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Le esegesi riportate in questo blog non sono frutto delle mie capacità, in realtà molto modeste. Le ricavo leggendo diversi testi dei più importanti specialisti a livello mondiale, generalmente cattolici, ma non disdegno di verificare anche l’operato di esegeti protestanti, in particolare anglicani. Se si escludono alcuni miei approfondimenti specifici, per la parte tecnica dell’analisi critica il mio testo di riferimento è questo:

- Giovanni Leonardi
, Per saper fare esegesi nella Chiesa, 2007 Ed. Elledici (testo promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale). Questo testo è molto semplice, veramente alla portata di tutti; per migliorare la capacità di analisi deve essere affiancato da altri due testi per la parte linguistica, anch’essi a livello divulgativo:

- Filippo Serafini,
Corso di greco del nuovo testamento, 2003 Ed. San Paolo.
- Luciana Pepi, Filippo Serafini,
Corso di ebraico biblico, 2006 Ed. San Paolo (da usare solo nel caso si voglia approfondire l’etimologia semitica sottesa ai vocaboli greci).

I testi della Bibbia in lingua originale sono pubblicati da varie case editrici; in particolare per i Vangeli segnalo l'ottimo testo della Edizioni Enaudi e quello sinottico della Edizioni Messagero in quanto hanno i testi greco ed italiano a fronte. Si trovano anche in vari siti in rete, ma non sempre sono testi aggiornati con le ultime scoperte a livello archeologico o paleografico.
Per la parte sostanziale normalmente faccio riferimento a documenti prodotti dalle fonti seguenti, che riporto in ordine decrescente di frequenza di utilizzo:

- École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), retto dai Domenicani e dove ha lavorato anche il Card. Martini.
- Centro Studi Biblici “G. Vannucci” – Montefano (An), retto dall’Ordine dei Servi di Maria.
- Sito www.Nicodemo.net gestito da P. Alessandro Sacchi.
- Università degli studi di Torino – Corso di Letteratura cristiana antica – Prof.essa Clementina Mazzucco.
- Fr. Dante Androli, OSM, docente di esegesi alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum – Roma
- Università degli studi La Sapienza di Roma – Corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Prof.essa Emanuela Prinzivalli.
- Biblia, Associazione laica di cultura biblica – Settimello (Fi)


lunedì 1 agosto 2011

Domenica 7.8.2011 – XIX Domenica del Tempo Ordinario

Mt 14,22-33

Subito dopo costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull'altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo.La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s'impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».

Il brano scelto da liturgista è il racconto di un avvenimento che fa seguito immediatamente alla prima moltiplicazione dei pani. Matteo riprende il racconto di Marco (Mc 6,45-52), semplificandolo e rendendolo più scorrevole. Ad esso aggiunge però, servendosi di una fonte sua propria, la parte riguardante Pietro. In Luca questo episodio è assente in quanto con esso ha inizio la parte in cui Luca si distanzia dagli altri due vangeli.

Prima di iniziare l'esame di questo brano devo segnalare che, fin da quando ero adolescente, questo brano mi ha sempre disturbato: non riuscivo a capire perché Gesù compisse questo atto, perché, soprattutto, facesse la figura del saltimbanco mettendo in evidenza la sua bravura quando non esisteva nessuna necessità evidente di mettere in mostra queste sue capacità. Solo in seguito, quando mi sono liberato della componente miracolistica che non consente una lettura autentica dei vangeli, ho iniziato a comprendere che il racconto evangelico era del tutto simbolico e come tale andava interpretato. Più avanti negli anni, durante lo studio in seminario, ho avuto la conferma scientifica di quello che avevo ipotizzato.

Sia Marco che Matteo scrivono in periodi difficili per la chiesa cristiana nascente: Marco, a Roma, aveva subito l'editto(1) dell'imperatore Claudio che confinava fuori dalle mura della città le etnie ebraiche allora presenti unitamente alla setta che "faceva capo ad un certo Cresto". Matteo aveva vissuto in prima persona prima la persecuzione di Nerone (64 d.C.), poi i massacri che avevano seguito la rivolta giudaica del 70 d.C. Probabilmente aveva anche assistito alla persecuzione di Domiziano (iniziata nel 81 d.C.).

