XXVI Domenica del Tempo
Ordinario – Lc 16,19-31
C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e
di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome
Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con
quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a
leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli
accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i
tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui.
Allora gridando disse: «Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a
intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro
terribilmente in questa fiamma». Ma Abramo rispose: «Figlio, ricòrdati che,
nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in
questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più,
tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono
passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi». E quello
replicò: «Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre,
perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano
anch'essi in questo luogo di tormento». Ma Abramo rispose: «Hanno Mosè e i
Profeti; ascoltino loro». E lui replicò: «No, padre Abramo, ma se dai morti
qualcuno andrà da loro, si convertiranno». Abramo rispose: «Se non ascoltano
Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti»».
Molte
volte ho ricordato che per comprendere appieno il significato di un brano di
vangelo è indispensabile sapere quali brani lo precedono e quali lo seguono; è
anche il caso del questo brano.
Il
brano in questione, ad un lettore attento, risulta anomalo; Luca infatti vi
inserisce alcune terminologie mai usate nei vangeli come “seno di Abramo”
oppure la “tortura con la fiamma” che non rientra in nessun insegnamento
di Cristo riportato in questo vangelo o negli altri vangeli.
Per
inciso, la traduzione della parola greca “ade”(1) con la
parola italiana “inferno” è, come vedremo, del tutto arbitraria ed è
scomparsa nelle traduzioni effettuate dal 1997 in poi.
Si
potrebbe anche pensare che questo brano sia una glossa, ovvero un’aggiunta
posteriore come ve sono altre nei vangeli (vedere ad esempio il capitolo finale
del vangelo di Marco, scritto probabilmente nel secondo secolo d.C., o l’invito
di Cristo a digiunare aggiunto da un monaco amanuense dopo il 350 d.C.); a
negare questa possibilità, però, vi è lo stile del brano, che è tipico di Luca.
Una
spiegazione alle anomalie di questo brano la possiamo trovare leggendo il
capitolo 16 dall’inizio: il capitolo 16 del Vangelo di Luca è tutto dedicato
all’insegnamento del buon uso del denaro. Inizia con la parabola
dell’amministratore infedele, segue con alcune frasi di Gesù sullo stesso
argomento e quindi, al versetto 14, Gesù inizia una discussione con i farisei
che definisce “attaccati al denaro”.
Quindi
seguono tre versetti, il 16, il 17 ed il 18 che risultano del tutto avulsi dal
conteso perché trattano di argomenti che nulla hanno a che fare con il denaro.
Se
noi eliminiamo questi versetti, forse aggiunti in un momento successivo alla
prima stesura del vangelo, vediamo come il versetto 19 del brano in esame non è
altro che una continuazione del versetto 15, cioè la continuazione della
discussione di Gesù con i farisei.
A
questo punto le terminologie usate da Gesù risultano chiare: Gesù, come in
altre parti dei vangeli, parlando ai farisei usa termini e concetti tipici
della teologia farisaica in modo che loro possano comprenderlo appieno.
Usa
la dicitura “seno di Abramo”, locuzione(2) che indica la vita eterna
in comunione con Dio e con i padri giusti e fedeli di Israele, come indicato
dal Libro della Sapienza e dal Libro di Daniele, libri allora molto diffusi tra
i farisei.
Anche la punizione
del ricco epulone è di concezione tipicamente farisaica. Secondo la teologia
ebraica il defunto, dopo la sepoltura, giungeva nel mondo dei morti(3)
(ade in greco, sheol in ebraico o inferi in latino, da non
confondersi con inferno che è una concezione cristiana medioevale, non
presente nei vangeli); l’ade era una grande grotta sotto terra, dove tutti,
buoni e cattivi, al momento della morte finivano e conducevano un’esistenza di
larve, ombre che si nutrivano di polvere; gli ebrei non appartenenti alla setta
dei farisei, credevano che tutti, buoni e cattivi, una volta morti, finissero
li. I farisei(4), invece, credevano che il malvagio, giunto
nell’ade, venisse qui punito per dodici mesi(5). Inoltre, perché
questa punizione non fosse troppo monotona, ogni quattro mesi si cambiava il
castigo. Prima lo affliggeva il prurito, quindi il fuoco, ed infine la neve.
Insomma un inferno un po’ più umano di quello concepito in seguito dai
cristiani, ma, attenzione, dopo 12 mesi i corpi dei malvagi sono distrutti e la
loro vita bruciata, è sparpagliata dal vento sotto le piante dei piedi dei
giusti. Ancor oggi, nella cultura ebraica attuale, figlia diretta di quella
farisaica, quando muore una persona si prega per il defunto soltanto per undici
mesi. Dopo undici mesi non si prega più perché il dodicesimo mese, o è entrato
nella gloria di Dio e non ha più bisogno delle preghiere degli uomini, o è
definitivamente scomparso.
Chiarite
le parole usate da Gesù ed il loro significato nella cultura del tempo, vediamo
quale insegnamento possiamo trarre noi dalla parabola che abbiamo letto.
Lazzaro,
dice il vangelo, giaceva alla porta del ricco; sostava quindi fuori della casa.
Questo è un punto chiave di tutto il brano: Lazzaro non è il prossimo del
ricco, non appartiene a quella cerchia di persone (amici, parenti, servi,
schiavi) comprese nella sua famiglia. All’epoca di Gesù c’era in corso un
dibattito, tra le varie scuole teologiche, su chi fosse il prossimo. Si andava
da circoli più ristretti che intendevano come prossimo soltanto gli
appartenenti al proprio clan famigliare, altri, in maniera più amplia,
arrivavano addirittura ad includere lo straniero che abitava in Israele, ma non
c’era accordo. In questo caso il ricco non pensa che il mendicante Lazzaro
potesse appartenere a quelle persone che il Levitico ed il Deuteronomio impone
di amare come se stessi(6)
Il
ricco si considerava perfettamente a posto con la sua coscienza e con la Legge
di Dio. È un comportamento molto diffuso anche oggi: pensate a quanta gente
viene in chiesa la domenica per ottemperare ad un precetto, per sentirsi a
posto, senza rendersi conto di non essere affatto in accordo con la volontà di
Dio che vuole ben altro da noi che l’ottemperanza ad un precetto.
