Battesimo del Signore – Mc
1,7-11
E proclamava: «Viene dopo di me
colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci
dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in
Spirito Santo».
Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne
da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E subito,
uscendo dall'acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di
lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio,
l'amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Chi
parla, in questo breve brano del vangelo di Marco, è Giovanni il Battista. Nei
versetti che precedono Marco presenta Giovanni come un profeta fortemente
legato alla concezione teologica ebraica, come il redivivo Elia perché come lui
veste di peli di cammello con una cintura di pelle ai fianchi (1).
Inoltre è presentato come un uomo puro, di quella purità rituale descritta nei
libri del Deuteronomio e del Levitico che nulla ha a che vedere con il nostro
concetto di purezza.
L’evangelista,
per sottolineare questa purezza, specifica il cibo che usava Giovanni, locuste
e miele selvatico, cibi sicuramente consentiti (2), oltre ogni ombra
di dubbio, dalla legge ebraica(3); per questo Giovanni può
battezzare, cioè purificare gli altri.
Il
battesimo era un rito di immersione conosciuto in molte religioni antiche,
oltre che dal giudaismo; l’immersione in acqua era il simbolo della
purificazione rituale. Giovanni, pur ispirandosi a questi riti preesistenti, ne
modifica gli scopi, mira ad una purificazione non più rituale ma morale e che
rivesta, in un certo senso, l’aspetto di una iniziazione, di un ingresso del
battezzando tra coloro che professano un’attesa attiva del Messia e
costituiscono in anticipo la sua comunità.
Marco non ricorda la predicazione
penitenziale di Giovanni (cfr. Mt 3,7-10
e Lc 3,7-14), ma si limita a
riportare il suo annunzio messianico, di fronte al quale tutto il resto
scompare. Il Battista parla di uno che viene “dopo” (in greco opisô) di lui; siccome
l’espressione “andare dietro” oppure “essere dopo” caratterizza il discepolo
(cfr. Mc 1,17.20; 8,34), è possibile
che vi sia qui il ricordo di un periodo che Gesù ha trascorso come discepolo
del Battista. Questi però lo designa come “più
forte” (in greco ischyroteros) di lui: abbiamo qui forse
una punta polemica dei primi cristiani nei confronti dei discepoli di Giovanni,
che assegnavano il primo posto al loro maestro.
Nei confronti di colui che viene il Battista
assume un atteggiamento di grandissimo rispetto, ritenendosi addirittura
indegno di sciogliere i legacci dei suoi sandali(4): questo gesto
esprime l'umile servizio degli schiavi, considerato così degradante che il
padrone non poteva esigerlo da schiavi ebrei.
Giovanni
annuncia, “Io vi ho battezzato con acqua…“,
cioè io vi aiuto a cancellare il passato, ma non basta che venga cancellato il
passato, occorre una nuova forza per andare avanti nel presente: “…ma egli vi battezzerà in Spirito Santo”.
Forse
non c’è bisogno di sottolinearlo, Spirito significa forza e provenendo da Dio è
la forza di Dio, cioè l’amore di Dio. Il fatto che sia Santo non è una qualità,
ma è la connotazione della sua attività: infatti quanti accolgono lo Spirito,
questa forza di Dio, vengono separati (il verbo santificare, consacrare,
significa separare) dalla sfera del male e attratti verso la sfera del bene.
Giovanni
annuncia Gesù come colui che immerge in una forza che viene da Dio ed ha la
capacità di allontanare l’uomo dal male.
Ed
ecco che si presenta Gesù; c’è sempre abbastanza imbarazzo nei catechismi, nello
spiegare perché Gesù è andato a farsi battezzare: il battesimo serve per il
perdono dei peccati, allora anche Gesù aveva dei peccati? E se non li aveva perché
è andato a farsi battezzare? Ha fatto finta? Ha fatto finta per darci
l’esempio, ma è una spiegazione sciocca.
