XXIV Domenica del Tempo
Ordinario – Lc 15,1-32
Si avvicinavano a lui tutti i
pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano
dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro
questa parabola:
«Chi di voi, se ha cento pecore e ne
perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella
perduta, finché non la trova? Quando l'ha trovata, pieno di gioia se la carica
sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi
con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Io vi
dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più
che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci
monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca
accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le
vicine, e dice: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo
perduto». Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo
peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due
figli. Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di
patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi
giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un
paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando
ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli
cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno
degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i
porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma
nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio
padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio
padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più
degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Si
alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei
campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò
uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose:
«Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo
ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre
allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da
tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato
un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo
figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai
ammazzato il vitello grasso». Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con
me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché
questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato
ritrovato»».
“Si avvicinavano a lui tutti i
pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano
dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro
questa parabola…”. La platea
alla quale si rivolge Gesù è costituita da coloro che sono stati emarginati
dalla casta sacerdotale, dagli scribi e dai farisei; questi ultimi
stigmatizzano il fatto che Gesù perda tempo con i rifiuti della società, ma
proprio a questi è rivolta la parola perché loro sono i malati, i sofferenti.
La prima parabola è così formulata: “«Chi di voi,
se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va
in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l'ha trovata, pieno di
gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice
loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era
perduta»”.
Questa parabola si ispira alla nota immagine biblica di Dio come buon
pastore che si prende cura del suo popolo (cf. Is 40,1; Ez 34; Sal 23). Un uomo ha cento pecore e ne
perde una. Che cosa gli resta da fare se non lasciare le novantanove nel
deserto (secondo Matteo «sui monti») e andare in cerca di quella perduta finché
non l’ha ritrovata? Il paradosso di questo comportamento sta nel fatto che il
pastore mette a repentaglio tutto il gregge per una sola pecora: è implicito
che le altre novantanove non sono vere pecore del gregge se non capiscono la
sollecitudine del pastore anche per una sola pecora che si è smarrita e non
sanno far fronte ai pericoli che questa ricerca comporta per loro.
Quello che nel racconto viene dato per scontato tra normali pastori è
presentato nella conclusione come il modello a cui Dio si ispira nei suoi
rapporti con gli uomini: “Io vi dico: così vi sarà gioia nel
cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i
quali non hanno bisogno di conversione”.
Questo paradosso significa che i giusti non devono pensare di avere in
esclusiva l’amore di Dio. Dio ama tutti nello stesso modo e non fa preferenza
di persona, ma proprio per questo a chi si allontana è riservata un’attenzione
speciale.
La seconda parabola adotta lo stesso schema della precedente: “Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la
lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo
averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: «Rallegratevi con me,
perché ho trovato la moneta che avevo perduto»”.
Il punto saliente della parabola consiste nella sproporzione tra l’esiguità
della moneta, che corrisponde a un denaro di argento, la paga giornaliera di un
operaio, e l’esultanza indicibile per il suo ritrovamento. La conclusione è la
stessa della parabola precedente: “Così, io vi dico, vi è gioia davanti
agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte»”.
L’inverosimiglianza del racconto serve a dare maggior rilievo al motivo
della gioia messianica per la conversione del peccatore. Cade invece l’aspetto
più ostico della parabola precedente, e cioè il confronto tra la gioia per il
peccatore convertito e quella per i giusti che non hanno bisogno di
conversione.
È significativo che in nessuna delle due parabole si parli di un perdono
di Dio per il peccatore pentito, ma solo della gioia che provoca il suo ritorno
nella comunità dei giusti. Il perdono non è dunque un affare che si risolve
semplicemente tra Dio e l’interessato, ma piuttosto un cambiamento di rapporti
tra persone che prima erano separate e poi ritrovano l’unità. L’infinita
misericordia di Dio si manifesta unicamente nel fatto che individui disparati
si riconciliano tra loro e diventano solidali in tutti gli aspetti della loro
vita quotidiana.
Il perdono di Dio è
l’elemento dominante della terza e più famosa parabola.
