito dall’ambito del sacro, ne ha estirpato le radici e ha fatto vedere
quanto erano marce e velenose: quelle istituzioni che, secondo la religione,
dovevano permettere la comunione con Dio, Gesù le denuncerà come ostacoli che
la impedivano. Ecco perché è stato ammazzato.
Gesù
avverte i dodici - che credono ancora nella validità dell’istituzione religiosa
- che a Gerusalemme, centro del sistema religioso, le massime autorità
religiose, gli scribi e la legge lo ammazzeranno. Gesù dice che, non solo lo
condanneranno a morte, ma lo consegneranno ai pagani. Israele consegnerà il suo
liberatore ai pagani, rinunciando definitivamente alla propria liberazione.
L’evangelista adopera quattro verbi che esprimono l’odio e la violenza in un
crescendo: “lo derideranno”, il verbo
in greco è molto forte, significa scarnificare moralmente una persona, molto
più che deriderlo, “gli sputeranno
addosso” lo sputo era segno di disprezzo, “lo flagelleranno”(4). L’oggetto di queste azioni è “Il Figlio dell’uomo”.
Qui
la denuncia dell’evangelista è tremenda: le autorità religiose sanno che la
realizzazione del progetto di Dio sull’umanità segna la loro fine. L’abisso che
le autorità hanno creato tra Dio e l’uomo, attraverso Gesù, Figlio dell’uomo, viene annientato e con
questo anche la loro funzione di mediatori. La realizzazione dell’uomo è una
minaccia ai loro interessi, al loro prestigio. La religione non fa crescere
l’uomo, perché, per assicurare la sua esistenza, ha bisogno d’inculcare
nell’uomo il senso d’indegnità inventando il peccato.
Quale
persona di buon senso arriverebbe mai a concepire che Dio, se mangi grilli e
cavallette è contento, ma se mangi il maiale e la lepre no perchè secondo la Torah
sono animali impuri (cfr Dt 14,7 e s.);
oppure se le persone non osservano tutte le prescrizioni e i condizionamenti
sulla vita sessuale, Dio chiude i rapporti con loro!
Mentre
nel Figlio dell’uomo si manifesta il
massimo dell’umanità, le autorità religiose sono capaci di esprimere il massimo
della disumanità. Ma “dopo tre giorni
risorgerà(5)”: le forze delle tenebre non possono nulla contro
la forza della vita. La luce sarà sempre più forte delle tenebre.
Gesù
ha gettato la parola, ma c’è il satana, il potere: “Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli:
«Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo».”
Lo
chiamano maestro, dovrebbero apprendere da lui, in realtà vogliono imporre la
loro idea con arroganza. Sono due discepoli che, insieme a Pietro, ai quali
Gesù ha posto un soprannome negativo: Giacomo e Giovanni, in aramaico, sono
chiamati ‘Voanerghes’, ‘figli del
tuono’, cioè autoritari e violenti.
“Egli disse loro:
«Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella
tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra»”.
La
richiesta è di ottenere dei posti d’onore. Gesù ha parlato chiaramente eppure
questi non capiscono: chi è centrato sui propri bisogni e sulle proprie
necessità, è completamente refrattario al messaggio di Gesù; è talmente chiuso
che, anche quando sente la parola del Signore che dovrebbe metterlo in crisi,
non pensa che sia per lui, ma la proietta ad altri.
La
gloria di cui parlano non è la gloria celeste, ma si intendeva con quella
parola il giorno della intronizzazione del re. Al momento in cui il re veniva
consacrato come tale, chi deteneva il potere con lui, sedeva alla sua destra e
alla sua sinistra. Questi due, facendo lo sgambetto agli altri, perché tutti
quanti ambiscono allo stesso potere, di nascosto vanno vicino a Gesù “Mi
raccomando, quando vai a Gerusalemme, i posti più importanti sono per noi.”
Gesù non poteva essere più chiaro di così: “Vado a Gerusalemme per essere
ammazzato” e questi, per tutta risposta, “Dacci i posti più importanti”.
Gesù
aveva già denunciato i discepoli che “hanno orecchi, ma non intendono, hanno
occhi ma non vedono” (cfr Mc 8,18).
