martedì 3 gennaio 2012
Un avviso
Domenica 5.2.2012 – Quinta Domenica del Tempo Ordinario
Mc 1, 29-39
E subito, usciti dalla sinagoga, andarono nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.
Con questo brano Marco continua la presentazione della predicazione di Gesù iniziata domenica scorsa con l'episodio nella sinagoga di Cafarnao; Marco vuole così dare un quadro chiaro di quello che Gesù predica e, soprattutto, a chi si rivolge.
Domenica scorsa si è rivolto a tutti i presenti nella sinagoga ed ha dovuto affrontare la reazione dei fondamentalisti. Con il brano di oggi Gesù si rivolge ad una categoria dagli ebrei considerata sub-umana: la donna.
La Bibbia, come chiaramente scrive il Concilio Vaticano II(1), non è piovuta dal cielo ma è stata scritta da persone che vi hanno inserito anche la propria mentalità, la propria cultura ed il proprio modo di esprimersi; guarda caso tutte queste persone erano maschi.
Tutti gli studiosi(2) della Bibbia sono ampiamente convinti che i signori maschi hanno scritto la Bibbia a proprio uso e consumo: di chi è la colpa di tutti i mali del mondo? Chiaro, della donna! Infatti la morte è entrata nel mondo per colpa di una donna, di Eva (Gen 3,6).
Non solo, ma se verificate bene, vedrete che in tutto l'AT Dio ha rivolto la parola ad una donna una sola volta; poi s'è pentito, perché ha parlato a Sara (Gen 18,12-15) e siccome Sara, la moglie di Abramo, gli ha risposto con una piccola bugia, per questo crimine "orrendo" la donna è stata considerata non credibile e di conseguenza non poteva più testimoniare nei tribunali di Israele(3).
Da quel momento Dio – il Dio dell'AT che per permalosità non lo batteva nessuno, non il Dio di Gesù - non ha rivolto più la parola ad una donna.
La donna quindi era considerata una categoria subumana. Dice il Talmud: "Piuttosto che una Bibbia venga salvata da un rogo dalle mani di una donna, è meglio che tutte le Bibbie vengano bruciate", dato che la donna è quasi sempre impura, se salva una copia, questa non può essere letta perché è impura.
Vi ho detto tutto questo per farvi comprendere l'enormità dell'atto che compie Gesù in confronto della mentalità di allora.
"E subito, usciti dalla sinagoga, andarono nella casa di Simone e Andrea…". Simone accompagna Gesù in casa sua, ma non gli dice che la suocera è ammalata; saranno altri a parlarne a Gesù. Infatti non è certamente uno degli accompagnatori di Gesù a parlargli dell'ammalata perché, dalla costruzione della frase, si comprende che la parola gli viene rivolta dopo l'ingresso nella casa, quindi da persone già presenti in casa; si suppone siano state le donne perché erano in casa in quanto la tradizione limitava il culto ai soli uomini(4).
Pietro non parla della suocera non perché avesse dei rancori contro di lei, ma semplicemente perché è una donna(5). Ma ti pare che vai a scomodare il Signore per una esponente della categoria subumana?
Gesù entra nella casa e subito, senza fare alcun gesto di benvenuto, le donne gli parlano della suocera di Pietro; evidentemente sono allarmate, pensano che corra pericolo di morte.
A questo punto Gesù compie un gesto inaudito: le tocca la mano e la malattia, la febbre scompare.
Il libro del Levitico, la Legge di Dio (Lv 15,19-30), impedisce di toccare una donna specialmente quando è inferma. Ancora una volta Gesù, per dimostrare la falsità di una legge che veniva contrabbandata in nome di Dio, opera in contrasto con i precetti ed ottiene il bene, la salvezza della donna. E' opportuno sottolineare che la guarigione è avvenuta in giorno di sabato, quindi anche in contrasto con il divieto di compiere qualunque attività in quel giorno.
Ed ecco il tocco magistrale dell'evangelista: ella si alzò e si mise a servirli(6). Nella teologia giudaica si pensava che Dio, nella sfera della santità, avesse sette angeli al suo servizio; questo servire era inteso nel senso che erano le persone più vicine a Dio. La suocera di Pietro, mettendosi a servire Gesù, è quindi paragonata agli angeli più vicini a Dio.
L'evangelista inizia qui una serie di rivalutazioni delle donne, ma non solo: addirittura mette la donna al di sopra del livello dell'uomo. La donna, quella che la religione presentava come la più lontana da Dio per la sua condizione subumana, secondo Gesù è la più vicina a Dio(7). Le donne nei vangeli saranno sempre le prime come qualità della persona.
"Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano". L'entusiasmo della gente che ha ascoltato l'insegnamento di Gesù nella sinagoga di Cafarnao non è sufficiente a liberarla dalla sottomissione alla dottrina degli scribi. Questo è dimostrato dal fatto che aspettano che tramonti il sole e quindi termini il sabato(8), giorno nel quale è proibita qualunque attività (Ger 17,21.27), per andare da Gesù e portargli ammalati e indemoniati. Sono quindi tutti individui posseduti dallo spirito impuro come l'uomo della sinagoga, ma, mentre in costui la condizione si è manifestata solo in occasione dell'incidente con Gesù, la condizione di queste persone è evidente e conosciuta. Sono pesone talmente legate alla tradizione religiosa che faticano nell'accettare il messaggio di Gesù e hanno bisogno di incontrarlo, di parlargli, di discutere con lui per convincersi della verità di questo messaggio.
Come all'uomo nella sinagoga Gesù impedisce loro di parlare; costoro tentano fino all'ultimo di trascinare Gesù dalla loro parte, quella dell'insegnamento tradizionale riguardo la figura del Messia ("…perché lo conoscevano…"): essi conoscono il Messia figlio di Davide ma non Gesù figlio di Dio. L'episodio dello scontro nella sinagoga di Cafarnao terminava con lo stupore dei presenti perché Gesù comanda persino agli spiriti immondi. Più avanti nel vangelo, Marco presenterà la reazione degli spiriti immondi di fronte all'insegnamento di Gesù: "Gli spiriti impuri quando lo vedevano, cadevano ai suoi piedi e gridavano: Tu sei il Figlio di Dio!(9) Ma egli imponeva loro severamente di non svelare chi egli fosse" (Mc 3,11-12). L'insegnamento, nel frattempo, dilaga ovunque: "dalla Giudea e da Gerusalemme e dall'Idumea e dalla Transgiordania e dalle parti di Tiro e Sidone una gran folla, sentendo ciò che faceva, si recò da lui" (Mc 3,8).
"Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!»".
Quando Simone e gli altri discepoli lo trovano e gli fanno capire che la gente lo sta aspettando, Gesù risponde: "«Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!»". E di fatto egli estende il suo raggio d'azione a tutta la Galilea, predicando nelle sinagoghe e scacciando i demoni: la predicazione deve avere dunque il primo posto («per questo infatti sono venuto»), senza però eliminare l'attività di guarigione, la quale solo in questa prospettiva assume il suo giusto significato. La giornata di Cafarnao mette dunque in luce come nell'attività di Gesù il primato spetti all'annunzio del regno di Dio. Le guarigioni dei malati e degli indemoniati non sono che segni, i quali devono essere accolti con attenzione e correttamente interpretati. A ciò non giovano le ripetute sottolineature, presenti nella tradizione cattolica, della scacciata dei demoni, che rischiano di proiettare un'immagine sbagliata sulla sua persona e sulla sua opera.
L'abbandono di Cafarnao non significa che Gesù si rifiuti di compiere quei segni che avevano suscitato tante speranze tra la gente. Egli vuole soltanto evitare che questi, invece di essere compresi come segni del regno di Dio che viene, siano semplicemente sfruttati a scopi egoistici. Il suo impegno di predicare anche nei villaggi vicini manifesta il suo desiderio di andare sempre più in là e di annunziare la buona notizia del Regno a gruppi sempre nuovi di persone: è in questa traiettoria verso gli emarginati e gli esclusi che ben presto egli entrerà in contatto diretto con i gentili.
Note: 1. Cfr. Dei Verbum n. 12: "Poiché Dio nella sacra scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l'interprete della sacra scrittura, per vedere bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione, che cosa gli agiografi [= scrittori sacri], in realtà hanno inteso significare e che cosa a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole". – 2. Questa esegesi è stata redatta elaborando liberamente un appunto del 1998 di Padre Alberto Maggi e un articolo di Padre Alessandro Sacchi pubblicato su www.Nicodemo.it. – 3. Questo è uno dei motivi per il quale, nei vangeli, gli unici testimoni della resurrezione di Gesù sono donne. Gli evangelisti hanno così voluto elevare al massimo della affidabilità coloro che la Legge considerava inaffidabili. – 4. Anche nel Tempio di Gerusalemme le donne non erano ammesse ad assistere ai sacrifici, ma avavano un cortile nel quale pregare lontano dall'altare. Ancora oggi, se si va a Gerusalemme, si può vedere il Muro del pianto riservato, per la maggior parte, alla preghiera degli uomini, come pure la consultazione dei testi antichi della Legge, conservati in un locale alla base del Muro, è riservata esclusivamente agli uomini. – 5. Ricordiamoci che Gesù ha chiamato Simone il figlio di Giovanni, cioè una persona legata in modo inscindibile alla tradizione antica (cfr. Gv 1,35-42). – 6. E' qui necessario ricordare che fino a 40-50 anni fa la spiegazione di questo brano veniva utilizzata per sottolineare come la suocera di Pietro fosse ansiosa di servire gli ospiti e quindi era l'esempio per tutte le donne la cui funzione fondamentale nella vita doveva essere quella del servizio. Oggi tale concetto si è conservato solo nella oscurantista congregazione dell'Opus Dei, la meno cristiana delle congregazioni cattoliche. – 7. Risulta da questo veramente incomprensibile il rifiuto della Chiesa Cattolica all'ordinazione delle donne. – 8. Ricordo che nella concezione ebraica il sabato iniziava con il tramonto di venerdì e finiva con il tramonto di sabato. – 9. Gli spiriti immondi si rivolgono a Gesù come a il figlio di Dio. Questa espressione preceduta dall'articolo determinativo si trova sempre in bocca ai pagani (Mc 5,7; 15,39) o in gruppi mescolati di giudei e pagani (Mc 3,7-8). L'evangelista per indicare la condizione di Gesù quale figlio di Dio non adopera mai l'articolo determinativo, che indica invece quello conosciuto e atteso dalla tradizione. Scrivere questa locuzione senza articolo è una tecnica letteraria usata per esprimere una realtà nuova che Gesù, figlio di Dio, manifesta (Mc1,1; 15,39).
lunedì 2 gennaio 2012
Domenica 22.1.2012 – Terza Domenica del Tempo Ordinario
Mc 1,14-20
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedeo, e Giovanni suo fratello, mentre anch'essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.
Marco introduce(1) la predicazione di Gesù in Galilea con due versetti che rappresentano il primo dei sommari di cui è ricco il suo vangelo: "Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio…".
La notizia secondo cui Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico dopo l'arresto di Giovanni il Battista contrasta con quanto riportato dall'evangelista Giovanni nel suo vangelo nel quale ricorda un'attività parallela dei due (cfr. Gv 3,22-24); d'altro canto Marco stesso narrerà solo in seguito l'arresto e la morte di Giovanni (Mc 6,17-29). È probabile che egli voglia qui separare nettamente l'opera del Battista da quella di Gesù per motivi più teologici che storici, mettendo così in luce una tendenza(2) che sarà accentuata maggiormente da Luca (cfr. Lc 3,19-20;16,16).
Invece di recarsi in Giudea, zona densamente abitata e dove avevano sede le principali istituzioni giudaiche, Gesù torna in Galilea, sua terra d'origine. L'evangelista non ignora che in Is 8,23 essa è chiamata «Galilea delle genti», appellativo che all'epoca di Gesù richiamava il carattere misto (ebrei e gentili) della sua popolazione (cfr. Mt 4,15).
Il termine «proclamare», con cui è indicata l'attività di Gesù in Galilea, in greco indica l'azione pubblica fatta da un araldo; con questo termine i primi cristiani indicavano l'annunzio della salvezza fatto dagli apostoli (cfr. At 8,5; Rm 10,8; 1Cor 1,23).
L'espressione «vangelo di Dio», appartiene anch'essa al linguaggio della prima comunità cristiana (cfr. Rm 1,1; 15,16; 2Cor 11,7) e indica non la buona novella che ha per oggetto Dio, ma quella che proviene da Dio stesso, in quanto autore della salvezza.