Una volta morti
entrambi, la realtà stravolge completamente le convinzioni del ricco: vede
Lazzaro consolato per quello che ha patito in vita e lui punito, non tanto per
il fatto di essere ricco. Il ricco, in realtà, non è cattivo, non si comporta
in maniera malvagia, non è che, quando vede il povero all'ingresso della sua
porta, lo prende a calci nel sedere. Gesù, in questa parabola, ha parole di
severa condanna(7) per il ricco non perché è tale, non perché si è
comportato in maniera negativa, malvagia nei confronti del povero: semplicemente
perché ne ha ignorato l'esistenza.
Anche noi spesso,
ignoriamo l’esistenza delle persone che soffrono, che sono nel bisogno; le
ignoriamo non perché non ne conosciamo l’esistenza, ma perché le sentiamo
lontane, non appartenenti al nostro gruppo, lontano dalla nostra
responsabilità. La nostra convinzione può essere espressa così: “cosa posso
farci io?” e continuiamo a vivere come se quelle persone, quei problemi, quei
bisogni non esistessero. In ognuno di noi alberga un ricco epulone e, a quanto
pare, ci si trova molto bene.
Don Milani, nella sua
lettera ai giudici del 18 ottobre 1965, a proposito della sua scuola di
Barbiana dice:
“Su una parete della
nostra scuola c'è scritto grande «I care». È il motto intraducibile dei giovani
americani migliori. «Me ne importa, mi sta a cuore». È il contrario esatto del
motto fascista «Me ne frego».”
L’insegnamento ultimo
che possiamo trarre da questo brano di vangelo è che dobbiamo scrivere anche
noi su una parete della nostra casa “I care” ed imparare a preoccuparci della
vita di tutti, vicini e lontani, buoni e cattivi.
Note:
1. Nei vangeli il termine Ade compare
4 volte: nel lamento di Gesù sulle città che non l’hanno accettato: “E tu, Cafarnao, sarai forse innalzata fino
al cielo? Sino all’Ade discenderai” (Mt
11,23; Lc 10,15); nella promessa che la sua comunità sarà più forte della
morte “E le porte dell’Ade non
prevarranno contro di essa” (Mt 16,18)
e, infine, nella parabola del ricco e di Lazzaro: “E nell’Ade, avendo alzati gli occhi” (Lc 16,23). – 2. probabilmente tratta da Gen 15,15. – 3. Al tempo della Bibbia la terra era considerata una
piattaforma che si reggeva su delle colonne che avevano la loro base nella
caverna sotterranea o regno dei morti, lo sheol.
Al di sopra della terra c’era la volta celeste composta di ben sette cieli,
ripartizione cosmologica che si trova nella Lettera di Paolo ai Filippesi: “Perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si
pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra” (Fil 2,10). Al di sopra del settimo cielo c’era la dimora di Dio.
Secondo i rabbini tra un cielo e l’altro c’era una distanza di ben cinquecento
anni di cammino. Paolo afferma di aver raggiunto il terzo cielo. Lo Sheol è il mondo sotterraneo dove finiscono tutti i morti,
dimenticati da Dio (Sal 6,5). I morti
ridotti a larve, ad ombre, si nutrono di polvere: “i morti non vivranno più, le ombre non
risorgeranno” (Is 26,14). – 4.
Laici pii impegnati ad osservare fedelmente la Legge in tutti i suoi
dettagli, i farisei elaborano per primi in maniera sistematica, la dottrina
della resurrezione dei giusti. Il
premio o la punizione per l'uomo vengono posticipati a dopo la morte per cui il giusto ritornerà alla vita e il
malvagio rimarrà nello sheol. – 5.
“Il Santo, che benedetto sia, condanna i malvagi nella Geenna per 12 mesi.
Prima li affligge col prurito, quindi col fuoco ed infine con la neve. Dopo 12
mesi i loro corpi sono distrutti, le loro anime sono bruciate e sparpagliate
dal vento sotto le piante dei piedi dei giusti” (Talmud: Sanh.29b; Tos.
Sanh.13,4‑5). – 6. Lv 19,18; Dt 15,2;
24, 10. – 7. Gesù prenderà l’immagine della geenna
come metafora per indicare la distruzione totale della persona che non
accoglie il dono di una vita più forte della morte. Al rifiuto della vita per
sempre corrisponde la morte per
sempre. E' questo il significato del monito che corre lungo tutto il vangelo da
parte di Gesù di cambiare atteggiamento altrimenti la fine è nella Geenna, cioè
nell'immondezzaio. La Geenna (il nome viene dalla contrazione di “valle
di Ben-Hinnon”) è un burrone a sud di Gerusalemme, dove c'erano altari
(tofet) nei quale venivano sacrificati i bambini in onore del dio Molok (Lv 18,21): “Hanno costruito
l’altare di Tofet, nella valle di Ben-Hinnon, per bruciare nel fuoco i figli e
le figlie” (Ger 7,31). Il re
Giosia cercò di stroncare questo culto, ma fu solo quando la valle venne
trasformata in immondezzaio di Gerusalemme, che si smise di praticare questi
sacrifici umani. Col tempo questa valle divenne simbolo di punizione per i
malvagi dopo morte.