Nella narrazione
della parabola man mano che si tratteggia la figura del padre, il lettore è
invitato a scoprire il volto di Dio, quello manifestato da Gesù nel suo
insegnamento e nelle sue opere.
"Disse ancora:
«Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte
del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze".
E’ bene ricordare fin
dall’inizio queste indicazioni che dà l’evangelista, perché spesso nel commento
della parabola rischiano di essere dimenticate. Il figlio minore ha chiesto:
dammi la mia parte di eredità ed il padre, secondo il diritto dell’epoca, non
si è limitato a dare la sua parte di eredità al figlio minore, ma ha dato anche
la parte di eredità al figlio maggiore che riceveva il doppio dei beni che
andavano al figlio minore. Il padre riserva a sé una parte fintanto che è in
vita, parte che comunque andrà al figlio maggiore alla sua morte.
"Dopo non molti
giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose", quindi avuto il
tempo di convertire questo patrimonio in moneta contante, "partì per un
paese lontano", dove “paese lontano” è un espressione che spesso nella
Bibbia indica un paese pagano: non solo abbandona il padre, ma abbandona anche
il suo Dio, va in luoghi con altre divinità, "e là sperperò le sue
sostanze vivendo da dissoluto.".
Questo ragazzo è molto
infantile, è uno che non ci sa fare. A casa del padre aveva potuto raccogliere
tutto, appena fuori disperde tutto: la fretta con la quale è riuscito ad
ottenere l’eredità dal padre è la stessa con la quale, poi, l’ha dissipata.
Qui c’è la prima
denuncia dell’evangelista: se le persone puntano tutto sul denaro, sull’avere,
quando non hanno più denaro, quando non hanno più niente non esistono più come
persone; è quello che succede a questo ragazzo.
"Quando ebbe
speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a
trovarsi nel bisogno." Il ragazzo ha puntato
tutto sui soldi: una volta che i soldi non ci sono più si trova non solo a non
avere niente, ma ad essere lui stesso un niente. E’ ancora una volta la vittima
di “mammona”(1). Per Gesù, mammona è un idolo che divora e distrugge
tutti quelli che gli rendono culto; il culto al denaro distrugge le persone, è
un dio insaziabile perché le persone, più denaro accumulano, più si sentono
nella necessità di averne ancora, non si saziano mai.
"Allora andò e
si mise a servizio" – lui, che era un signore a casa del padre, è costretto
ad andare a mettersi al servizio; ha lasciato il padre ed ha trovato un padrone
- "di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a
pascolare i porci.". È il massimo del degrado: nel libro del Levitico
è proibito, in Israele, allevare e mangiare il maiale, perché il maiale è un
animale che è ritenuto impuro.
Quest’uomo ha
raggiunto il massimo del degrado: sta all’estero, ha abbandonato il suo Dio, da
padrone che era in casa di suo padre è andato a fare il servo, ma il servo più
infimo che ci sia, un pastore di porci, in una condizione di costante impurità.
"Avrebbe voluto
saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava". E’ ormai un
animale, trattato davvero come una bestia, al punto che invidia i porci che
almeno mangiano, mentre lui non ha neanche da mangiare. A questo punto i morsi
della fame lo fanno rinsavire.
"Allora rientrò
in se e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e
io qui muoio di fame!"
Questa parabola viene
presa spesso a modello di pentimento: nulla di tutto questo. Luca è chiaro: questo
ragazzo decide di tornare alla casa paterna non perché gli manca il padre,
ma perché gli manca il pane.
Questo ragazzo non
sta pensando al dolore del padre, a quello che ha provato come conseguenza del
gesto del figlio; non è sfiorato dal pensiero del pentimento. Il suo
comportamento è dettato dai morsi della fame: qua muoio di fame; a casa mia
mangiavo.
C’è una frase che
mostra come il padre fosse una persona generosa: "... i salariati in
casa di mio padre hanno pane in abbondanza …".
Il datore di lavoro
di questo ragazzo, invece, è una persona che non gli dà neanche da mangiare. Il
padre non tratta così i servi: i servi del padre abbondano di pane.