Quando nel vangelo troviamo sordi o ciechi, non sono handicap fisici, ma
interiori. I sordi sono Giacomo e Giovanni che ascoltano, ma non intendono. I
ciechi sono Giacomo e Giovanni perché vedono Gesù, ma in realtà non lo vedono
perché hanno gli occhi tappati dalla figura del loro Messia.
Se
andiamo nel vangelo di Matteo, dopo questa richiesta dei due discepoli, c’è l’episodio,
che è unico nei vangeli, dei due ciechi di Gerico che si rivolgono a Gesù e gli
chiedono: “Figlio di Davide”…. Ecco la loro cecità. I ciechi di Gerico sono
Giacomo e Giovanni che sono ciechi perché chiamano Gesù figlio di Davide. Gesù
non è figlio di Davide, Gesù è Figlio dell’uomo.
La
richiesta di Giacomo e Giovanni è tanto più grave, se si tiene conto che, dopo
il secondo annuncio della passione (anche questo incompreso) ai discepoli che
discutevano tra di loro chi fosse il più grande, Gesù, anche questa volta,
proprio rivolgendosi ai dodici, aveva
detto: se uno vuole essere il primo di tutti, sia il servo di tutti. Giacomo e
Giovanni non intendono essere gli ultimi, ma i primi, non i servi, ma i padroni,
e non sanno che questa richiesta li allontana definitivamente da Gesù, che si è
fatto ultimo e servo di tutti. Ricordate che questi due fratelli sono stati
protagonisti della trasfigurazione di Gesù? Avevano quindi tutti gli strumenti
per comprendere.
L’idea
di un Messia dominatore giustifica la loro concezione del Regno di Dio come una
struttura di potere ed è quella che stimola la loro ambizione.
“Gesù disse loro:
«Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o
essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Questa frase è
piuttosto difficile da rendere in italiano perché in greco Gesù dà l’idea che
l’acqua, nella quale si è immersi per il battesimo, travolge tutto con il suo
impeto; Gesù sta chiedendo di entrare in una situazione di sofferenza nella quale
la vita è travolta: mentre per i discepoli sedere alla destra o alla sinistra
di Gesù significa assicurarsi le prime poltrone al palazzo, per Gesù si tratta
di affrontare il disonore di una morte infamante.
Gesù
adopera l’immagine del calice perché nei banchetti, colui che lo presiedeva, lo
dava a ciascuno, ognuno aveva il suo calice. Il calice raffigurava
simbolicamente la sorte riservata a ciascuno. “Il calice che io bevo” indica la
sorte che mi è destinata e bere il calice è l’espressione della morte, del
martirio, l’amaro calice della morte.
“E Gesù disse loro:
«Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono
battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia
sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato»”.
Qui
il discorso è ambiguo. I discepoli hanno chiesto i posti d’onore, Gesù sta
parlando della sua crocifissione e di coloro che saranno crocifissi con lui, a
destra e a sinistra, perché sulla croce sarà proclamata la regalità di Gesù.
Troveremo, nel momento della crocifissione, l’espressione “il re dei Giudei”.
Gesù verrà proclamato re sulla croce e i posti, a destra e a sinistra di Gesù,
corrispondono a quelli dei crocifissi con lui.
Gesù
dichiara che non può assegnare quei posti se non a quelli per i quali è
preparato, cioè quelli che, nel momento della prova, sanno caricarsi della
croce e rispondere con il dono della vita come lui. Giacomo e Giovanni non ne saranno
capaci; in questo vangelo essi arriveranno fino al Getsemani, ma quando vedono
le truppe catturare Gesù, scompaiono e non appariranno più nel resto del
vangelo.
Occupare
quei posti non dipende da Gesù, ma dai discepoli. Come ogni discepolo, poi nel
tempo, anche Giacomo e Giovanni troveranno la morte nel martirio.
“Gli altri dieci,
avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni”. Come nel secondo
annuncio della passione, scoppia l’ennesima lite all’interno del gruppo dei
seguaci di Gesù, che si sdegnano, non per le pretese di Giacomo e di Giovanni,
ma perché questi due fratelli hanno tentato di fare le scarpe al resto del
gruppo.
“Allora Gesù li
chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i
governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono.”
