IV Domenica di Pasqua – Gv
10, 27-30
[Ricorreva allora a
Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. Gesù camminava nel tempio,
nel portico di Salomone. Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano:
«Fino a quando ci terrai nell'incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi
apertamente». Gesù rispose loro: «Ve l'ho detto, e non credete; le opere che io
compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. Ma voi non
credete perché non fate parte delle mie pecore.]1
Le mie pecore
ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita
eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle
dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Il capitolo 10 del vangelo di Giovanni(2) è dedicato
interamente al tema del buon pastore. La prima parte, fino al versetto 21, si
ricollega al capitolo precedente, ambientato nella festa delle Capanne, in cui
appare la figura del cieco guarito da Gesù, simbolo di coloro a cui apre gli
occhi alla comprensione delle sue parole.
La seconda parte contiene un dibattito ambientato nella festa della
Dedicazione(3), che cade tre mesi dopo la festa delle Capanne, verso
la metà di dicembre.
“Ricorreva allora a Gerusalemme la
festa della Dedicazione. Era inverno. Gesù camminava nel tempio, nel portico di
Salomone.”
Durante festa della Dedicazione Gesù si ripara dal freddo sotto il
portico orientale del tempio, detto di Salomone e viene interpellato dai
sacerdoti e dagli scribi (cioè i Giudei secondo la usuale denominazione di
Giovanni).
“Allora i Giudei gli si fecero attorno
e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell'incertezza? Se tu sei il Cristo,
dillo a noi apertamente». Gesù rispose loro: «Ve l'ho detto, e non credete; le
opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me.
Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore”.
Gesù quindi afferma che la sua messianicità non può essere oggetto di una
dichiarazione espressa a parole, ma deve essere dedotta dalle opere che egli
compie, cioè dai suoi segni, mediante i quali il regno appare già presente e
operante nell’oggi; i suoi interlocutori non credono perché non sono suoi discepoli.
Sullo sfondo di questa risposta si può scorgere un riferimento a Ez 34,17-25 dove da un lato si presenta
Israele come il gregge guidato direttamente da Dio e dall’altro si introduce la
figura del novello Davide, il quale pascerà il gregge in suo nome (cfr. anche Ger 23,1-6; Zc 11,4-17). Il tema del
pastore è presente anche nei vangeli sinottici (cfr. Mc 6,34; Mt9,36; 10,6; 18,12-14 e Lc 15,4-7).
“Le mie pecore ascoltano la mia voce e
io le conosco ed esse mi seguono.”
L’accenno alle pecore offre a Gesù l’occasione per specificare, in modo
simbolico, il rapporto che i credenti hanno con lui. Da una parte, dunque, egli
conosce le sue pecore, dall’altra esse ascoltano la sua voce e lo seguono. Gesù
conosce le sue pecore come Dio conosce il suo popolo (cfr. Sal 139; 1Cor 8,3). Questa conoscenza consiste in un rapporto di
amore molto personale e profondo in forza del quale Gesù conduce i suoi verso
la salvezza come un giorno Dio aveva guidato il suo popolo (cfr. Is 40,11). L’ascolto della sua parola da
parte delle pecore significa che i credenti in lui non si limitano a eseguire
le sue direttive, ma entrano in profonda sintonia con i valori che hanno
ispirato la sua vita e che lo hanno portato a donarsi fino in fondo per loro.
L’ascolto era una delle caratteristiche più importanti del rapporto tra Israele
e il suo Dio (cfr Es 19,8; 24,7; Dt 6,4).
Dall’ascolto deriva spontaneamente la sequela (cfr Dt 10,12), che consiste in una vita conforme alle parole del
Maestro (cfr Mc 8,34).
“Io do loro la vita eterna e non
andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.”