Ciò che fa rinsavire
questo ragazzo non è il pentimento ma è il tornaconto personale e quindi
dice: "… Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato
contro il Cielo" (cioè contro Dio), "e contro di te; non
sono più degno di esser chiamato tuo figlio”. – secondo il diritto ebraico,
una volta ricevuta la sua parte di eredità ed allontanatosi dalla casa paterna,
si decadeva dalla condizione di figlio – “Trattami come uno dei tuoi garzoni.”
Il ragazzo prepara
questo discorso per poter essere accolto dal padre; in esso non c’è nulla che
esprima il dolore o pentimento per l’atto compiuto nei confronti del padre, ma solo
il suo tornaconto: "… Si alzò
e tornò da suo padre."
Ora dobbiamo prestare
la massima attenzione perché Luca descrive l’atteggiamento del padre con una
serie di atti che hanno un significato profondo per noi perché descrivono
l’atteggiamento di Dio nei confronti dell’uomo peccatore (e non del peccato).
"Quando era
ancora lontano il padre lo vide". Il fatto che il padre lo vede da lontano
significa che il padre, pur rispettando la libertà del figlio, non aveva perso
la speranza di un suo ritorno, continuava ad aspettarlo.
".. ebbe compassione
…", avere
compassione è un termine che indica l’azione di Dio che restituisce vita,
laddove vita non c’è. L’azione del padre nel vedere il figlio non è una
visione di una persona irata, di una persona indignata, ma è una compassione
che si traduce in trasmettere vita dove vita non c’è.
" .. gli corse incontro…": questo, per un
ebreo di 2000 anni fa, è inaudito.
Nel mondo orientale
non esiste la fretta come nel nostro mondo occidentale; il tempo è valutato in
maniera differente: non si corre mai, non si ha mai fretta e l’atteggiamento
del correre è un atteggiamento di grave maleducazione; è disdicevole e
disonorevole per una persona sposata. Un uomo sposato, un padre non corre mai:
una persona che corre va incontro al disonore.
L’evangelista ci sta
dicendo che restituire l’onore al figlio disonorato per il padre è più
importante che mantenere il proprio onore.
"… gli corse
incontro, gli si gettò al collo lo baciò".
Chiunque di noi, di
fronte ad un figlio che ha dimostrato un comportamento così sbagliato, avrebbe
reagito diversamente; l’istinto di dagli due ceffoni sarebbe stato il
sentimento prevalente. Il padre ha invece un comportamento di accoglienza
affettuosissimo.
L’evangelista si rifà
al primo grande perdono che c’è nella storia biblica, contenuto nel libro della
Genesi, riguardante anch’esso una squallida storia di eredità: il perdono che
Esaù ha avuto nei confronti di Giacobbe. Giacobbe, figlio minore, approfittando
del fatto che il padre Isacco era anziano e che oramai non ci vedeva più bene,
si traveste da fratello maggiore, da Esaù.
Esaù era una persona
molto pelosa e allora lui si mette dei peli addosso e carpisce, ruba, al padre
la benedizione che consisteva nel dono della eredità. Quando arriva Esaù e
viene a sapere che il fratello Giacobbe gli ha rubato l’eredità, succede un
finimondo: Esaù prende un gruppo di persone armate e va all’inseguimento del
fratello che nel frattempo era scappato.
Quando Giacobbe vede
da lontano Esaù, che lo insegue con 400 cavalieri, pensa: è arrivata la fine.
Invece Esaù corre incontro a Giacobbe, gli si getta al collo e…..e lo bacia(2):
il bacio è l’espressione del perdono.
Gesù, con questa
parabola e con tutto il suo insegnamento, ha dimostrato che il perdono viene concesso
prima che venga richiesto: il perdono precede ed eventualmente è causa del
pentimento, ecco perché Gesù dice che ha portato a compimento la speranza
dell’AT.
Il figlio tenta di
recitare il discorso che si è preparato, ma il padre lo ferma. Con il bacio lo
ha già perdonato. Non importa per quale motivo sei tornato, non importa quello
che hai fatto: guarda come ti volevo e ti voglio bene.
Il figlio è
interdetto, ha ancora timore: ".. Il figlio gli disse",
cerca, ma non ci riesce, di dire al padre quell’atto di dolore che si era
preparato; il padre non lo lascia terminare e soprattutto non gli permette
quell’espressione: trattami come uno dei tuoi salariati.