L’interpretazione
odierna, che si basa molto sull’umanità di Gesù, prende lo spunto da un
pensiero che era sorto nei primissimi anni del cristianesimo. Secondo
quell’idea Gesù sentiva dentro di se la necessità di agire, ma non ne aveva
ancora una coscienza chiara. Per questo, sentendo parlare di Giovanni, decide
di seguirlo per qualche tempo, per vedere di far emergere e chiarire
l’impellenza che sentiva. Per questo, ad un certo punto, chiede il battesimo e
sarà per lui il momento cruciale della comprensione del suo destino perché
riceverà lo Spirito di Dio.
“Ed ecco, in quei
giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea…”; la formula “in quei
giorni”, caratteristica di Marco che la usa qui per la prima volta, indica
l’inizio di un compimento di una serie di eventi accaduti in passato; per Marco
questo momento è il compimento delle promesse della antica alleanza. Gesù ha lo
stesso nome di Giosuè (in ebraico non esiste differenza tra i due nomi. La
differenza è stata introdotta dai traduttori per non creare confusione nel
lettore). Giosuè è colui che ha condotto il popolo dalla schiavitù dentro la
terra promessa e Gesù ha lo stesso nome di colui che ha realizzato questo esodo.
Quindi per Marco la venuta di Gesù è il compimento dell’opera di Giosuè.
L’unica
informazione su Gesù che Marco fornisce è la sua provienza dalla Galilea e non
dalla Giudea, contrariamente a quanto ci si aspettava secondo la tradizione
giudaica.
Oggi
gli storici sono convinti che Gesù sia nato a Nazareth, anche se due
evangelisti lo fanno nascere a Betlemme, forzando la realtà, poiché non era
concepibile che il Messia nascesse dalla Galilea, regione disprezzata(5)
e non dalla Giudea.
“…e
fu battezzato nel Giordano da Giovanni.” il battesimo era un simbolo di morte:
immergendosi nell’acqua si moriva a tutto quello che si era stati, per iniziare
una vita nuova. Così per la tradizione ebraica lo schiavo a cui era stata data
la libertà, o il pagano che voleva entrare nell’ambito della religione ebraica,
si immergevano completamente in acqua per simboleggiare la morte al proprio
passato.
Anche
per Gesù il battesimo sarà un simbolo di morte, ma non ad un passato
d’ingiustizia che Gesù non ha, ma al futuro. Gesù, con il battesimo, accetta
anche la morte in futuro: infatti, secondo la tecnica letteraria degli
evangelista, gli stessi termini adoperati nel battesimo, Marco li adopererà poi
per descrivere la morte di Gesù.
“E subito, uscendo dall'acqua…”
in realtà l’evangelista dice “salendo dall’acqua”. La traduzione in italiano non sarebbe stata corretta, ma avrebbe
seguito il pensiero di Marco per il quale il battesimo è una discesa nella
morte con conseguente risalita a nuova vita, ad una resurrezione.
Questa
non è una concezione solo di Marco ma anche degli altri evangelisti che non
alluderanno mai alla morte di Gesù senza associarla alla sua resurrezione; la
cosa naturalmente non è percepibile ad una lettura un po’ frettolosa, ma ad una
lettura attenta sì.
“…vide squarciarsi i cieli e lo Spirito
discendere verso di lui come una colomba.” E’ importante quel “E subito”. Mentre Gesù sale dall’acqua,
immediatamente dal cielo c’è lo spirito che si fonde con lui.
In
alcune traduzioni troverete: i cieli
aprirsi. È sbagliato. Il verbo adoperato dall’evangelista è ‘squarciare’ o
‘lacerare’, ma non aprire. L’evangelista adopera questo verbo anche per il
riferimento al passo del profeta Isaia 63,19: il profeta chiede: “Se tu squarciassi i cieli e discendessi…”.
