Parte quarta
di 4.
La resurrezione
Perché Gesù
costringe i suoi discepoli a recarsi in Galilea per vederlo? Basta saltare al
versetto 16 per comprenderlo.
“Gli undici intanto andarono in Galilea…”, notate adesso il
particolare: “…sul monte che Gesù aveva
loro fissato”.
Tre volte abbiamo
nel Vangelo l’invito ad andare in Galilea, ma mai viene specificato il monte
sul quale andare. Il monte non è un luogo geografico, non è un'indicazione
topografica, quella che l’evangelista ci dà è una indicazione teologica.
Nell’antichità, essendo il monte il luogo della terra più vicino al cielo, esso
era condiderato il luogo della residenza degli dei(1).
Questo «il monte»
nel Vangelo di Matteo è già stato presentato come il luogo dove Gesù ha
annunziato il suo messaggio fondamentale: il monte delle beatitudini.
Questa è
l’indicazione che l’evangelista ci sta dando: chi vuole sperimentare nella sua
esistenza la presenza di Gesù vivo e vivificante, del Risorto, deve essere
fedele al programma di Gesù che è stato espresso e formulato nelle beatitudini.
Quindi questo è il
monte nel quale la comunità si impegna a essere responsabile della felicità
degli altri. Costoro, solo costoro, fanno l’esperienza di Gesù resuscitato.
“Quando lo videro…”, quindi lo vedono, “…gli si prostrarono innanzi…”. E qui c’è
un verbo strano “…ma dubitavano”.
Perché dubitano? Lo
vedono e quindi sono certi che Gesù è resuscitato! Gli si prostrano innanzi,
riconoscono che in lui c’è la condizione divina, ma dubitano. Questo verbo,
dubitare, è apparso un’altra volta nel vangelo di Matteo, quando Gesù cammina
sulle acque.
Vedono Gesù
resuscitato, lo sperimentano, ma sanno che per raggiungere questa condizione
bisogna passare attraverso il dolore della vita, la persecuzione e forse la
croce e la perdita della propria vita. Pertanto non dubitano della presenza di
Gesù resuscitato, dubitano della propria capacità di seguire Gesù fino a questa
condizione.
Poi c’è l’invito di
Gesù di andare a tutta l'umanità immergendola nella realtà di Dio e le ultime
parole di Gesù: “…e io sono con voi per
sempre”. Gesù nel vangelo di Matteo non sale al cielo per servizi resi, ma
rimane al centro della sua comunità.
Riguardo alla morte Gesù ci assicura: chi crede in me non
farà mai l’esperienza della morte. È chiaro, ci sarà la morte della carne. C’è
una prima morte ed è quella biologica, ma chi ha dentro di sé questa qualità di
vita non farà l’esperienza della seconda.
Il brano del vangelo di
Giovanni ha analoga impostazione, ma risente del fatto che è stato scritto
circa 30-40 anni dopo: nella concezione giovannea la morte di Gesù in croce rappresenta già la
sua piena glorificazione e il compimento della sua opera salvifica, che
continua ora nel mondo mediante la comunità dei suoi discepoli.
Non dovremmo quindi attenderci più un racconto
della sua risurrezione, che in questa ottica diventa completamente superfluo.
Ma Giovanni non può sacrificare un dato così importante della tradizione a una
sua concezione teologica.
Egli perciò riporta la notizia tradizionale
secondo cui il mattino di Pasqua la tomba è stata trovata vuota; ad essa fa
seguire il racconto di un’apparizione del Risorto a Maria Maddalena, poi due
volte ai discepoli, la seconda delle quali è diretta specialmente all’incredulo
Tommaso.
Spinti dalle parole di Maria di Magdala, due
discepoli, Pietro che rappresenta la parte di Israele ancora ancorata alla
Legge e alla tradizione antica e un altro discepolo, “quello che Gesù amava”(2), corrono al sepolcro. La
corsa, come abbiamo già visto, fa perdere onore e dignità a chi la effettua, ma
la cosa è così importante, così urgente da far ignorare le conseguenze ai due
discepoli.
L’evolversi della corsa è il simbolo
dell’evolversi della fede tra i discepoli: chi raggiunge la fede per primo è
chi abbandona la tradizione e si affida a Cristo e sono questi che devono
aiutare quelli che sono ancora radicati alla tradizione; per questo Pietro
viene atteso e gli si consente di entrare per primo nel sepolcro(3).