Il figlio è incredulo
di fronte all’atteggiamento del padre che non lo rimprovera, non gli mostra la
sua ira e il suo sdegno, ma lo perdona prima che il figlio chieda perdono.
Il padre gli tappa la
bocca e “Ma il padre disse ai servi:
«Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare…".
Gesù sta descrivendo
il modo con cui Dio concede il perdono all’uomo nel peccato e di conseguenza
come deve essere il perdono per tutti i cristiani: ora compie l’azione più
importante, restituire vita, amore, dignità e libertà a questo figlio che aveva
perso tutto.
L’atto di rivestirlo
non è dovuto alle condizioni in cui doveva trovarsi oggettivamente il figlio e
quindi il padre gli ha fatto fare il bagno e lo ha rivestito; l’atto ha un
significato ben più alto perché la veste era una onorificenza che nella Bibbia
significa il ripristino della dignità perduta.
L’evangelista si rifà
all’AT: Giuseppe, in Egitto, per colpa della moglie di Putifarre, era stato
messo in carcere. Quando finalmente viene riconosciuta la sua innocenza il
faraone lo chiama e, scrive l’autore, lo rivestì di abiti di lino finissimo:
ecco ti restituisco quella dignità che avevi prima (Gen 41,42).
Il perdono di Dio è caratterizzato
dalla restituzione dell’onore, della dignità; ciò che segue per la nostra
mentalità sarebbe una pazzia, ma è la pazzia dell’amore di Dio: “...mettetegli
l’anello al dito…".
L’anello non era un
semplice monile, ma era l’equivalente della nostra carta di credito e del
libretto degli assegni. Era un anello con impresso il sigillo del casato che
serviva per fare gli acquisti, per fare le compere.
Anche qui c’è un
richiamo all’AT, al libro di Ester, dove un economo era stato accusato e
gettato ingiustamente in prigione. Quando viene riammesso a corte "..
il re si tolse l’anello che aveva fatto ritirare ad Amàn e lo diede a
Mardocheo. Ester affidò a Mardocheo l’amministrazione della casa che era stata
tolta ad Amàn" (Est 8,2-3).
Dare l’anello a
questo ragazzo è qualcosa di folle perché è come dargli l’amministrazione della
casa: questo è un immaturo che in poco tempo ha sperperato tutto quanto, è un
incapace che ha dimostrato di non avere nessuna competenza nell’amministrazione
e il padre è tanto pazzo da mettergli in mano l’amministrazione della casa.
Qui siamo veramente
lontani dalla mentalità umana; Dio veramente ragiona secondo metri che non ci
appartengono: il padre con questo gesto dice, è vero che hai combinato un
disastro, ma io ho tanta fiducia in te che non ti do solo i tuoi beni da
amministrare, ma sei l’amministratore di tutta la casa.
Il perdono di Dio
comporta quindi non solo la libertà, la dignità ma anche la piena fiducia; ma
vi è ancora un gesto: ".. e i calzari ai piedi". Nelle case
dell’epoca di Gesù i servi andavano tutti scalzi: gli unici che potevano
portare i sandali erano i padroni di casa. Il padre gli sta dicendo: tu volevi
essere ammesso qui come un servo; invece tu sei il padrone.
“Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,
perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato
ritrovato». E cominciarono a far
festa".
Non c’è persona che
viva una situazione di peccato, una situazione di lontananza da Dio, una
situazione di discriminazione, di emarginazione, alla quale non possa giungere
questa buona notizia: l’amore di Dio è rivolto a tutti e, soprattutto,
l’incontro dell’uomo peccatore con Dio non è mai umiliante. Il padre non ha
chiesto al figlio: che cosa hai fatto, il padre gli ha tappato la bocca e gli
ha detto: senti quanto ti voglio bene.
Entra
ora in scena il vero protagonista della parabola, il figlio maggiore; Gesù l’ha
raccontata proprio per gli scribi ed i farisei, ma anche per noi che spesso ci
comportiamo verso gli altri peggio degli scribi e dei farisei.