Esiste una sostanziale differenza tra il verbo aprire e il verbo squarciare: una
cosa che si può aprire poi si può chiudere, una cosa che si è lacerata, o si è
squarciata, non si può più ricomporre. Era credenza comune, ai tempi di Gesù,
che il Signore, indignato per i peccati del popolo, avesse sigillato la sua
dimora. Non c’era più comunicazione fra Dio e gli uomini.
Squarciare
i cieli significa che da questo momento, con Gesù e attraverso Gesù, la
comunicazione di Dio con gli uomini sarà totale e continuativa. Certo,
bisognerà sintonizzarsi su questa lunghezza d’onda per comprendere la voce del
Signore.
Lo
stesso verbo squarciare lo troviamo nella morte di Gesù, (Mc 15,38) “il velo del tempio
si squarciò in due dall’alto in basso”.
Nel tempio c’era una porta con un velo enorme lungo circa 25 metri, che copriva
una stanza vuota dove non c’era niente, dove entrava il sommo sacerdote, una
volta l’anno, per pronunziare il nome impronunciabile, il nome di Dio.
In
questa stanza si credeva che c’era la gloria di Dio, la presenza di Dio.
Immediatamente, appena Gesù muore, il velo del tempio si squarcia: non è più
possibile rammendarlo, è rotto. Il Dio che era nascosto dal velo del tempio, si
è manifestato ormai definitivamente in Gesù, ma in un Gesù particolare, nel
Gesù inchiodato sul patibolo dei delinquenti, nel crocifisso.
La
croce è la suprema manifestazione di Dio, di un Dio che stiamo scoprendo non
buono, ma esclusivamente buono. È un Dio amore, che desidera soltanto
comunicarsi esclusivamente attraverso l’amore e non ha altra maniera per
comunicarsi agli uomini.
Un
Dio esclusivamente buono che desidera comunicare con l’uomo, non assorbire l’uomo (il Dio della religione
è quello che assorbe, che diminuisce l’uomo perché si fa servire), ma per comunicargli
la propria energia, la propria capacità di vita.
Se
l’uomo, per le sue ragioni esistenziali, si sente indegno, Dio non si ritrae,
ma gli comunica abbastanza capacità di vita in modo che questa presunta
indegnità dell’uomo venga eliminata.
Il
cielo si squarcia, la comunicazione tra Dio e gli uomini è continua e lo
Spirito (l’articolo determinativo in questo caso indica la totalità, cioè la
totalità di Dio, la totalità della vita di Dio, della forza di Dio) scende su
Gesù.
Al
momento della morte di Gesù l’evangelista scriverà: Gesù dette un forte grido e
spirò. Il verbo spirare ha la stessa radice di spirito (in greco “pneuma”). Gesù, morendo, effonde sugli
uomini lo spirito che ha ricevuto nel battesimo e su quanti lo accolgono come
modello di comportamento.
Il
verbo spirare, prima dei vangeli, non indicava mai la morte di una persona.
Lo
Spirito disceso su Gesù come colomba(6), significa che la dimora
perpetua, perenne, dello Spirito, della forza di Dio, risiede in Gesù.
Ma
non c’è soltanto questo significato. Nel commento rabbinico al libro della
Genesi, della creazione, si dice che lo Spirito aleggiava sulle acque,
aleggiava come una colomba. Quindi colui che scende su Gesù è lo Spirito
creatore che in Gesù porta a compimento la creazione dell’uomo, portandola alla
condizione divina. Ecco qual era il vero progetto di Dio sull’umanità: non un
uomo che terminasse la sua esistenza nella morte, ma un uomo che, durante
l’esistenza terrena, raggiungesse la condizione divina e avendo la condizione
divina, potesse superare il fatto della morte.
“E venne una voce dal cielo:…” è la voce di Dio e indica un’esperienza
intima, interiore, da parte di Gesù. Questo termine “voce” (in greco “phoné”), la troveremo per due volte
nella morte di Gesù: prima il grido del gallo, poi il grido di Gesù.
