Sesta Domenica di Pasqua –
Gv 14,23-29
[Gli disse Giuda, non
l'Iscariota: «Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi, e non al
mondo?»]. Gli rispose Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre
mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi
ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del
Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Vi lascio la pace, vi
do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il
vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: «Vado e tornerò
da voi». Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è
più grande di me. Ve l'ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà,
voi crediate.
A monte del brano in
esame vi è l’episodio in cui Filippo chiede a Gesù: “Signore, mostraci il
Padre e ci basta”(Gv 14,8).
L'evangelista ci vuol dire che le consuetudini e la tradizione(1),
possono condizionare talmente la mentalità di un individuo da impedirgli
l'esperienza di Dio.
Filippo è da tanto
tempo con Gesù (a quell'epoca i discepoli vivevano giorno e notte con il loro
maestro), ma nonostante fosse sempre a contatto con lui, non è riuscito ad
afferrare molto della sua predicazione. Non riesce a capire che il Padre è
esattamente come Gesù e questo crea a Filippo molta difficoltà.
Gesù, completando il
suo insegnamento a Filippo e alla comunità, dà una indicazione per percepire
questa presenza di Dio. Dice: "Credetemi: io sono nel Padre e il Padre
è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse"(Gv 14,11); cioè credetelo per quello che
sono stato in grado di fare.
A questo punto(2) viene riportata una domanda fatta da Giuda,
la quale dovrebbe servire a rilanciare il discorso. Questo discepolo, che
l’evangelista distingue espressamente dall’Iscariota, è probabilmente lo stesso
chiamato Giuda di Giacomo (cfr. Lc 6,16).
Egli chiede come mai Gesù si manifesti solo ai discepoli e non al mondo.
Secondo la mentalità giudaica il Messia è inviato da Dio per instaurare il suo
regno in questo mondo: non è quindi concepibile che solo alcuni colgano la sua
manifestazione, mentre tutti gli altri ne sono esclusi.
Il suo intervento però non provoca nessuna chiarificazione, in quanto
nella sua risposta Gesù non fa altro che ripetere quanto già detto
precedentemente.
“Gli rispose Gesù: «Se uno mi ama,
osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e
prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e
la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.”
Gesù si esprime con due frasi parzialmente parallele: la manifestazione del Figlio è dunque subordinata all’accoglienza della sua parola, la quale mette i discepoli in comunicazione non solo con lui, ma anche con il Padre, dal quale in ultima analisi essa proviene. Dal parallelismo tra le due frasi risulta che le parole (al plurale) di Gesù si identificano con la sua parola (al singolare), che è la parola stessa del Padre (cfr. Gv 7,16-17; 14,10), anzi è lui stesso, in quanto Verbo di Dio incarnato (cfr. Gv 1,1.14).
Gesù si esprime con due frasi parzialmente parallele: la manifestazione del Figlio è dunque subordinata all’accoglienza della sua parola, la quale mette i discepoli in comunicazione non solo con lui, ma anche con il Padre, dal quale in ultima analisi essa proviene. Dal parallelismo tra le due frasi risulta che le parole (al plurale) di Gesù si identificano con la sua parola (al singolare), che è la parola stessa del Padre (cfr. Gv 7,16-17; 14,10), anzi è lui stesso, in quanto Verbo di Dio incarnato (cfr. Gv 1,1.14).
Non solo, ma ponendo la dimora di Dio nell’uomo, Gesù sacralizza l’uomo,
il vero
santuario dal quale si irradia la gloria di Dio non è più una costruzione,
fatta da mani d'uomo, ma è la comunità dei credenti, è l'individuo stesso.
“Vi ho detto queste cose mentre sono ancora
presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio
nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.”
Gesù osserva che le cose sopra riportate sono state dette da lui ai
discepoli mentre si trovava ancora con loro: la sua è stata quindi una
comunicazione ancora condizionata da quello strumento limitato che è la parola
umana. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che sarà inviato dal Padre nel suo
nome, insegnerà loro ogni cosa e ricorderà tutto ciò che egli ha detto: per
mezzo dello Spirito si attuerà dunque quella conoscenza piena di Dio che era
stata preannunziata dai profeti (cfr. Ger
31,34; Is 54,13) in quanto solo lo Spirito può parlare nell’intimo dei
cuori.
Il Dio di Gesù non è
un Dio al di fuori dell'uomo, lontano, irraggiungibile, ma un Dio che viene ad
abitare nell’uomo, che gli comunica la sua stessa capacità d'amore, lo "Spinto
Santo". Dio non chiede solo che l'uomo si rivolga a lui, ma che
vivendo di lui sia come lui.
Tutto questo ha
cambiato il linguaggio e l'atteggiamento di ciascuno di noi; l'uomo si sente
amato immeritatamente e incondizionatamente da Dio, da un Dio che non gli
chiede niente e prende dimora in lui. L'uomo, in questo amore(3),
non può che esprimere balbettando una lode, un ringraziamento.
Questo amore che
viene comunicato, però, diventa efficace dal momento che da noi viene prodotto
altrettanto amore verso gli altri (cfr. Gv
13,34). L'amore, per la dinamica stessa della vita non si può
fermare, ma deve andare oltre e l’unico prodotto sensibile di questo amore è la
pace.
“Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do
a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.”
Nell’AT l’espressione
avere la pace significa “vivere bene, senza danno, perfettamente”.
L’opposto di pace perciò non è guerra, ma incompletezza, imperfezione (cfr. 2Sam 11,7): la pace è assente nella
discordia e nella malattia (cfr. Mc 5,34).
La pace di Cristo non
è avere una vita senza alcun problema, senza alcuna malattia, senza dolore; la
pace di Cristo vuol dire avere una serenità ed una forza tali da affrontare
problemi, malattie e dolori in modo nuovo, senza paura e senza disperazione
perché si ha la certezza che Gesù è al nostro fianco in ogni momento (cfr. Mt 28, 20).
Con Cristo è venuta la pace poiché Dio e l’umanità si
uniscono l’un l’altro in maniera nuova, nella nuova alleanza sancita sulla
croce (cfr. 2Cor 3,15; Gal 4,24.26).
Il messaggio di Cristo è messaggio di pace, di amore e di
comprensione, ma comporta l’impegno di fare tutto ciò che serve per creare un
mondo di pace, di amore e di comprensione, perché le parole, da sole, non
bastano (cfr. Mt 16,27; 1Cor 3,13s; 2Cor
11,15; Ap 2,23).
Il rapporto diretto tra Gesù e i suoi discepoli passa quindi in secondo
piano rispetto a quello che si stabilisce tra loro e lo Spirito. Questi però
non farà altro che portare a termine l’opera iniziata da Gesù, rendendo i
discepoli interiormente capaci di capire e di assimilare quanto egli stesso
aveva loro insegnato.
“Avete udito che vi ho detto: «Vado e
tornerò da voi». Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il
Padre è più grande di me. Ve l'ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando
avverrà, voi crediate.”
Gesù ripete poi nuovamente ai discepoli che ora se ne va, ma ritornerà da
loro: per coloro che lo amano il fatto che egli vada al Padre deve essere fonte
di gioia, perché il Padre è più grande di lui: in quanto inviato, Gesù è a lui
subordinato (cfr. 1Cor 15,28) e a lui
deve condurre l’umanità perché ottenga la gioia della salvezza. Egli ha detto
loro queste cose prima che avvengano, affinché, quando si realizzeranno, essi
possano credere.
La Pasqua di Gesù consiste nel suo ritorno al Padre, mediante il quale si
rivela la pienezza dell’amore gratuito di Dio per l’umanità. Dopo la sua morte
Gesù manda lo Spirito, mediante il quale il Padre e lui stesso prendono dimora
nei suoi discepoli. Si attua così la nuova alleanza annunziata dai profeti,
dalla quale ha origine per essi un’esperienza di amore che, attraverso Gesù, si
apre al Padre e ai fratelli: in tal modo l’amore cessa di essere un
comandamento per divenire un’esigenza interiore, la cui pratica da parte dei
discepoli rappresenta il segno più evidente della salvezza ormai attuata.
Mediante un sovrapporsi di frasi abbastanza monotone e ripetitive, l’evangelista
vuol far capire, ispirandosi a concetti tipici della sua cultura, che Gesù ha
saputo amare fino in fondo i suoi simili, prodigandosi per loro e accettando su
di sé tutto il peso dell’odio e della violenza in cui erano immersi. Mediante
questa scelta radicale di vita ha manifestato l’amore infinito di Dio per tutta
l’umanità. I suoi comandamenti, identificati con le sue parole, non sono altro
se non le esigenze di vita che scaturiscono dal suo modo di essere e di agire:
non si tratta dunque di comandi in senso proprio, ma della sua persona stessa
in quanto ha la capacità di evocare l’amore di Dio e di trascinare i credenti
sulla strada da lui percorsa. La forza trainante che scaturisce dal suo esempio
viene identificata con la figura biblica dello Spirito, che è la stessa potenza
divina che ha spinto Gesù ad amare fino alla fine. In altre parole lo Spirito è
il suo modo di pensare e di vivere (cfr. 1Cor
2,16) che egli trasmette loro in modo pieno morendo in croce: sotto
l’azione dello Spirito essi faranno la sua stessa esperienza, e questo li
porterà a capire sempre più in profondità la sua persona e il suo messaggio.
Note: 1. Secondo
la mentalità ebraica c'erano "sette cieli": Dio risiedeva sopra il
settimo cielo e i rabbini, che amavano calcolare tutto, dicevano che tra un
cielo e l'altro c'era una distanza di 500 anni di cammino. Quindi, tra l'uomo e
Dio c'erano 3500 anni di cammino. Per questo, per Filippo, Dio è inaccessibile, per questo non comprende
le parole di Gesù “Se conoscete me,
conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto”. –
2. L’esegesi che segue è stata tratta liberamente da un articolo di P.
Alessandro Sacchi pubblicato sul sito Nicodemo.net. – 3. Che potremo chiamare
di "identificazione”, cioè sentirsi amati così come si è,
indipendentemente da quello che si fa.