(segue
dalla domenica precedente)
Nel vangelo di Giovanni in particolare, il peccato è il rifiuto
cosciente della pienezza di vita che Gesù è venuto a portare, ed è riferito ai
giudei (i capi, le autorità religiose, i farisei).
Si esprime in tre forme:
- privare o privarsi della libertà,
- esercitare o accettare l'oppressione,
- essere complici o vittime volontarie dell'ingiustizia.
L'uomo è chiamato a conseguire la propria pienezza, ma il peccato
pone un limite alla propria crescita, perché sopprime, reprime o impedisce la
pienezza di vita cui ogni uomo è chiamato e destinato. Ciò vale anche per lo sviluppo
storico dell’intera umanità. Anzi, dice l’apostolo Paolo in Romani 8,19-22: “L’ardente
aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli
di Dio. La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità - non per sua
volontà, ma per volontà di colui che l’ha sottoposta - nella speranza che anche
la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare
nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme
la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi”.
Con l’accettazione del peccato la vita è rifiutata, la crescita
viene limitata e si può giungere anche al blocco completo; ciò può avvenire
anche per scelte negative inconsapevoli che, anche se non sono peccato,
rimangono sempre un limite alla crescita e possono poi divenire causa di
peccato, come dice Carlo Molari: "Il peccato e le infedeltà pongono
pesanti barriere al flusso di vita che l'azione creatrice suscita e
alimenta".
E’ questo il peccato dell'umanità, l'ostacolo alla realizzazione
della volontà di Dio, che il Concilio definisce "una diminuzione per
l'uomo stesso impedendogli di conseguire la propria pienezza" (Gaudium
et Spes 1,13).
Il male in se non esiste perché è solo una mancanza di bene, ma
esistono, e sono pesanti, le conseguenze concrete che il male provoca
nell’uomo. E il peccato di omissione: “Chi dunque sa fare il bene e non lo
fa, commette peccato” è scritto nella lettera di Giacomo (4,17). Ce lo ricorda Pier Paolo Pasolini(1):
"Lo sapevi, peccare non significa fare il male: non fare il bene, questo
significa peccare. Quanto bene tu potevi fare! E non l'hai fatto: non c'è stato
un peccatore più grande di te", e lo riassume con maestria Libero
Bigiaretti(2): “Rimorde più del male il bene non compiuto”.
Non lasciano scampo le parabole lucane del buon samaritano (16,19-31) cosi come quella dei talenti
in Matteo 25,14-30. Insomma, non fare
equivale ad essere complici. Ma c’è un male maggiore ed è l’indifferenza, come racconta
la parabola del ricco epulone (10,30-37).
Insomma, non fare o disinteressarsi equivale ad essere complici.
Il peccato è il segno visibile della nostra contingenza, del
nostro limite, della nostra fragilità, del nostro essere condizionati dal tempo
e dallo spazio. E la morte ne è l’estrema conseguenza. Ma "dove abbondò
il peccato, sovrabbondò la grazia" (Romani 5,20).
Esiste però una possibilità, tanto remota quanto drammatica: in condizioni
estreme il peccato può portare alla perdita definitiva, irreversibile, della
Vita, quella che Dio continuamente ci offre in abbondanza. Se il peccato è il rifiuto
consapevole, volontario della Vita continuamente donata, allora, secondo alcuni
esegeti, il rifiuto della vita porta alla morte, alla morte seconda(3),
quella completa e definitiva della persona.
Ha scritto su Rocca Carlo Molari: “Il tentativo che la Vita sta
attuando in noi per darsi una forma personale che resti per sempre, può fallire
miseramente. In altri termini possiamo abortire e non pervenire all'esistenza
eterna. Ciò accade quando con pertinacia rifiutiamo di accogliere i doni vitali
che continuamente ci vengono offerti e che costituiscono l'alimento necessario
per la nostra crescita spirituale.