La
denuncia di Gesù è grave perché il titolo di cui si fregiavano questi re e
imperatori era quello di benefattori del popolo, di salvatori del popolo. Gesù
non si lascia ingannare e non riconosce l’autorità di coloro che “sono
considerati capi delle nazioni”, ma non lo sono, “spadroneggiano su di esse e i
loro grandi le dominano”. Per dimostrare ai dodici quanto sia inaccettabile la
loro idea di Messia di potere, Gesù fa un parallelo con le tirannie pagane e
tenta ancora una volta - è la terza volta - di fare comprendere chi è, che cosa
vuole fare e che il suo regno, la
comunità cristiana, non ha nulla a che vedere con quello sperato e immaginato
dai discepoli.
“Tra voi però non è
così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole
essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti.” Gesù avverte che la
sua comunità non dovrà mai imitare le strutture di potere esistenti nella
società ma rifarsi alla struttura d’amore della famiglia dove l’uno è al
servizio degli altri. Dentro la comunità, la caratteristica non è quella del
dominio, ma del servizio, volontariamente reso per amore. Quando nella comunità
cristiana si istaurano le strutture di potere, che sono quelle di
spadroneggiare e di dominare, non è più una comunità cristiana.
E’
difficile, per i discepoli, accettare questo discorso di Gesù, perché Gesù sta
parlando del regno di Dio e loro invece stano aspettando la restaurazione
gloriosa del regno d’Israele .
Negli
Atti degli Apostoli, Gesù resuscitato chiama i discepoli e fa loro un corso
intensivo di catechismo di quaranta giorni su quest’unico tema. Per quaranta
giorni parlò loro del regno di Dio e al quarantesimo si alza un discepolo: “Ma
il regno d’Israele?”. L’idea era talmente radicata che, se gli evangelisti ci insistono,
è per farci capire che anche noi abbiamo delle idee talmente radicate che ci
rendono refrattari al messaggio di Gesù.
“…il primo tra voi
sarà schiavo di tutti”. È strana questa espressione di Gesù sulla schiavitù.
Nella società pagana esistevano padroni e schiavi. I seguaci di Gesù non
possono mai allinearsi con i primi, i padroni, ma devono mettersi
volontariamente accanto a quelli che soffrono l’oppressione e fare tutto quello
che è possibile per cambiare la loro condizione di schiavi. All’interno della
comunità siamo tutti fratelli, tutti
abbiamo la stessa dignità: chi ambisce ad essere grande si mette
volontariamente a servizio degli altri. Al di fuori della società, sempre dalla
parte degli ultimi. Tra il padrone e lo schiavo, sempre dalla parte dello
schiavo.
“Anche il Figlio dell'uomo infatti non è
venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per
molti».” Questo versetto contiene un’insegnamento decisivo e straordinario, che da solo cambia completamente il
modo di rapportarsi dell’uomo con Dio: il Dio della religione, in tutte le
religioni, è un Dio di un profondo egoismo, è un Dio che crea l’umanità per
essere servito dagli uomini. Con Gesù, vera unica manifestazione di Dio, questa
immagine di Dio viene definitivamente cancellata.
E’
un terremoto. Se Dio non vuole essere più servito, tutte quelle strutture che
permettevano il servizio a Dio non hanno più ragione di esistere. Gesù sta
distruggendo alle radici l’impianto della religione. La religione consiste nel
servizio a Dio, l’offerta, il sacrificio, tutto viene fatto nei confronti di
Dio. Il Dio di Gesù, non ha bisogno di niente, non chiede niente agli uomini,
ma è lui che si comunica tutto. È la differenza tra la religione e la fede.
Nella religione è Dio che chiede, nella fede è Dio che dà.
Gesù
si presenta come modello di pienezza umana alla quale ogni uomo può e deve
aspirare. Rispetto ai suoi, Gesù, non sarà come i dominatori della terra, il
padrone che rivendica la sua superiorità ed esige il servizio, ma come uno che
lo presta.
Se
comprendiamo questo versetto, il rapporto con Dio cambia radicalmente, e, di
conseguenza, cambia il rapporto con gli altri. È Dio che si offre a noi ed è
Dio che mette tutto quello che è e quello che ha, a nostro servizio.