Gesù si presenta dunque come colui che, in nome di Dio, annunzia la salvezza imminente (cfr. 2Cor 5,20). L'espressione «proclamare il vangelo di Dio», pur rispecchiando il modo di esprimersi dei primi cristiani, ha però profonde radici bibliche. Il verbo «evangelizzare» infatti è usato nella seconda e nella terza parte del libro di Isaia per indicare il lieto annunzio della prossima liberazione rivolto ai giudei esiliati in Mesopotamia e ai primi rimpatriati (cfr. Is 40,9; 52,7; 61,1). Il lieto annunzio proclamato da Gesù è espresso con una frase molto concisa: prima di tutto egli afferma, con un linguaggio che si ispira all'apocalittica giudaica, che «il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino»; il «tempo», cioè il periodo dell'attesa, è arrivato al termine; di conseguenza il «regno di Dio», cioè l'esercizio pieno e definitivo della sovranità divina in questo mondo, «è vicino», o meglio si è reso prossimo, sta per realizzarsi in questa terra. In altre parole sta ora iniziando il periodo finale della storia, caratterizzato dal fatto che Dio stesso interviene per far riconoscere e accettare pienamente la sua sovranità non solo su Israele, ma su tutta l'umanità. Al tempo di Gesù li tema della regalità di Dio era molto sentito nel giudaismo. Esso gettava le sue radici nell'esperienza primordiale di Israele, il quale attribuiva il titolo di re al Dio che lo aveva liberato dalla schiavitù d'Egitto. In questo contesto la regalità di Dio assumeva una dimensione soprattutto di misericordia, e suscitava l'impegno per una liberazione interiore basata su norme di giustizia e di uguaglianza. Il periodo trascorso in esilio aveva conferito a questa esperienza un aspetto di universalismo e una forte dimensione escatologica(3): Dio è re di tutta l'umanità, ma non ha ancora rivelato pienamente la sua sovranità, cosa che farà quanto prima sconfiggendo in modo definitivo le potenze nemiche, identificate spesso con l'impero romano, oppressore dei giudei. Gesù afferma dunque che questa attesa apocalittica, in tutta la sua dimensione universalistica, sta per essere adempiuta: egli si riserva però di spiegare con più precisione le modalità con cui ciò avverrà. All'annunzio del lieto messaggio fa eco un invito: «convertitevi e credete nel vangelo». Come già aveva fatto Giovanni Battista, Gesù invita i suoi ascoltatori a «convertirsi» (dal greco metanoein, cambiare mente4) ma per fare ciò è necessario «credere nel vangelo», cioè aprirsi al lieto annunzio ed essere disposti a basare su di esso tutta la propria vita. La conversione, secondo Gesù, è un orientamento diverso della propria esistenza: le persone vivono centrate su se stesse e Gesù dirà che "Chi vive per sé, si distrugge", perché la persona, sia umanamente che fisicamente, si sviluppa soltanto se vive per gli altri. Credente o no, una persona cresce e si sviluppa quando vive orientato verso gli altri. Gesù, che è venuto a portare la vita, dice: "Se non orientate diversamente la vostra esistenza, non avete nulla a che fare con il regno di Dio". L'annunzio di Gesù è un «vangelo» in quanto mette in primo piano non ciò che gli uomini devono fare per ottenere il favore di Dio, ma ciò che Dio stesso sta facendo per coinvolgere il suo popolo in un grande progetto di liberazione, che trova nell'antica idea della regalità di Dio il suo carattere distintivo. È significativo il fatto che Gesù annunzia non se stesso e le sue prerogative, ma l'opera di Dio in un mondo dominato da potenze che ne impediscono l'attuazione. Agli ascoltatori egli chiede di convertirsi, cioè di lasciarsi coinvolgere, di non opporre resistenza all'azione di Dio in questo mondo. Il primo gesto compiuto da Gesù dopo il suo ritorno in Galilea è stato, secondo Marco, la chiamata di alcuni discepoli, che ebbe luogo mentre Gesù stava «passando lungo il mare di Galilea», cioè il lago di Genezaret(5). I primi chiamati sono due fratelli, Simone e Andrea, i quali stanno svolgendo il loro lavoro di pescatori(6). Per la loro professione, che precludeva loro un'osservanza precisa e costante della legge, essi appartenevano a quello che i farisei chiamavano con disprezzo il «popolo della terra7». È significativo che uno dei primi due, Andrea, porti un nome greco; ma anche il nome dell'altro, Simone, è una trasposizione greca di Simeone. Ai due Gesù rivolge l'invito: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». È dunque lui che prende l'iniziativa, chiamandoli al suo seguito. Il significato simbolico della pesca può essere ricavato da un brano di Geremia (Ger 16,16); da questo parallelo si ricava che ciascuno dei prescelti, sotto la guida di Gesù, dovrà diventare un centro di aggregazione per altre persone disposte ad accettare il regno di Dio. In altre parole essi dovranno lasciarsi coinvolgere nel progetto di Gesù, per annunziare con lui la venuta del regno di Dio e per chiamare tutto Israele alla conversione e al perdono reciproco. All'invito perentorio di Gesù i primi due chiamati lasciano «subito», senza tergiversare, le loro reti, che rappresentano tutto il loro avere, e lo seguono; il verbo «seguire» rievoca l'esperienza di Israele, che nell'esodo si è lasciato guidare da Dio e ha preso l'impegno di «camminare nelle sue vie» (cfr. Dt 10,12). Essi rispondono, come aveva fatto Abramo, con una silenziosa obbedienza, abbandonando le proprie sicurezze e affrontando un cambiamento radicale di vita. La chiamata dei primi discepoli mostra qual era la risposta che Gesù si aspettava quando annunziava la venuta del regno di Dio e invitava alla conversione. L'evangelista sottolinea come la loro chiamata sia dovuta esclusivamente a Gesù, il quale sceglie egli stesso uomini adulti e maturi, impegnati in una precisa attività professionale. Così facendo egli si distacca dai dottori della legge i quali non sceglievano, ma accoglievano giovani studenti che facevano richiesta di essere guidati nello studio della legge. Il fatto che i prescelti siano semplici pescatori mette ulteriormente in luce la gratuità della loro vocazione e al tempo stesso mostra come Gesù, cominciando dagli ultimi, voglia veramente arrivare a tutto il popolo. Lo stesso invito è rivolto anche a un'altra coppia di fratelli, Giacomo e Giovanni, ugualmente pescatori, i quali seguono Gesù lasciando il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni: anche qui appare la radicalità di un gesto che implica l'abbandono non solo di una persona cara, il padre, ma anche di una piccola impresa a gestione familiare, in cui la presenza di garzoni è segno inequivocabile di una certa prosperità. Dal punto di vista storico la chiamata dei primi discepoli non può essere avvenuta se non dopo un certo periodo, quando cioè Gesù era già noto in forza della sua predicazione: e difatti Luca la situa in un momento successivo (Lc 5, 1-11). Il fatto che Marco ponga questo episodio subito all'inizio della sua attività rivela un interesse non tanto biografico, quanto piuttosto teologico: il regno di Dio annunziato da Gesù manifesta la sua vera natura ed efficacia anzitutto nell'aggregazione di persone disposte ad assumerlo su di sé e ad accettarne tutte le conseguenze.