La conoscenza che Gesù ha delle sue pecore viene poi ulteriormente
specificata: l’espressione “dare la vita”
indica l’amore che lo ha portato a morire sulla croce (cfr. Gv 15,13) e di riflesso la vita nuova
che egli dà a chi crede in lui (cfr. Gv
6,47). Chi riceve questa vita non può perdersi, perché nessuno può rapirlo
dalla sua mano: cioè se è autentico, il rapporto che lega Gesù a coloro che
credono in lui è inscindibile. Questo concetto viene ulteriormente approfondito
nella frase seguente: “Il Padre mio, che me
le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del
Padre.”
Coloro che credono in Gesù non possono essere strappati da lui perché per
mezzo suo essi hanno stabilito un rapporto strettissimo con il Padre, il quale,
essendo più grande di tutti, ha tutta la possibilità di non lasciarseli
sfuggire. In questa frase appare ancora una volta l’orientamento teocentrico
del vangelo di Giovanni: al culmine di tutto si situa non la figura del Figlio,
ma quella del Padre, che è l’origine e il fine di tutto (cfr. 1Cor 8,6).
“Io e il Padre siamo una cosa sola».” Questa
espressione indica la perfetta sintonia che esiste tra Dio Padre e il suo
inviato, Gesù. Essa appare dal fatto che in lui e per mezzo suo si è attuata
pienamente la salvezza promessa da Dio nelle Scritture. Perciò i suoi discepoli
hanno visto in lui la manifestazione della Parola mediante la quale Dio ha
creato il mondo e conduce gli esseri umani alla comunione con sé. Questa unità
è intesa in senso vitale e dinamico(5): sono le opere di Gesù che
manifestano la sua piena sintonia con Dio. Con la similitudine del pastore e
del gregge Giovanni illustra il rapporto che Gesù, mediante la sua morte e
risurrezione, instaura con coloro che credono nella sua parola, inserendoli nel
rapporto che egli stesso ha con il Padre.
Da questo brano appare come nell’esperienza giudaico-cristiana la
salvezza si coglie essenzialmente nei rapporti tra le persone. È salvo chi
riesce a stabilire rapporti positivi, attuando con gli altri una solidarietà
stabile, capace di superare le inevitabili crisi, di eliminare la terribile
frustrazione della chiusura e della solitudine. Dio si manifesta come tale in
quanto è capace di aggregare persone diverse, di far sorgere relazioni stabili,
di creare comunità. E il suo inviato opera non elaborando concetti astratti, ma
creando un movimento, in forza del quale le persone imparano a rapportarsi le
une alle altre, a collaborare in modo creativo per l’avvento di un mondo
migliore.
L’immagine del gregge deve essere compresa in questa prospettiva.
Seguendo Gesù i credenti non vanno semplicemente incontro al loro Dio e Padre,
ma imparano a stare insieme e ad aprirsi agli altri, anche a quelli che non
sono (ancora) parte del loro gruppo. Naturalmente tutto ciò implica che la
chiesa non sia vista come detentrice di una verità assoluta ed esclusiva, ma
come un ambito in cui le persone si educano vicendevolmente al rapporto e
all’amore, per portare nella società in cui vivono la salvezza così
sperimentata.
Note: 1. La parte del brano compresa tra le parentesi
quadre non è prevista dal liturgista per questa domenica. La riporto perché,
senza questa parte, il brano liturgico rischia di non essere compreso. – 2.
L’esegesi di questo brano è stata liberamente tratta da un articolo di P.
Alessandro Sacchi pubblicato in Nicodemo.net. – 3. La festa della Dedicazine commemora la purificazione del tempio compiuta da Giuda Maccabeo nel 164
a.C. dopo che esso era stato profanato da Antioco IV Epifane (cfr. 1Mac 4,36-59). Questa festa, che è molto
simile a quella delle Capanne, è una festa della luce in quanto per otto giorni
vengono accese delle lampade davanti alle case. Sembra che nel suo ambito
venisse letto il testo di Ez 34, in
cui si presenta Israele come gregge guidato da Dio. – 4. Il testo originale greco non riporta l’aggettivo
“eterna”. – 5. I teologi direbbero: “in senso non ontologico”.