Il
gallo era considerato un animale demoniaco che cantava ogni volta che il satana
aveva una vittoria, aveva ottenuto la punizione di una persona: quando Pietro,
per la terza volta, ha rinnegato Gesù, il gallo ha cantato. Il grido di Gesù è
più forte del tradimento di Pietro e al grido di vittoria delle tenebre, del
gallo, corrisponde il grido di vittoria di Gesù. Quello di Gesù, sulla croce,
non è lo strazio di un agonizzante, ma un grido di vittoria che annuncia
l’effusione dello Spirito di cui Gesù è stato portatore durante la sua
esistenza, e la sconfitta della morte con il dono di una vita indistruttibile.
E questa voce dice: “…«Tu sei il Figlio mio, l'amato: in
te ho posto il mio compiacimento»”.
Così
come in Matteo, anche nel vangelo secondo Marco, le parole dette dalla "voce dal cielo" sono le stesse; nel
vangelo secondo Luca invece il testo originale sembra essere stato «Tu sei mio Figlio, l’amato, oggi ti ho
generato», come riporta la Bibbia di Gerusalemme nelle traduzioni non
italiane. Tale testo è stato poi modificato rendendolo conforme agli altri
vangeli. Questa modifica è dimostrata da diversi documenti: in un manoscritto
greco (Codex Bezae Cantabrigensis7) e in alcuni manoscritti latini,
le parole della voce celeste sono «Tu sei
mio Figlio, oggi ti ho generato».
Il testo in questa
forma era inoltre molto diffuso presso i Padri della Chiesa tra il II e il III
secolo, cosa che costituisce una testimonianza importante in quanto la maggior
parte dei manoscritti del Nuovo Testamento che sono giunti fino a noi è
posteriore a queste testimonianze; ebbene, in quasi tutti i casi, in
testimonianze che vengono dalla Spagna alla Palestina e dalla Gallia al
Nordafrica, è la forma «oggi ti ho
generato» ad essere attestata. Depone inoltre a favore dell'autenticità di
questa versione il fatto che l'altra parte della frase è identica a quella
riportata in Marco e la convinzione che coloro che copiavano tendevano ad
uniformare i testi, invece che a introdurvi discostamenti.
La ragione della modifica del testo da «Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato»,
la versione originale di Luca, a «Tu sei
il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» sarebbero da
ricondurre a un tentativo di rimuovere ogni possibile appiglio agli
Adozionisti, una corrente delle origini del cristianesimo per la quale Gesù non
era nato Figlio del Padre ma era stato da lui adottato all'atto del battesimo
nel Giordano; rimuovendo il riferimento alla «generazione» dal vangelo di Luca, si toglieva forza alla posizione degli
adozionisti(8).
È anche interessante notare un altro fatto. Epifanio di Salamina, un cristiano del IV secolo che compose un'opera contro le eresie, narra che nel Vangelo degli Ebioniti (un vangelo utilizzato dalla corrente cristiana degli Ebioniti(9) nel II secolo, e ora andato perduto) vi era scritto: “E mentre usciva dall'acqua, i cieli furono aperti, ed egli vide lo Spirito Santo discendere nella forma di una colomba ed entrare in lui. E una voce dal cielo disse «Tu sei il mio figlio prediletto; in te mi sono compiaciuto»; e, continuando, «Oggi ti ho generato»(10).
È anche interessante notare un altro fatto. Epifanio di Salamina, un cristiano del IV secolo che compose un'opera contro le eresie, narra che nel Vangelo degli Ebioniti (un vangelo utilizzato dalla corrente cristiana degli Ebioniti(9) nel II secolo, e ora andato perduto) vi era scritto: “E mentre usciva dall'acqua, i cieli furono aperti, ed egli vide lo Spirito Santo discendere nella forma di una colomba ed entrare in lui. E una voce dal cielo disse «Tu sei il mio figlio prediletto; in te mi sono compiaciuto»; e, continuando, «Oggi ti ho generato»(10).
Come si vede, gli Ebioniti tentarono di risolvere le contraddizioni tra le
varie versioni facendole confluire in un'unica versione che diceva tutte e due le
cose. Non diversamente da molti esegeti moderni o presunti tali!