Note: 1. Questa esegesi è stata liberamente ricavata da un articolo di Padre Alessandro Sacchi riportato su www.Nicodemo.it. – 2. Il fatto storicamente accertato che circa cento anni dopo la morte di Gesù esistessero ancora discepoli di Giovanni il Battista che si contrapponevano ai cristiani, fa comprendere come gli evangelisti che hanno scritto verso la fine del I secolo tendessero separare l'attività del Battista da quella di Gesù. – 3. Cioè una dimensione riferita alla fine dei tempi. – 4. Nel IV d.C. circa venne effettuata la traduzione dei vangeli dal greco in latino, chiamata in seguito Vulgata, che in parte è opera di Girolamo, sulla quale per secoli la Chiesa cattolica ha basato tutta la sua teologia e la sua spiritualità. In questa traduzione l'invito di Gesù "convertitevi" era tradotto "fate penitenza". Ma Gesù non ha mai chiesto di fare alcuna penitenza, anzi, era contrario a questo tipo di atteggiamenti, cosa confermata anche da Paolo (cfr. Col 2,16-23). La Chiesa si è arroccata su questa traduzione latina anche quando era ormai chiaro che era una traduzione del tutto inesatta e che bisognava ritornare al testo originale greco, creando problemi morali e interpretativi che ancora oggi sta pagando in termini di credibilità e di consenso. – 5. La denominazione del Lago di Genezaret come "mare di Galilea" non è un banale errore geografico, ma un preciso concetto teologico; infatti il lago confinava con i territori dei gentili e quindi separava Israele dai pagani esattamente come il Mar Rosso separava la terra promessa dall'Egitto, terra di schiavitù. – 6. Luca invece inquadra la loro vocazione in un contesto di miracolo, la pesca miracolosa (cfr. Lc 5,1-11). – 7. Cioè quella parte di Israele che, non seguendo integralmente tutta la Legge, non poteva essere considerata idonea a risorgere dopo la morte. E' significativo che Gesù scelga loro come proclamatori del vangelo considerando così l'osservanza o meno della Legge come del tutto ininfluente nella vita dell'uomo.
Domenica 15.1.2012 – Seconda Domenica del Tempo Ordinario
Gv 1,35-42
Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì - che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» - che si traduce Cristo - e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» - che significa Pietro.
Il brano in esame rappresenta un esempio tipico di come la tradizione cattolica è stata capace di travisare il significato delle parole nei vangeli seguendo non le intenzioni dell'evangelista, ma le intenzioni dell'interprete.
Giovanni Battista indica Gesù: "Ecco l'agnello" (Gv 1,36); Giovanni, con tale affermazione, vuole dire ai suoi discepoli: ecco colui che dovete assimilare, mangiare tutto per iniziare la vostra liberazione(1). L'affermazione si rifa all'agnello che Mosè aveva comandato ad ogni famiglia di sacrificare nella notte della liberazione (Es 12,3-11), nella notte della Pasqua, e di mangiarlo tutto, perché gli ebrei dovevano iniziare il cammino verso la libertà e c'era bisogno di una carne che desse forza per questo cammino.
Mentre la carne dell'agnello dava la forza per intraprendere questo viaggio, il suo sangue liberava dalla morte (Es 12,23): passava l'angelo sterminatore e uccideva il primogenito degli egiziani; se sullo stipite delle case c'era il sangue dell'agnello, l'angelo sterminatore passava oltre. Anche il sangue di Gesù libererà dalla morte, non dalla morte fisica, ma dalla morte definitiva: questo agnello toglie il peccato (Gv 1,29).
Nella versione liturgica noi diciamo: "agnello di Dio che togli i peccati del mondo" intendendo i peccati degli uomini; la liturgia si rifà all'idea che Gesù è morto per i nostri peccati, che noi siamo tutti colpevoli e così via, concezione del tutto in contrasto con i vangeli(2).
Fin da bambini, quando si vede un crocifisso e un bambino chiede chi è e perché, gli viene sempre data la risposta che Gesù è morto per i nostri peccati. E uno, anche se non si sente coinvolto, dice: «Ma anche per i miei?». «Sì anche per i tuoi». E quindi si diventa sensibili ai sensi di colpa, futuri clienti per gli psicoanalisti o futuri atei.
Nei vangeli Gesù non viene presentato come colui che toglie i peccati, nel senso della vittima che espia i peccati. Gesù toglie, (traducendo dal greco in modo letterale: estirpa), il peccato (non i peccati!!!) costituito dal rifiuto della pienezza di vita che Dio ci dona. Questo è il peccato secondo Giovanni: c'è un Dio che ad ogni uomo fa una proposta di pienezza di vita incondizionata; il rifiuto di questa pienezza di vita è il peccato.
Gesù è venuto a estirpare il peccato effondendo il suo spirito, trasmettendo la sua capacità d'amore. I discepoli di Giovanni che sentono questa definizione di Gesù, di agnello che toglie il peccato dal mondo (Gv 1,29), lo seguono.
Nel testo greco il verbo «seguire» è quello normalmente usato per indicare l'atteggiamento dei discepoli nei confronti del maestro; inoltre il testo mostra il verbo all'aoristo(3) indicando così una decisione definitiva, che i due non metteranno più in questione. A prima vista sono loro che, indirizzati da Giovanni, prendono la decisione di mettersi al seguito di Gesù. Ma non è così: è Gesù che, quando si accorge che essi lo seguono, si rivolge loro chiedendo: «Che cosa cercate?». Sebbene lo seguano, sono ancora in cerca di qualcosa che non possiedono. È Gesù per primo che stabilisce con loro un rapporto personale. Alla domanda di Gesù rispondono con una contro-domanda: «Rabbì - che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?». Essi dimostrano così di sapere che Gesù è il vero Maestro (e l'evangelista lo sottolinea dando il termine in ebraico e traducendolo poi in greco) e sanno che quanto cercano può essere conferito solo da lui.