Tale rifiuto può dipendere da molte cause: dalla presunzione di
essere autosufficienti, dal ripiegamento su se stessi, e dalla chiusura agli
altri, dalle molte forme di idolatria, dalle illusioni ideologiche ecc. Tutto
ciò costituisce quello che, in termini religiosi, chiamiamo peccato. Esso
provoca: “una diminuzione per l'uomo stesso, impedendogli di conseguire la
propria pienezza” (Vaticano II, Costituzione Pastorale 13). Di diminuzione in
diminuzione le scelte negative che compiamo conducono allo svanire delle
possibilità offerte alla persona fin dalla nascita e rinnovate nelle successive
situazioni storiche. (…) Il rifiuto pervicace di vivere in sintonia con
l'energia creatrice e di interiorizzare il suo dono, provoca vuoto, assenza, mancanza.
Introdotta nella dimensione definitiva attraverso la morte, la persona appare inconsistente,
incapace di vita. Non è cresciuta fino alla soglia minima che consente il
prosieguo dell'esistenza personale”.
Questa tesi si regge sulla piena libertà dell’uomo di scegliere il
suo destino di morte.
Una seconda tesi è quella che si fonda sull’infinita misericordia
di Dio, chiamata “apocatastasi”, secondo cui, alla fine dei tempi, tutti
saranno salvati e godranno della visione beatifica di Dio: non la punizione dei
malvagi, ma lo sradicamento del male, che non è più forte di Dio. Un Dio che
perdona e dimentica: “le loro iniquità mai più ricorderò” (Geremia 31,33) e “Io cancello i tuoi misfatti
per amore di me stesso e non ricordo più i tuoi peccati” (Isaia 43,25).
La terza ipotesi, basata sull’immagine (falsa) di un Dio che,
mentre ci chiede di perdonare tutti e sempre (settanta volte sette), è
incapace di perdonare, mentre è capace di vendicarsi e di punire, con estrema
durezza e per l’eternità, chi non rispetta le sue leggi o la dottrina della
Chiesa.
4. La storia del sacramento della
Riconciliazione.
I cristiani nelle prime comunità della Chiesa
ottengono il perdono per i peccati praticando la preghiera, le buone azioni, il
digiuno e l'elemosina. Questa disciplina penitenziale ha ricevuto in tempi
moderni il nome di penitenza pubblica, a volte erroneamente confusa con
l'annuncio pubblico della scomunica a causa di un peccato grave e pubblico.
E’ da notare che lo stato di comunione battesimale non
veniva rotto in modo definitivo da qualsiasi peccato, ma da tre
atti di particolare gravità: omicidio, adulterio e apostasia.
Ogni altro peccato poteva essere perdonato, ma
commetterne uno di questi tre escludeva immediatamente dalla comunione, dalla comunità e – di conseguenza – dalla possibilità di salvezza. Se
dunque l'ingresso nella comunità apriva le porte della salvezza riconciliando
il credente con Dio, i tre peccati gravi rompevano l'impegno preso, escludendo
il credente dalla promessa di salvezza.
Con il passare dei secoli, tuttavia, la Chiesa ammise
una seconda riconciliazione e successivamente in casi molto particolari, una
terza. In questi casi, il penitente veniva considerato alla stregua di un pagano
che si dovesse accostare al battesimo per la prima volta e - conseguentemente -
che potesse beneficiare della riconciliazione con Dio. Egli confessava il suo
peccato al vescovo in privato, ma era tenuto a fare richiesta di penitenza
pubblicamente. La confessione è, in questa fase, in un punto mediano tra
pubblico e privato e viene detta "penitenza pubblica" o, più
propriamente, penitenza canonica. Il candidato penitente entrava nell'ordo poenitentium.
Lo stato di penitente
era molto gravoso. Comportava il dover prendere posto fuori dalla chiesa o
nell'ultimo posto in fondo, il rimanere esclusi dalla comunione e il mantenere
a lungo la posizione genuflessa, implicava inoltre la conseguente assunzione di
un aspetto dimesso e incolto e l'umile abbigliamento di una veste ruvida e
grezza, simbolo dei penitenti e degli eremiti, secondo la parabola in cui Dio
divide i capri cattivi dalle pecore buone. Il penitente avrebbe dovuto
digiunare severamente, essere escluso dall'esercito, dai tribunali, dai negozi,
dalle cariche pubbliche e – a maggior ragione – dalle cariche ecclesiastiche.