Nella
forma riportata dalla CEI, il grido è la citazione di un salmo, il salmo 2,7
dove Dio si rivolge al re che lui stesso ha stabilito.
La
discesa dello Spirito significa che Gesù è stato consacrato e costituito da Dio
come il Re, Messia, l’atteso, e Dio stesso lo sostiene contro i suoi nemici.
Nel salmo si diceva che Dio dava a questo re tutta la sua protezione contro i
nemici. Il Padre, con questa voce dal cielo, dichiara un amore senza limiti per
Gesù, accomunando ben tre termini. Questa esplosione d’amore divino è la
risposta all’impegno di Gesù e l’approvazione piena della linea che Gesù ha
deciso di seguire. L’amore del Padre per Gesù viene espresso nella
comunicazione del suo Spirito, dice “Tu
sei mio figlio, l’amato”.
La
definizione di “Figlio”, come si è visto più volte nel contesto ebraico, non
significa soltanto chi è nato da qualcuno, ma soprattutto colui che gli
assomiglia nel comportamento. Questo ci permette uno sguardo sul volto di Dio:
se Gesù viene chiamato figlio è perché assomiglia al Padre, questo ci fa capire
chi è il Padre. La dedizione di Gesù agli uomini, anche a costo di incontrare
la morte, diventa la rivelazione dell’amore di Dio per l’umanità. L’espressione
“tu sei mio figlio” non indica tanto
chi è Gesù, quanto chi è Dio.
Note: 1. Vedere 2Re 1,8 e seguenti – 2. Vedere Lv 11, 22. – 3. Da notare che le
locuste erano consentite, ma la lepre no. Il fatto che Marco indichi nelle
locuste il cibo normalmente usato da Giovanni è una forzatura letteraria che
gli consente di rimarcare la stretta osservanza della Legge da parte del personaggio.
– 4. Esiste un’ulteriore interpretazione che fa riferimento alla legge del
levirato. – 5. La Galilea è lontana dal centro del potere politico e religioso,
è regione di frontiera con una popolazione che è una mescolanza di giudei e di
pagani, e quindi di impuri, di peccatori, di reietti. Il territorio è arido e
brullo; i suoi abitanti sono rozzi e duri. I galilei si distinguono per essere
tra i più temerari e feroci affiliati alla setta degli zeloti, i fanatici
fautori della lotta armata contro l’invasore romano, e Nazareth è proprio uno
dei loro covi. I giudei non nascondono il loro disgusto per i rozzi galilei e
lo manifestano apertamente con una ricca serie di proverbi, racconti e detti
popolari. (cfr Talmud, ‘Erubim B. 53a, 53b.). – 6. Naturalmente queste
sono delle immagini metaforiche che l’evangelista adopera; infatti
l’attaccamento della colomba al suo nido originale era proverbiale; c’era un
proverbio ebraico che diceva: “come amor di colomba al suo nido”, per indicare
proprio questo attaccamento. – 7. Il Codex
Bezae Cantabrigensis è un importante codice del Nuovo Testamento datato
380 - 420 (secondo altri è più tardo, V-VI secolo). È scritto in latino e
greco. Contiene in maniera frammentaria solo i Vangeli, gli Atti degli
Apostoli, la Terza lettera di Giovanni. – 8. Vedi anche: Bart Ehrman,
Gesù non l'ha mai detto: millecinquecento anni di errori e manipolazioni nella
traduzione dei vangeli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2007. pp. 183-185. –
9. Ebioniti è il
nome con cui alcuni scrittori cristiani indicano un gruppo di fedeli, di
orientamento giudaizzante, dapprima considerati scismatici e quindi eretici da
diversi Padri della Chiesa; rifiutavano la predicazione e l'ispirazione divina
di Paolo. – 10. Vangelo degli Ebioniti, citato nel testo: Epifanio di Salamina, Contro gli
eretici, 30/13,7-8.