Questo
servizio, scrive l’evangelista, arriva “a
dare la sua vita in riscatto per molti”. È importante comprendere cosa
voglia dire “in riscatto”. Il termine
riscatto è lo stesso da cui poi arriva il termine redenzione o redentore;
Cristo è il redentore, cioè colui che ha pagato il riscatto. Normalmente, nella
nostra spiritualità, nella predicazione, facciamo tanta confusione! A livello
popolare, se chiedete alle persone cosa significa che Gesù è il redentore, da
cosa ci ha liberato, rispondono che ci ha liberati dai peccati. Poi, se provate
a chiedere: «Allora tu non pecchi più?». «Io sì». «E allora da cosa ci ha
liberato?»
La
liberazione di Gesù è finalizzata al riscatto. Il riscatto risponde a una norma
giuridica di Israele: quando un familiare veniva fatto schiavo - o durante una
guerra o più spesso per debiti perché non poteva pagare - era fatto schiavo con
tutta la sua famiglia. Il congiunto, che aveva la parentela più vicina a
questi, aveva l’obbligo di pagare la somma di riscatto per liberare lo schiavo.
Riscatto significa liberazione; Dio veniva chiamato il redentore d’Israele,
perché aveva liberato il suo popolo dalla schiavitù egiziana. Gesù dice che
lui, Figlio dell’uomo, non è venuto
per essere servito, ma per servire fino al punto di dare la sua vita in
riscatto - cioè per liberare - molti. “Molti”, non significa che Gesù sceglie
un gruppo a scapito di un altro; la sua salvezza, la sua liberazione è offerta
a tutti, ma quelli che l’accolgono sono i molti perché non tutti l’accolgono.
Da
cosa Gesù è venuto a liberarci? C’è una particolarità che non cessa di
scandalizzare nel vangelo di Marco: Marco è l’unico evangelista che, in maniera
fragorosa e ostentata, omette sempre, nel suo vangelo, il termine legge. La
legge era quella che era stata data da Dio a Mosé per l’alleanza tra Dio e
Israele, suo popolo.
È
molto più clamoroso ignorare che evidenziare, e Marco omette sempre il termine
legge. Nelle lettere di Paolo, possiamo vedere il significato di questo
riscatto. C’è una lettera molto bella di Paolo ai Galati, che al versetto 3,13 recita: “Cristo ci ha riscattati” - e Paolo la spara grossa - “dalla maledizione della legge”. Se lo
sentivano potevano lapidarlo perché, per la mentalità ebraica, sta bestemmiando.
La legge, l’alleanza tra Dio e gli uomini, che permetteva l’unione tra Dio e
gli uomini, Paolo la dichiara “maledizione”. È una denuncia terribile! Non solo
la legge non favorisce la comunione con Dio, ma l’impedisce.
Cristo
ci ha riscattati dalla maledizione della legge diventando lui stesso
maledizione per noi, come è scritto “maledetto chi è appeso al legno”(6)
(cfr Dt 21,23).
Una
implicazione molto importante è comprendere da che cosa Gesù ci ha liberati. Seguendo
il ragionamento di Paolo, Gesù ci ha liberati dalla legge e la forza della
legge è il peccato. Gesù ha liberato gli uomini dal senso del peccato che è
stato inventato dalla legge, dalla religione.
Non
esiste il peccato se non negli ordinamenti della religione. La religione ti
convince, tu ci credi e se trasgredisci, soltanto nella religione puoi trovare
la maniera per essere perdonato. Essendo il peccato invadente tutti gli
aspetti, anche intimi, della persona, faceva sì che l’uomo si trovasse in una
situazione di continua indegnità nei confronti di Dio e non riuscisse mai a
percepirne l’amore.
La
liberazione che Gesù ci ha dato, liberando l’uomo dalla legge, è che essa non è
più norma di comportamento nella comunità cristiana, Gesù ha liberato gli
uomini dal senso del peccato della religione. La liberazione di Gesù è quella che permette, liberando l’uomo dal
senso del peccato, la comunione con Dio. Il senso del peccato è quello inventato
dalla religione: sono trasgressioni a precetti, a comandamenti, inosservanze,
tabù sessuali, tabù alimentari.
Gesù
non fa questo per diminuire il significato del peccato ma per dargli il suo
giusto valore. Ricordo la bella definizione del peccato data dal Concilio: che
non è tanto un’offesa a Dio - Dio non si offende mai - ma il peccato è una
diminuzione per l’uomo.
Quando
Gesù elenca dei peccati mai riporta quelli che riguardano il culto, quelli che
riguardano il rapporto con Dio, ma sempre azioni negative che impediscono alla
persona di crescere e fanno del male agli altri.