L'asprezza del rigore,
in cui il penitente era come morto civilmente, fece sì che, già nel V-VI secolo,
gli stessi sacerdoti e concili ecclesiastici non accogliessero nell'ordo
poenitentium altro che vecchi o moribondi(4).
Nella seconda metà del
terzo secolo sorse la questione dei lapsi,
ossia di coloro che avevano riabbracciato l’idolatria durante la persecuzione
che c’era stata sotto l’imperatore Decio, i quali chiedevano di essere
riammessi alla comunione; la Chiesa accettò di riammetterli dopo che avessero
fatto confessione pubblica del loro peccato; il numero dei penitenti, però,
divenne così grande che la confessione rischiava di dilungarsi per molto tempo.
I vescovi allora fecero un canone nel quale ordinarono che si scegliesse fra
gli anziani un uomo savio che ascoltasse le confessioni dei penitenti ed
imponesse loro la penitenza stabilita dai canoni. Questo anziano fu chiamato
penitenziere. Da questa circostanza sorse il principio della confessione
auricolare privata ad un uomo. Alla fine del quarto secolo però questa
confessione venne abolita. Il motivo ce lo dice lo storico Socrate(5):
“Una nobile signora di Costantinopoli confessò di avere compiuto adulterio con
un certo diacono di quella chiesa; il fatto da lei confessato però venne a
conoscenza di tutti, per cui si decise di abolire la confessione per il male
che ne derivava”.
Ma verso il 450, il
vescovo di Roma Leone I ricominciò a introdurre nella chiesa romana l’uso della
confessione al penitenziere nonostante la forte opposizione di Agostino che la
considerava una bestemmia. Col passare del tempo essa andò sempre più
diffondendosi in Occidente.
Nel nono secolo la
confessione auricolare era semplicemente in uso ma non aveva ancora veste di
obbligatorietà; inoltre il penitenziere non dava l’assoluzione che noi
conosciamo oggi perché non era ancora stato stabilito che egli avesse
l’autorità di rimettere i peccati. In un canone del concilio di Chalons
tenutosi nel 813 si legge: “Alcuni dicono che bisogna confessare i propri
peccati a Dio, altri dicono che bisogna confessarli ancora ai penitenzieri’.
Nel dodicesimo secolo i
teologi iniziarono a considerare la confessione una dottrina insegnata dalla
Scrittura ma tra di loro c’erano molte divergenze a riguardo della sua
istituzione (alcuni dicevano che era di diritto divino mentre altri che fosse
un precetto ecclesiastico), e del potere del presbitero (alcuni dicevano che il
presbitero poteva rimettere i peccati mentre altri dicevano che egli poteva
dichiararli solo rimessi da Dio). Col passare del tempo si andò comunque
fortificandosi sempre di più l’idea che fosse stata istituita da Cristo e che
il prete avesse il potere divino di rimettere i peccati
La confessione
diventerà obbligatoria e necessaria alla salvezza nel tredicesimo secolo sotto
papa Innocenzo III. Il concilio di Firenze del 1439 incluse la Confessione tra
i sacramenti istituiti da Gesù Cristo.
5. ll sacramento della
riconciliazione nelle altre chiese cristiane.
5.1. Nel Protestantesimo.
Nel cristianesimo protestante non è presente il
sacramento della confessione, in quanto gli unici sacramenti sono Battesimo ed
Eucaristia. In genere i protestanti confessano i loro peccati in una preghiera
privata rivolta direttamente a Dio, ritenendo che non ci sia bisogno di
rivolgersi ad un intermediario per avere l'assoluzione. Tuttavia nella maggior
parte delle chiese protestanti, durante la celebrazione del culto, si formula
una preghiera di confessione dei peccati.
Nella tradizione anglicana,
la confessione e l'assoluzione avvengono in forma collettiva durante la
celebrazione della Eucarestia. Dopo l'invito del celebrante ad effettuare un
esame di coscienza, si svolge una preghiera silenziosa, durante la quale il
fedele può riconoscere i peccati dentro di sé; quindi i fedeli recitano insieme
una formula di confessione generale e il celebrante pronuncia la formula di
assoluzione. Nell'anglicanesimo esiste anche la confessione privata, che si può
svolgere nel confessionale o in un incontro privato con il sacerdote. Non sono
richieste motivazioni particolari per fare la confessione privata, ma si
ritiene che potrebbe essere desiderabile a seconda delle circostanze
individuali. Un aforisma anglicano riguardante questa pratica dice che tutti
possono, nessuno deve, alcuni dovrebbero.