La risposta di Gesù è molto significativa: «Venite e vedrete». è Gesù che li invita ad andare da lui affinché possano «vedere». La voce verbale «venite» indica espressamente la chiamata (cfr. Mc 10,21). La voce verbale «vedrete», alla luce specialmente del prologo (cfr. Gv 1,14: «e noi vedemmo la sua gloria») e della guarigione del cieco nato (cfr.Gv 9,39-41), allude a qualcosa di più del vedere in senso materiale: esso indica un incontro, un coinvolgimento personale, che caratterizza il conseguimento della salvezza. In queste due parole è contenuto il senso profondo della loro vocazione. L'evangelista conclude bruscamente il dialogo dicendo che i due andarono e videro il luogo in cui Gesù abitava e si fermarono da lui quel giorno. In realtà si fermano con lui solo poche ore, perché l'evangelista nota che erano già le quattro del pomeriggio. Giovanni l'evangelista era un uomo sanguigno, impulsivo, ma anche molto, molto preciso. Scrivendo il suo vangelo riferisce anche i minimi dettagli di quel momento che aveva segnato la sua vita.
È strano che l'evangelista, il quale è a conoscenza di dettagli che possono venire solo da un testimone oculare, non riporti quello che Gesù ha detto a quelli che saranno i suoi primi discepoli. Ma forse ciò non deve stupire: quella conversazione conteneva in germe tutto quello che egli riferirà nel seguito del suo vangelo. In questo momento però l'evangelista non è tanto interessato a quello che Gesù ha detto, ma al fatto che i due hanno fatto una profonda esperienza personale di lui. La sequela sta precisamente nel rapporto che si instaura tra maestro e discepolo, in forza del quale il secondo si unisce al primo e fa proprie la sua mentalità e le sue scelte, fino a formare una cosa sola con lui.
"Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» - che si traduce Cristo -…"; l'evangelista fa comprendere che anche Simone era discepolo di Giovanni Battista. È strana la reazione di Simone, anzi la mancanza di reazione. Non commenta la frase di Andrea e non mostra neanche entusiasmo per la notizia. Allora il fratello lo deve proprio prendere, sembra quasi di peso, per portarlo da Gesù. Infatti scrive l'evangelista "e lo condusse da Gesù". Seguendo nella lettura c'è una scena che gela perché Gesù maltratta il discepolo.
Scrive l'evangelista: "Fissando lo sguardo su di lui…", il verbo "fissare una persona", significa penetrargli dentro, scoprirne l'intimo. Gesù fissa Simone e lo fotografa e "…disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» e commenta l'evangelista "…che significa Pietro".
Qual'è il significato della reazione di Gesù? Anzitutto abbiamo detto che Gesù non invita questo discepolo a seguirlo perché, dirà l'evangelista, Gesù conosceva cosa c'era nell'intimo delle persone e Gesù capisce subito con chi ha a che fare. Infatti lo fotografa dicendo: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni".
"Figlio", nella cultura ebraica, non indica soltanto colui che è nato da qualcuno, ma soprattutto colui che gli assomiglia nel comportamento. Questo Giovanni è Giovanni il Battista. Figlio di Giovanni quindi significa discepolo, ma qui addirittura l'evangelista mette l'articolo determinativo il, che significa il modello, il principale discepolo di Giovanni.
Mentre il fratello Andrea e l'altro hanno abbandonato Giovanni per seguire Gesù, perché hanno sentito la frase: "questo è l'agnello", Simone non era presente e lui rimane con l'idea del Messia della tradizione giudaica, il Messia predicato dal Battista. Perciò Gesù gli dice: "Tu sei il figlio di Giovanni", sei il discepolo di Giovanni, non sei mio discepolo "e ti chiameranno Cefa, che significa Pietro" (in realtà la traduzione corretta sarebbe "pietra").
Appare qui il soprannome con il quale verrà chiamato Simone, ma Gesù non si rivolgerà mai a Simone chiamandolo Pietro. Questa è una tecnica letteraria usata dagli evangelisti affinchè possiamo subito comprendere e acquisire nella lettura dei vangeli la figura di Simone. Normalmente Simone è presentato con questo soprannome "pietra" che indica la durezza, la cocciutaggine, la testardaggine di questo individuo perché farà sempre esattamente il contrario di quello che Gesù gli chiederà di fare. Fino all'ultimo contraddirà Gesù. Allora potremmo meglio tradurre: ti chiameranno testa dura, testardo, perché questo sarà il suo atteggiamento.
Normalmente nei vangeli Simone è presentato con nome e soprannome. Quando poi fa qualcosa che contraddice Gesù, o qualcosa che gli è contrario, cade il nome e rimane solo il soprannome.
Un'ultima cosa: la vocazione dei primi discepoli è presentata nel vangelo di Giovanni in modo diverso da quello adottato dai sinottici: secondo costoro i primi chiamati sono Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, due coppie di fratelli pescatori ai quali Gesù rivolge il suo invito mentre stanno svolgendo la loro professione sul lago di Tiberiade, in Galilea (cfr. Mc 1,16-20; Mt 4,18-22), al termine di una pesca particolarmente abbondante, provocata da Gesù stesso (cfr. Lc 5,1-11). I due racconti non sono facilmente conciliabili. Probabilmente in ambedue sono rielaborati antichi ricordi allo scopo di mostrare, con l'esempio dei primi discepoli, come deve essere la risposta di coloro che il Risorto chiama a credere in lui e ad entrare nella sua comunità.
Inoltre l'evangelista Giovanni mette particolarmente in luce il rapporto che essi avevano con Giovanni il Battista, il loro atteggiamento di ricerca, il carattere esperienziale del loro incontro con Gesù, la profonda conoscenza delle sue prerogative messianiche che sta alla base della loro disponibilità a seguirlo.
Dal loro esempio appare che la vocazione è un dono di Dio, ma richiede nel chiamato una disponibilità, un interesse, che lo porta a interagire con colui che lo chiama. La vocazione non implica mai un'adesione cieca e pedissequa, ma una profonda iniziativa personale che, pur adattandosi alle esigenze specifiche del servizio richiesto, spinge continuamente alla ricerca di modalità sempre nuove attraverso cui attuarlo.