"Il figlio
maggiore…": qui
il riferimento dell’evangelista non è tanto all’età, ma a tutti quelli che si
credono superiori o, peggio ancora, santi; nella figura del fratello maggiore
Gesù raffigura tutte quelle persone che si arrogavano il diritto di essere i
giudici degli altri.
"…si trovava nei
campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze…". Secondo la mentalità di questo figlio la casa doveva essere in lutto; se da
lontano sente la musica e le danze, la ragione della festa non poteva essere
che una: il ritorno del fratello. Lui si sente “per bene”, non come suo
fratello minore; non può entrare nella stessa casa dove si fa festa per un “depravato”;
“…chiamò uno dei servi e gli
domandò che cosa fosse tutto questo".
Che descrizione
tremenda che l’evangelista fa delle persone che si ritengono nel giusto! Per
loro la casa del Padre è la casa di seriosità; che nella casa del Padre ci
possano essere musiche e danze, non è concepibile! Mi ricorda un cardinale che,
alcuni anni fa, voleva vietare ad alcuni popoli dell’Africa Occidentale di
dimostrare il proprio amore per Cristo ballando davanti all’altare!
"Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha
fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si
indignò, e non voleva entrare".
Per il fratello
maggiore è intollerabile che il padre accolga e festeggi il fratello che si è
comportato così male, senza imporgli un minimo di penitenza.
"Suo padre allora uscì a supplicarlo".
Il padre non lo manda
a quel paese; io lo avrei fatto. Con questo figlio il padre dimostra lo stesso
amore facendo un atto incredibile: non si impone con l’autorità paterna, ma lo supplica.
“Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho
mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far
festa con i miei amici…".
Per valutarle queste
parole occorre ricordare che il padre ha diviso il suo patrimonio tra i due
figli. Al figlio maggiore ha dato il doppio del figlio minore, ma allora
perché dice: non mi hai mai dato neanche
un capretto?
“Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue
sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre
con me e tutto ciò che è mio è tuo;…".
Scopriamo ora cosa ha
impedito a questo figlio di godere delle cose del padre: lui in realtà non ha
un rapporto con un padre, ha un rapporto con un padrone: ti servo, seguo i tuoi
comandi, attendo la ricompensa.
Guardiamoci intorno,
perché queste sono parole preziose per noi: chi, nel rapporto con Dio ha il
rapporto di un servo nei confronti di un padrone, e per di più lo considera un
padrone esigente, non arriverà mai a godere delle cose di Dio.
"… ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo
fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato."
L’incontro dell’uomo
peccatore con Dio si traduce in una festa. E’ questo lo scandalo che non
sopportano gli scribi e i farisei, e tutti i farisei di tutti i tempi.
Tra di noi sono pochi
quelli che accettano che Gesù, quando incontra un peccatore, invece di
invitarlo a fare penitenza, a mettere giudizio, fa una festa.
Quando un peccatore
accenna a ritornare al Padre, è il Padre che prende l’iniziativa e gli corre
incontro perché non vede l’ora di restituirgli l’onore, la fiducia, la libertà
e la dignità.
E per gli altri, i
perfetti, le persone per bene? Per gli altri Gesù ricorda: non c’è da essere
invidiosi per l’amore del Padre per i peccatori, ma c’è bisogno di mettersi in
sintonia con questo amore e rallegrarsi, ricordando che l’amore di Dio non va
meritato, ma va accolto. Dio non vuole
bene agli uomini perché sono buoni, ma perché Lui è buono.
Note: 1. Nella lingua ebraica le parole
vengo scritte con le sole consonanti, senza le vocali: se quindi togliamo a
mammona le “a” e la “o”, le consonanti che rimangono "mn", risultano
essere della stessa radice da cui proviene una parola che diciamo
quotidianamente e che conosciamo: amen. Amen e mammona hanno la stessa radice;
amen significa “è certo”, “è sicuro”, quindi “sono d’accordo”. Da questa radice
deriva il termine mammona, ciò che dà sicurezza, che dà certezza alle persone,
cioè il denaro. Quindi mammona è quel che dà sicurezza nella propria esistenza.
Quando abbiamo tanto denaro ci sentiamo sicuri. – 2. Gn 33,4: "Ma Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò
al collo, lo baciò e piansero".