Nel mondo protestante,
un caso a parte è quello dei luterani. La confessione e l'assoluzione dei
peccati sono richieste per la comunione, ma non è richiesta l'enumerazione di
tutti i peccati commessi. Nel Piccolo catechismo Lutero scrive che «la
Confessione è composta da due parti: la prima, che noi confessiamo i nostri
peccati; l'altra, che noi riceviamo l'assoluzione, o il perdono, dal
confessore, come da Dio stesso, e che in nessun modo noi dubitiamo, ma crediamo
fermamente, che i nostri peccati sono pertanto perdonati davanti a Dio in
cielo».
Solitamente i luterani
formulano un rito penitenziale durante la celebrazione eucaristica, così come
gli anglicani ed i cattolici. La confessione privata non viene praticata dai
luterani in modo così frequente rispetto ai cattolici e di solito viene
amministrata solo su richiesta. Generalmente si usa confessarsi in privato
prima di fare la Prima Comunione. Alcune chiese concedono anche l'assoluzione
individuale il sabato prima della Messa. I luterani non enfatizzano la
penitenza come la retribuzione dei propri peccati ma come la proclamazione del
perdono di Dio.
5.2. Nella Chiesa ortodossa.
A differenza del cattolicesimo, nelle Chiese
ortodosse il sacramento non si svolge nel confessionale, ma davanti ad un analogion,
posto nella chiesa in vicinanza dell'iconostasi(6). Sull'analogion
sono posti l'evangelario e una croce benedizionale; solitamente si trova anche
un'icona di Cristo. Il prete e il penitente sono entrambi seduti (usanza greca)
o entrambi in piedi (usanza russa) davanti l'analogion; da una parte c'è il
Signore e dall'altra c'è il sacerdote insieme al penitente, ambedue di fronte
all'icona della croce di Cristo: sacerdote e penitente sono davanti a lui,
ambedue peccatori, ambedue segnati dalla condizione umana. Il sacerdote appare
nella struttura rituale nella posizione di "testimone e compagno di
penitenza", come anche di intercessore umile e potente a nome/a favore dei
peccatore e insieme come colui che può, con l'autorità del Signore, attestare
al peccatore stesso che i peccatori sono perdonati. In questo ruolo di
mediazione, egli è tenuto al segreto confessionale.
Note: 1. Pier Paolo Pasolini (Bologna 1922 – Roma 1975) è stato un poeta,
scrittore, regista, sceneggiatore, attore, paroliere, drammaturgo e giornalista
italiano, considerato tra i maggiori artisti e intellettuali del XX secolo. -
2. Libero Bigiaretti (Matelica
1905 – Roma 1993) è stato un poeta, scrittore e traduttore Italiano. – 3. La
morte seconda era un’espressione tipica del giudaismo per indicare l’esclusione
dalla risurrezione. Oltre la morte fisica, che non interrompe la vita del
credente, c’è il pericolo di una morte “definitiva”, totale, che spegne ogni
speranza di futuro. “Rimani fedele fino alla morte e ti
darò la corona della vita… Il vincitore non ha nulla da temere dalla seconda
morte” (Ap 2,10.11). – 4.
Divenne così frequente che il penitente morisse prima di aver portato a
compimento la penitenza. Nel popolo questo fatto creò la convinzione che Dio
avrebbe fatto attendere il penitente fuori dal Paradiso fino a compimento della
penitenza, gettando le basi del concetto di Purgatorio che verrà considerato
verità di fede dal Concilio di Trento (1545-1563). – 5. Socrate Scolastico (Costantinopoli, 380 circa – 440 circa) fu un
teologo, avvocato e storico della Chiesa dell'Impero Romano d’Oriente; la sua
opera storica è la Storia eclesiastica (Historia ecclesiastica), in
sette libri. – 6. Struttura divisoria adorna di immagini sacre, interposta fra
il presbiterio e le navate nelle chiese di rito greco.