Note: 1. E' opportuno notare che questo è il concetto fondante dell'Eucaristia che l'evangelista esprimerà in modo più ampio in altra parte del suo vangelo con parole tratte da concetti risalenti alla filosofia gnostica: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui" (Gv 6,56). Nel linguaggio della filosofia gnostica conoscere una persona, comprenderne i pensieri, gli ideali, le intenzioni, le speranze e condividerle era un po' come cibarsi di questa persona in quanto solo nutrendosi di lei era possibile comprenderla integralmente. In questo senso il corpo di Gesù è vero cibo, perché solo così si assimila integralmente la sua parola ed il suo pensiero. – 2. Leggere a questo prosito: Mysterium Paschale di Mons. Franco Giulio Brambilla (pagg. 92 – 93) inserito nella raccolta Il Dio di Gesù Cristo a cura di Davide D'Alessio, Ed Ancora 2008. – 3. Aoristo è una forma verbale presente nel greco indicante un'azione passata senza riferimenti al suo sviluppo, al suo compimento o al suo limite.
Domenica 8.1.2012 – Battesimo del Signore
Mc 1,7-11
E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».
Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E subito, uscendo dall'acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Chi parla, in questo breve brano del vangelo di Marco, è Giovanni il Battista. Nei versetti che precedono Marco presenta Giovanni come un profeta fortemente legato alla concezione teologica ebraica, come il redivivo Elia perché come lui veste di peli di cammello con una cintura di pelle ai fianchi (1). Inoltre è presentato come un uomo puro, di quella purità rituale descritta nei libri del Deuteronomio e del Levitico che nulla ha a che vedere con il nostro concetto di purezza.
L'evangelista, per sottolineare questa purezza, specifica il cibo che usava Giovanni, locuste e miele selvatico, cibi sicuramente consentiti (2), oltre ogni ombra di dubbio, dalla legge ebraica(3); per questo Giovanni può battezzare, cioè purificare gli altri.
Il battesimo era un rito di immersione conosciuto in molte religioni antiche, oltre che dal giudaismo; l'immersione in acqua era il simbolo della purificazione rituale. Giovanni, pur ispirandosi a questi riti preesistenti, ne modifica gli scopi, mira ad una purificazione non più rituale ma morale e che rivesta, in un certo senso, l'aspetto di una iniziazione, di un ingresso del battezzando tra coloro che professano un'attesa attiva del Messia e costituiscono in anticipo la sua comunità.
Marco non ricorda la predicazione penitenziale di Giovanni (cfr. Mt 3,7-10 e Lc 3,7-14), ma si limita a riportare il suo annunzio messianico, di fronte al quale tutto il resto scompare. Il Battista parla di uno che viene "dopo" (in greco opisô) di lui; siccome l'espressione "andare dietro" oppure "essere dopo" caratterizza il discepolo (cfr. Mc 1,17.20; 8,34), è possibile che vi sia qui il ricordo di un periodo che Gesù ha trascorso come discepolo del Battista. Questi però lo designa come "più forte" (in greco ischyroteros) di lui: abbiamo qui forse una punta polemica dei primi cristiani nei confronti dei discepoli di Giovanni, che assegnavano il primo posto al loro maestro.
Nei confronti di colui che viene il Battista assume un atteggiamento di grandissimo rispetto, ritenendosi addirittura indegno di sciogliere i legacci dei suoi sandali(4): questo gesto esprime l'umile servizio degli schiavi, considerato così degradante che il padrone non poteva esigerlo da schiavi ebrei.
Giovanni annuncia, "Io vi ho battezzato con acqua…", cioè io vi aiuto a cancellare il passato, ma non basta che venga cancellato il passato, occorre una nuova forza per andare avanti nel presente: "…ma egli vi battezzerà in Spirito Santo".
Forse non c'è bisogno di sottolinearlo, Spirito significa forza e provenendo da Dio è la forza di Dio, cioè l'amore di Dio. Il fatto che sia Santo non è una qualità, ma è la connotazione della sua attività: infatti quanti accolgono lo Spirito, questa forza di Dio, vengono separati (il verbo santificare, consacrare, significa separare) dalla sfera del male e attratti verso la sfera del bene.
Giovanni annuncia Gesù come colui che immerge in una forza che viene da Dio ed ha la capacità di allontanare l'uomo dal male.
Ed ecco che si presenta Gesù; c'è sempre abbastanza imbarazzo nei catechismi, nello spiegare perché Gesù è andato a farsi battezzare: il battesimo serve per il perdono dei peccati, allora anche Gesù aveva dei peccati? E se non li aveva perché è andato a farsi battezzare? Ha fatto finta? Ha fatto finta per darci l'esempio, ma è una spiegazione sciocca.
L'interpretazione odierna, che si basa molto sull'umanità di Gesù, prende lo spunto da un pensiero che era sorto nei primissimi anni del cristianesimo. Secondo quell'idea Gesù sentiva dentro di se la necessità di agire, ma non ne aveva ancora una coscienza chiara. Per questo, sentendo parlare di Giovanni, decide di seguirlo per qualche tempo, per vedere di far emergere e chiarire l'impellenza che sentiva. Per questo, ad un certo punto, chiede il battesimo e sarà per lui il momento cruciale della comprensione del suo destino perché riceverà lo Spirito di Dio.
"Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea…"; la formula "in quei giorni", caratteristica di Marco che la usa qui per la prima volta, indica l'inizio di un compimento di una serie di eventi accaduti in passato; per Marco questo momento è il compimento delle promesse della antica alleanza. Gesù ha lo stesso nome di Giosuè (in ebraico non esiste differenza tra i due nomi. La differenza è stata introdotta dai traduttori per non creare confusione nel lettore). Giosuè è colui che ha condotto il popolo dalla schiavitù dentro la terra promessa e Gesù ha lo stesso nome di colui che ha realizzato questo esodo. Quindi per Marco la venuta di Gesù è il compimento dell'opera di Giosuè.
L'unica informazione su Gesù che Marco fornisce è la sua provienza dalla Galilea e non dalla Giudea, contrariamente a quanto ci si aspettava secondo la tradizione giudaica.
Oggi gli storici sono convinti che Gesù sia nato a Nazareth, anche se due evangelisti lo fanno nascere a Betlemme, forzando la realtà, poiché non era concepibile che il Messia nascesse dalla Galilea, regione disprezzata(5) e non dalla Giudea.