Entrambi quindi vogliono mettere sull'avviso le loro comunità sulla necessità di non perdersi d'animo e di affidarsi al Risorto per superare queste difficoltà e lo fanno con la costruzione di questo racconto carico di simboli e di speranza.

Dopo aver sfamato la folla(2), Gesù ordina ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull'altra riva. Il motivo non è spiegato nel vangelo di Matteo, ma lo si può desumere da Gv 6,15: le folle volevano impadronirsi di Gesù per farlo re: un re che sapeva organizzare il popolo così bene insegnandogli a liberarsi dal potere tramite la condivisione non potevano lasciarlo scappare.

Ma questa elezione regale avrebbe portato al fallimento della predicazione di Gesù, perché i romani sarebbero intervenuti catturandolo, disperdendo la folla e distruggendo ogni loro speranza. Gesù perciò rimanda i discepoli per sottrarsi e per sottrarli all'entusiasmo delle folle.

Gesù si ritira sul monte a pregare, per sfuggire lui stesso alla tentazione di quella falsa regalità che lo avrebbe apparentemente ripagato di tante delusioni e fallimenti. La preghiera di Gesù dimostra l'importanza del fatto che sta per accadere: Matteo infatti mette in risalto raramente i momenti in cui Gesù prega. Qui egli prega a lungo da solo sul monte(3).

Intanto anche gli apostoli sono soli. O tali sembrano essere. Tocca a loro fare le opere del Maestro, prendere in mano i destini della barca, guidarla, correggerne la rotta, manovrare fiduciosi anche in mezzo a difficoltà grandi. Gesù ha spezzato le catene troppo paternalistiche che lo legano ai discepoli per aiutarli così a diventare adulti nella fede, abbandonandoli apparentemente, ma accompagnandoli con la sua preghiera.

Ecco che per essi sopraggiunge la difficoltà: si alza il vento contrario. La barca non avanza molto, non va spedita, conosce false manovre, tentennamenti, fallimenti per quel vento forte e snervante. Matteo dice che la barca era agitata, era tormentata dalle onde. Lo stesso verbo viene usato per indicare la sofferenza fisica o morale inflitta dalla malattia e per indicare la purificazione di un metallo.

I discepoli sono nella classica balia delle onde e il Maestro tarda nel soccorso. Ha lasciato che essi remassero tutta la notte, ma poco prima dell'alba eccolo apparire vincitore del mare e della notte. Egli domina sulle acque, come aveva fatto Dio nella creazione e nell'uscita dall'Egitto.

Il mare è il simbolo o il supporto di quella opposizione continua che Dio e il suo amore incontrano nel mondo. A questa opposizione si possono dare nomi diversi, ma il mare coi suoi uragani esprime efficacemente lo scatenarsi di tutte le forze ostili. Così quella barca, sballottata e quasi sommersa, è un'ottima immagine della Chiesa: fluctuat nec mergitur diceva Agostino, è agitata dai flutti, ma non viene sommersa.

Gesù viene dalla sua esperienza di preghiera solitaria sul monte «camminando sul mare(4)» Questa espressione è ripetuta due volte ed è carica di reminiscenze bibliche: Dio, creatore dell'universo e salvatore durante l'esodo, è colui che cammina sul mare (cfr. Is 43,16; 51,10; Ab 3,15; Sal 77,20-21; Gb 9,8.11; Sir 24,5; Sap 14,1-4). Come Dio Padre, così anche Gesù domina le forze minacciose, il vento e le onde agitate, e nello stesso tempo è il salvatore che soccorre efficacemente la sua comunità in mezzo alle prove.

Questa azione di Gesù è quasi il commento visivo dell'affermazione che farà l'apostolo Paolo: «Ha privato della loro forza i principati e le potestà, ne ha fatto pubblico spettacolo dietro il suo corteo trionfale» (Col 2,15).

Quando Gesù viene, sulla barca c'è paura, come ce ne sarà all'alba della sua risurrezione (cfr. Mt 28,4.8): nel totale smarrimento gli apostoli lo prendono per un fantasma. In questo contesto le parole di Gesù acquistano una grande risonanza teologica: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».

«Coraggio» è l'invito rivolto di solito da Gesù ai malati (cfr. Mt 9,2.22; 17,7; Mc 10,49) e ai discepoli dopo l'ultima cena (Gv 16,32-33).