La scoperta del sepolcro vuoto e della fede dei
primi discepoli ha un significato molto importante nel quarto vangelo. Essa
vuol dire che la fede nel Risorto non si basa su prove oggettive, quali le sue
apparizioni, e neppure la scomparsa del cadavere dalla tomba. I due discepoli
infatti credono perché finalmente, stimolati da un fatto di per sé privo di
qualsiasi forza dimostrativa, improvvisamente colgono il significato delle
Scritture, secondo le quali egli doveva risorgere.
In realtà le Scritture non parlano esplicitamente
della risurrezione del Messia: sarà a partire da questo evento che i primi
cristiani rileggeranno le Scritture, ritrovando in esse quello che era
diventato il punto centrale della loro fede. Tuttavia sono proprio le Scritture
che, mettendo in luce il piano salvifico di Dio, mostrano che il suo inviato
non poteva subire la sconfitta cocente della croce, anzi proprio questa doveva
essere il segno più luminoso della sua gloria. Così viene affermato in modo
fortissimo che la gloria di Dio si distacca radicalmente dalla gloria umana:
mentre questa consiste nella sopraffazione dell’uomo sull’uomo, la gloria di
Dio significa identificarsi con gli ultimi per portarli a una vita piena che
non verrà mai meno.
Fin qui ho seguito
il pensiero della chiesa primitiva, l’ho esaminato dal punto di vista
antropologico e teologico. Rimane da esamiare un fenomeno particolare,
riportato prevalentemente dai Vangeli e dagli Atti degli apostoli, ma anche da
Paolo nelle sue lettere: le ripetute apparizioni del Risorto. In merito a
questo penso sia necessario che io ceda il passo a chi, molto più di me, ha
competenza ed esperienza per esprimere un parere: Hans
Küng, forse il più grande teologo che la Chiesa Cattolica abbia mai avuto(4).
Il brano che qui riporto è
tratto da Cristianesimo,
essenza e storia, edito nel 1997 da RCS Libri
S.p.A. Milano. Küng sta parlando della situazione dei discepoli di Gesù dopo la
sua morte:
“Essi avevano infatti visto come colui che
aveva annunciato e inaugurato la venuta del Regno di Dio, fosse stato
giustiziato come un abbandonato da Dio. Ma avevano essi per questo perduto
davvero la fede e la speranza nel Regno di Dio? In ogni caso, dopo lo choc
dell'arresto e della condanna, alcune donne (a Gerusalemme?) e alcuni uomini
ebrei (in Galilea?) fecero diverse esperienze estatico-pneumatiche(5),
tramite una serie di visioni e audizioni che diedero loro la certezza che Gesù
fosse in vita. Comunque l'esegesi e la scienza religiosa odierne cerchino di
spiegare in maniera storico-psicologica questi fenomeni(6), i
discepoli ebrei fecero queste esperienze — indubbiamente sull'orizzonte di
speranze ebraiche di resurrezione e di modelli d'interpretazione (ad esempio il
rapimento in cielo di Henoch ed Elia, la resurrezione dei martiri, le leggende
dell'ascensione in cielo di Mosè e Isaia) — non come interpretazioni prodotte
da essi stessi, bensi come rivelazioni donate da Dio: egli, umiliato e
stroncato, non era stato lasciato da Dio nella morte, ma era stato richiamato
alla vita. E dov'è ora? Questa è la loro convinzione: egli, che in virtù
dell'accordo tra la autorità ebraiche e il procuratore romano Ponzio Pilato
era stato condannato e giustiziato, è stato elevato presso Dio, si trova ora
nella gloria celeste e governa — come è annunciato nel Salmo 110(7)
— dal posto d'onore «alla destra di Dio» sul mondo fino al giorno in cui
ritornerà per il giudizio. Anzi, egli è ora il portatore della speranza nel
veniente Regno di Dio: la guida, il salvatore e il giudice del mondo. Qui sta
l'origine di tutta la cristologia: Dio, nonostante la morte in croce, con la
resurrezione ha «costituito Signore e Cristo»(8) Gesù che ne aveva
annunciato il regno con autorità.