"…e fu battezzato nel Giordano da Giovanni." il battesimo era un simbolo di morte: immergendosi nell'acqua si moriva a tutto quello che si era stati, per iniziare una vita nuova. Così per la tradizione ebraica lo schiavo a cui era stata data la libertà, o il pagano che voleva entrare nell'ambito della religione ebraica, si immergevano completamente in acqua per simboleggiare la morte al proprio passato.
Anche per Gesù il battesimo sarà un simbolo di morte, ma non ad un passato d'ingiustizia che Gesù non ha, ma al futuro. Gesù, con il battesimo, accetta anche la morte in futuro: infatti, secondo la tecnica letteraria degli evangelista, gli stessi termini adoperati nel battesimo, Marco li adopererà poi per descrivere la morte di Gesù.
"E subito, uscendo dall'acqua…" in realtà l'evangelista dice "salendo dall'acqua". La traduzione in italiano non sarebbe stata corretta, ma avrebbe seguito il pensiero di Marco per il quale il battesimo è una discesa nella morte con conseguente risalita a nuova vita, ad una resurrezione.
Questa non è una concezione solo di Marco ma anche degli altri evangelisti che non alluderanno mai alla morte di Gesù senza associarla alla sua resurrezione; la cosa naturalmente non è percepibile ad una lettura un po' frettolosa, ma ad una lettura attenta sì.
"…vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba." E' importante quel "E subito". Mentre Gesù sale dall'acqua, immediatamente dal cielo c'è lo spirito che si fonde con lui.
In alcune traduzioni troverete: i cieli aprirsi. È sbagliato. Il verbo adoperato dall'evangelista è 'squarciare' o 'lacerare', ma non aprire. L'evangelista adopera questo verbo anche per il riferimento al passo del profeta Isaia 63,19: il profeta chiede: "Se tu squarciassi i cieli e discendessi…". Esiste una sostanziale differenza tra il verbo aprire e il verbo squarciare: una cosa che si può aprire poi si può chiudere, una cosa che si è lacerata, o si è squarciata, non si può più ricomporre. Era credenza comune, ai tempi di Gesù, che il Signore, indignato per i peccati del popolo, avesse sigillato la sua dimora. Non c'era più comunicazione fra Dio e gli uomini.
Squarciare i cieli significa che da questo momento, con Gesù e attraverso Gesù, la comunicazione di Dio con gli uomini sarà totale e continuativa. Certo, bisognerà sintonizzarsi su questa lunghezza d'onda per comprendere la voce del Signore.
Lo stesso verbo squarciare lo troviamo nella morte di Gesù, (Mc 15,38) "il velo del tempio si squarciò in due dall'alto in basso". Nel tempio c'era una porta con un velo enorme lungo circa 25 metri, che copriva una stanza vuota dove non c'era niente, dove entrava il sommo sacerdote, una volta l'anno, per pronunziare il nome impronunciabile, il nome di Dio.
In questa stanza si credeva che c'era la gloria di Dio, la presenza di Dio. Immediatamente, appena Gesù muore, il velo del tempio si squarcia: non è più possibile rammendarlo, è rotto. Il Dio che era nascosto dal velo del tempio, si è manifestato ormai definitivamente in Gesù, ma in un Gesù particolare, nel Gesù inchiodato sul patibolo dei delinquenti, nel crocifisso.
La croce è la suprema manifestazione di Dio, di un Dio che stiamo scoprendo non buono, ma esclusivamente buono. È un Dio amore, che desidera soltanto comunicarsi esclusivamente attraverso l'amore e non ha altra maniera per comunicarsi agli uomini.
Un Dio esclusivamente buono che desidera comunicare con l'uomo, non assorbire l'uomo (il Dio della religione è quello che assorbe, che diminuisce l'uomo perché si fa servire), ma per comunicargli la propria energia, la propria capacità di vita.
Se l'uomo, per le sue ragioni esistenziali, si sente indegno, Dio non si ritrae, ma gli comunica abbastanza capacità di vita in modo che questa presunta indegnità dell'uomo venga eliminata.
Il cielo si squarcia, la comunicazione tra Dio e gli uomini è continua e lo Spirito (l'articolo determinativo in questo caso indica la totalità, cioè la totalità di Dio, la totalità della vita di Dio, della forza di Dio) scende su Gesù.
Al momento della morte di Gesù l'evangelista scriverà: Gesù dette un forte grido e spirò. Il verbo spirare ha la stessa radice di spirito (in greco "pneuma"). Gesù, morendo, effonde sugli uomini lo spirito che ha ricevuto nel battesimo e su quanti lo accolgono come modello di comportamento.
Il verbo spirare, prima dei vangeli, non indicava mai la morte di una persona.
Lo Spirito disceso su Gesù come colomba(6), significa che la dimora perpetua, perenne, dello Spirito, della forza di Dio, risiede in Gesù.
Ma non c'è soltanto questo significato. Nel commento rabbinico al libro della Genesi, della creazione, si dice che lo Spirito aleggiava sulle acque, aleggiava come una colomba. Quindi colui che scende su Gesù è lo Spirito creatore che in Gesù porta a compimento la creazione dell'uomo, portandola alla condizione divina. Ecco qual era il vero progetto di Dio sull'umanità: non un uomo che terminasse la sua esistenza nella morte, ma un uomo che, durante l'esistenza terrena, raggiungesse la condizione divina e avendo la condizione divina, potesse superare il fatto della morte.
"E venne una voce dal cielo:…" è la voce di Dio e indica un'esperienza intima, interiore, da parte di Gesù. Questo termine "voce" (in greco "phoné"), la troveremo per due volte nella morte di Gesù: prima il grido del gallo, poi il grido di Gesù.
Il gallo era considerato un animale demoniaco che cantava ogni volta che il satana aveva una vittoria, aveva ottenuto la punizione di una persona: quando Pietro, per la terza volta, ha rinnegato Gesù, il gallo ha cantato. Il grido di Gesù è più forte del tradimento di Pietro e al grido di vittoria delle tenebre, del gallo, corrisponde il grido di vittoria di Gesù. Quello di Gesù, sulla croce, non è lo strazio di un agonizzante, ma un grido di vittoria che annuncia l'effusione dello Spirito di cui Gesù è stato portatore durante la sua esistenza, e la sconfitta della morte con il dono di una vita indistruttibile. E questa voce dice: "…«Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento»".