Dobbiamo avere il terrore e l’orrore di danneggiare
l’altro, di fare del male all’altro perché il danno che si fa all’altro,
l’altro lo può superare, ma in te rimane per sempre. Se uno mi fa del male io,
con il tempo, posso perdonarlo. Ma per il male che lui mi ha fatto, in lui
rimane un buco nero che non sarà mai più ricomposto. Paradossalmente, è meglio
ricevere del male piuttosto che farlo agli altri. Chi fa il male agli altri,
diminuisce sé stesso e questa diminuzione può portare alla paralisi
dell’individuo.
Gesù
ci ha liberati, ci ha riscattati dalla legge, dal peccato della legge, per
permettere a ogni credente di raggiungere, come lui, la condizione di Figlio dell’uomo. Se noi siamo sempre
condizionati, spaventati, intimoriti, non potremo mai crescere. Gesù è venuto a
servirci, ci comunica la sua vita, ci libera da questo senso del peccato che
impedisce il rapporto con Dio e consente all’uomo, una volta liberato dal
peccato, di indirizzare tutte le energie nei confronti dell’altro.
Gesù
non chiede che dobbiamo centrarci sulla nostra perfezione spirituale, che è
tanto lontana e irraggiungibile quanto grande è la nostra ambizione, ma Gesù ci
chiede di centrarci sul dono di noi stessi, che è immediato e concreto quanto
grande è il nostro amore.
Note: 1. Il testo contenuto nelle parentesi quadre non è stato
inserito dal liturgista nel brano di questa domenica. – 2. Mi sembra opportuno ricordare che non sono
esattamente dodici gli individui che Gesù ha scelto come apostoli; il numero
dodici (che ricorda il mitico numero delle tribù d’Israele), non rappresenta
dodici individui che Gesù ha selezionato e scelto per seguirlo, ma rappresenta
gli appartenenti al popolo d’Israele, che hanno scelto di seguire Gesù. Di
fatto, non troverete in nessun vangelo una lista esatta dei dodici apostoli di
Gesù perché non sono elementi storici, ma elementi teologici. La lista dei
dodici è stata sempre rappresentata così: ci sono tre che sono i più tenaci, i
“leader” del popolo e sono Pietro, Giacomo e Giovanni. Sono quelli che Gesù
prende sempre nelle sue iniziative, perché, se riesce a convincere questi, per
gli altri non ci saranno eccessive difficoltà. Ci sono i rimanenti otto, quasi
anonimi perchè hanno un nome, ma i nomi non sono uguali nelle liste dei vangeli
e, salvo qualche eccezione, non compiono nessuna attività nei vangeli. Infine
l’ultimo è sempre Giuda, il traditore. Attraverso questo schema gli evangelisti
vogliono dire che l’Israele, che ha seguito Gesù, è composto da un piccolo
gruppo di seguaci entusiasmati, ma condizionati dalla loro ideologia: pensano
di seguire il Messia trionfatore. Poi c’è una massa anonima che, anziché
seguire Gesù pensa di seguire il futuro Re; quindi una piccola parte
rappresentata da Giuda - un nome che ricorda la Giudea, la regione santa - che
lo tradirà. – 3. Ricordo che, ogni qualvolta nei vangeli
troviamo l’espressione Figlio dell’uomo,
non riguarda solo Gesù, ma è estesa a tutti quanti desiderano, come lui,
raggiungere la pienezza umana in questa esistenza. – 4. Non confondiamo il flagello con la
frusta. Il flagello era una frusta, ma alla fine delle corde aveva un pezzo di
ferro o un osso così ad ogni colpo toglieva via un pezzo di carne. – 5. Quando
Gesù dice che il terzo giorno resusciterà, non sta dando indicazioni per il
triduo pasquale! Se avete provato a calcolare i giorni, neanche a stirarli ne vengono
fuori tre. Il tre significa ciò che è completo, ciò che è totale. Voi mi darete
la morte, ma io tornerò in vita definitivamente, completamente, totalmente.
Gesù non poteva essere più chiaro di così. – 6. Gesù è diventato maledizione
perché ha trasgredito, ha ignorato la legge, e ha fatto la fine dei maledetti
da Dio: la morte in croce era riservata i maledetti da Dio.