In ogni caso, sotto la guida di Pietro, si
era ora giunti a una nuova riunione dei discepoli, che al momento dell'arresto
di Gesù erano fuggiti, e di nuovo a Gerusalemme. Il racconto della Pentecoste,
che negli Atti degli apostoli parla di un'effusione dello Spirito divino(9)
— quale che sia la realtà che storicamente si cela dietro i fenomeni
manifestamente estatici della glossolalia e del rapimento —, attesta lo
Spirito entusiastico-escatologico con cui si è costituita la prima comunità
messianica — nella festa ebraica del raccolto e del pellegrinaggio, nella
«festa delle settimane» (sette settimane e un giorno dopo la festa di Pasqua),
che i cristiani chiamano «festa di Pentecoste» (dal greco «Pentekosté» = cinquantesimo
giorno). Lo Spirito di Dio, che secondo la concezione ebraica si era estinto
nel presente, venne sperimentato nella giovane comunità, e non poche persone
che avevano ricevuto lo Spirito incominciarono a esprimersi con discorsi
profetici.
Come
l'apocalittica non era un frutto del giovane cristianesimo, così il giovane
cristianesimo non fu soltanto un figlio dell'apocalittia. C'è piuttosto un'interdipendenza
di fenomeni. Si rafforzava la fede che colui che Dio aveva richiamato in vita
sarebbe ritornato come il giudice del mondo per portare a compimento la già iniziata sovranità di Dio e
per istituire il definitivo Regno di Dio. Nel frattempo bisognava annunciare
il suo messaggio; il suo nome era il marchio e l'insegna luminosa del regno
veniente, che «già ora» si poteva sperimentare nello Spirito, ma non era
ancora rivelato, «non ancora» realizzato. Già ora bisognava decidersi in suo
favore. Ma questa decisione in favore di Gesù — una domanda da allora di
importanza attuale e insieme permanente — significava congedo dalla comunità
ebraica, distacco dalla nazione ebraica? Niente affatto.”
Note: 1. Questa concezione
si è radicata anche nel mondo occidentale. Infatti generalmente i santuari sono
situati in luoghi alti. Ricordiamo che l’idea di costruire santuari non è
cristiana, ma è una tradizione di impronta pagana. – 2. Quando nei vangeli
viene citato un personaggio senza darne il nome, questo va inteso come un
rappresentante di una categoria e mai come un’unica persona. In questo caso il
discepolo è lo stesso presente sotto la croce e rappresenta l’insieme di tutti
i discepoli di Gesù, passati e soprattutto futuri. La tradizione cattolica ha
erroneamente identificato “il discepolo che Gesù amava” con lo stesso evangelista
Giovanni; questo è stato possibile a causa della macroscopica mancanza di
conoscenze sulla cultura ebraica da parte della Chiesa cattolica fino alla
seconda metà del XX secolo. – 3. Questa situazione non era tipica solo della chiesa
primitiva, ma si è perpetuata per secoli appesantendo la Chiesa cattolica e impedendole
quel salto in avanti che la fede in Cristo avrebbe potuto consentirgli.
Rimanere ancorati alla tradizione, anche se questa è legata a concetti e modi
di pensiero estranei al momento attuale, impedisce infatti di mantenere i vangeli
come unica e somma luce per illuminare il cammino del credente. – 4. Hans Küng è nato a Sursee (Svizzera) il 19 marzo 1928,
tuttora vivente; è stato ordinato sacerdote nel 1954 e ha studiato a Lucerna,
Roma e Parigi. Nel 1960 è ordinario di Teologia nell’Università di Tubinga in
Germania. Ha partecipato al Concilio Vaticano II come esperto nominato da Papa
Giovanni XXIII. La Congregazione per la dottrina della fede il 18
dicembre 1979 gli revoca l'autorizzazione all'insegnamento della teologia
cattolica. Küng continua comunque ad essere sacerdote cattolico, e conserva
comunque la cattedra presso il suo Istituto,
che viene però separato dalla facoltà cattolica e inserito nella struttura
statale. – 5. Pneuma in greco ha il significato di respiro, di spirito: per
esperienze estatico-pneumatiche si intende quindi esperienze vissute in
condizioni di estasi spirituale. – 6. Cfr. i più
recenti tentativi di ricostruzione storico-psicologica di C. Colpe, Die alteste
judenchristliche Gemeinde, in J. Becker, Die Anfänge, pp. 59-79, e
di L. Schenke, Die Urgemeinde, pp.
11-23. – 7. Oracolo del
Signore al mio signore: “Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a
sgabello dei tuoi piedi”. – 8. Cfr. At 2,22-36.
– 9. Cfr. At 2.
(segue la
prossima domenica)