Così come in Matteo, anche nel vangelo secondo Marco, le parole dette dalla "voce dal cielo" sono le stesse; nel vangelo secondo Luca invece il testo originale sembra essere stato «Tu sei mio Figlio, l'amato, oggi ti ho generato», come riporta la Bibbia di Gerusalemme nelle traduzioni non italiane. Tale testo è stato poi modificato rendendolo conforme agli altri vangeli. Questa modifica è dimostrata da diversi documenti: in un manoscritto greco (Codex Bezae Cantabrigensis7) e in alcuni manoscritti latini, le parole della voce celeste sono «Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato».
Il testo in questa forma era inoltre molto diffuso presso i Padri della Chiesa tra il II e il III secolo, cosa che costituisce una testimonianza importante in quanto la maggior parte dei manoscritti del Nuovo Testamento che sono giunti fino a noi è posteriore a queste testimonianze; ebbene, in quasi tutti i casi, in testimonianze che vengono dalla Spagna alla Palestina e dalla Gallia al Nordafrica, è la forma «oggi ti ho generato» ad essere attestata. Depone inoltre a favore dell'autenticità di questa versione il fatto che l'altra parte della frase è identica a quella riportata in Marco e la convinzione che coloro che copiavano tendevano ad uniformare i testi, invece che a introdurvi discostamenti.
La ragione della modifica del testo da «Tu sei mio Figlio, oggi ti ho generato», la versione originale di Luca, a «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto» sarebbero da ricondurre a un tentativo di rimuovere ogni possibile appiglio agli Adozionisti, una corrente delle origini del cristianesimo per la quale Gesù non era nato Figlio del Padre ma era stato da lui adottato all'atto del battesimo nel Giordano; rimuovendo il riferimento alla «generazione» dal vangelo di Luca, si toglieva forza alla posizione degli adozionisti(8). È anche interessante notare un altro fatto. Epifanio di Salamina, un cristiano del IV secolo che compose un'opera contro le eresie, narra che nel Vangelo degli Ebioniti (un vangelo utilizzato dalla corrente cristiana degli Ebioniti(9) nel II secolo, e ora andato perduto) vi era scritto: "E mentre usciva dall'acqua, i cieli furono aperti, ed egli vide lo Spirito Santo discendere nella forma di una colomba ed entrare in lui. E una voce dal cielo disse «Tu sei il mio figlio prediletto; in te mi sono compiaciuto»; e, continuando, «Oggi ti ho generato»(10).
Come si vede, gli Ebioniti tentarono di risolvere le contraddizioni tra le varie versioni facendole confluire in un'unica versione che diceva tutte e due le cose. Non diversamente da molti esegeti moderni o presunti tali!
Nella forma riportata dalla CEI, il grido è la citazione di un salmo, il salmo 2,7 dove Dio si rivolge al re che lui stesso ha stabilito. La discesa dello Spirito significa che Gesù è stato consacrato e costituito da Dio come il Re, Messia, l'atteso, e Dio stesso lo sostiene contro i suoi nemici. Nel salmo si diceva che Dio dava a questo re tutta la sua protezione contro i nemici. Il Padre, con questa voce dal cielo, dichiara un amore senza limiti per Gesù, accomunando ben tre termini. Questa esplosione d'amore divino è la risposta all'impegno di Gesù e l'approvazione piena della linea che Gesù ha deciso di seguire. L'amore del Padre per Gesù viene espresso nella comunicazione del suo Spirito, dice "Tu sei mio figlio, l'amato". La definizione di "Figlio", come si è visto più volte nel contesto ebraico, non significa soltanto chi è nato da qualcuno, ma soprattutto colui che gli assomiglia nel comportamento. Questo ci permette uno sguardo sul volto di Dio: se Gesù viene chiamato figlio è perché assomiglia al Padre, questo ci fa capire chi è il Padre. La dedizione di Gesù agli uomini, anche a costo di incontrare la morte, diventa la rivelazione dell'amore di Dio per l'umanità. L'espressione "tu sei mio figlio" non indica tanto chi è Gesù, quanto chi è Dio.
Note: 1. Vedere 2Re 1,8 e seguenti – 2. Vedere Lv 11, 22. – 3. Da notare che le locuste erano consentite, ma la lepre no. Il fatto che Marco indichi nelle locuste il cibo normalmente usato da Giovanni è una forzatura letteraria che gli consente di rimarcare la stretta osservanza della Legge da parte del personaggio. – 4. Esiste un'ulteriore interpretazione che fa riferimento alla legge del levirato. – 5. La Galilea è lontana dal centro del potere politico e religioso, è regione di frontiera con una popolazione che è una mescolanza di giudei e di pagani, e quindi di impuri, di peccatori, di reietti. Il territorio è arido e brullo; i suoi abitanti sono rozzi e duri. I galilei si distinguono per essere tra i più temerari e feroci affiliati alla setta degli zeloti, i fanatici fautori della lotta armata contro l'invasore romano, e Nazareth è proprio uno dei loro covi. I giudei non nascondono il loro disgusto per i rozzi galilei e lo manifestano apertamente con una ricca serie di proverbi, racconti e detti popolari. (cfr Talmud, 'Erubim B. 53a, 53b.). – 6. Naturalmente queste sono delle immagini metaforiche che l'evangelista adopera; infatti l'attaccamento della colomba al suo nido originale era proverbiale; c'era un proverbio ebraico che diceva: "come amor di colomba al suo nido", per indicare proprio questo attaccamento. – 7. Il Codex Bezae Cantabrigensis è un importante codice del Nuovo Testamento datato 380 - 420 (secondo altri è più tardo, V-VI secolo). È scritto in latino e greco. Contiene in maniera frammentaria solo i Vangeli, gli Atti degli Apostoli, la Terza lettera di Giovanni. – 8. Vedi anche: Bart Ehrman, Gesù non l'ha mai detto: millecinquecento anni di errori e manipolazioni nella traduzione dei vangeli, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2007. pp. 183-185. – 9. Ebioniti è il nome con cui alcuni scrittori cristiani indicano un gruppo di fedeli, di orientamento giudaizzante, dapprima considerati scismatici e quindi eretici da diversi Padri della Chiesa; rifiutavano la predicazione e l'ispirazione divina di Paolo. – 10. Vangelo degli Ebioniti, citato nel testo: Epifanio di Salamina, Contro gli eretici, 30/13,7-8.