L'espressione «Sono io» richiama l'autorivelazione di Dio nell'Esodo e nel libro del profeta Isaia (cfr. Es 3,14; 7,5; Is 43,10-11; 44,6; 46,9). Anche l'esortazione «non abbiate paura!» è frequente: la troviamo nell'episodio della chiamata di Pietro (Lc 5,10), ricorre nelle parole di Gesù a proposito delle persecuzioni (Mt 10,26.28.31), nelle parole che Gesù rivolge ai discepoli e a Giairo (Mc 5,36; Lc 8,50), dopo la trasfigurazione (Mt 17,7) e al mattino della risurrezione (Mt 28,5.10).

Se il mare rappresenta tutte le forze del male, la barca entro cui stanno i discepoli simboleggia la comunità ecclesiale attaccata dalle forze avverse. Gesù non è visibilmente coi suoi, ma è sul monte a pregare a lungo per la loro vittoria e viene a liberarli quando il pericolo è insuperabile.

La ragione per cui non riescono a superare il lungo pericolo è la loro incredulità o incertezza nei confronti di Gesù: non si sono rivolti a lui e quando viene lo ritengono un fantasma; non hanno fede nella presenza di Cristo, visibilmente assente.

A questo punto Matteo omette ogni riferimento all'intenzione di Gesù di oltrepassare i discepoli, come invece dice Marco, e inserisce l'episodio di Pietro(5).

Probabilmente Matteo ha attinto questo racconto da una preesistente tradizione orale e lo ha amplificato e elaborato, conferendogli un'impronta ecclesiale. In esso la figura di Pietro non è idealizzata, ma viene descritta in tutta la sua contraddittorietà, con i tratti tipici del discepolo impulsivo ed entusiasta, ma anche fragile e volubile. Sarà proprio per questo che durante la passione Pietro giungerà al punto di rinnegare Gesù. Ma proprio in quel momento troverà la forza di risalire alla superfice con un pianto che manifesta tutto il suo pentimento (cfr. Mt 26,69-75).

La situazione di Pietro si ripeteva per molti fedeli delle comunità di Matteo(6), a causa delle persecuzioni e delle divisioni interne. Matteo cerca di ravvivare la loro fede nella speranza dell'aiuto di Gesù risorto.

Questo episodio è ricco di valore simbolico. In se stesso infatti il camminare sulle acque non serve a niente in questo momento, non risponde a nessuna necessità: svuotato del suo significato simbolico, il fatto si ridurrebbe a una bravata, a un capriccio.

Dal punto di vista simbolico, invece, il fatto è molto ricco di significato. Camminare sull'acqua è un caso limite, l'esempio di ciò che è umanamente impossibile. Il desiderio di Pietro di camminare sull'acqua è sorto perché lo ha visto fare a Gesù. Senza troppo pensarci, Pietro esprime la sua richiesta: "«Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!»".

Pietro ritiene che tutto quello che ha fatto Gesù lo può fare anche il discepolo, se Gesù vuole che ciò avvenga. Commenta Agostino: «Io non sono in grado di camminare sulle acque in forza del mio potere, ma del tuo...Ciò che io non riesco a fare fidandomi sulle mie forze, tu lo puoi fare col tuo comando». Da parte sua Gesù condivide in pieno questo presupposto: non respinge la richiesta di Pietro come assurda, non lo rimprovera per quanto ha domandato, ma acconsente subito e senza esitazione gli dice: «Vieni», come normalmente diceva nei momenti delle chiamate.

Il primo senso del racconto è che il discepolo può fare le opere del suo Maestro. La richiesta di Pietro suppone una fede assai forte: come il lebbroso (Mt 8,2) e come il centurione (Mt 8,9), Pietro è convinto dell'onnipotenza di Gesù. Al cenno di assenso di Gesù, Pietro scavalca il parapetto della barca e affronta il rischio fiduciosamente. Come Gesù, anch'egli cammina sulle acque, simbolo del male: riesce a fare ciò che voleva il Signore. Fino a questo momento la fede di Pietro è tutt'altro che poca.

Come mai allora, se Gesù ha approvato la sua richiesta e se l'iniziativa sta riuscendo, Pietro poi dubita? Quando sente il vento contrario, Pietro ha paura e nel preciso momento in cui ha paura, immediatamente affonda. Che cosa è avvenuto in Pietro?

Si possono dare diverse risposte.

Quel vento contrario ha portato un accrescimento di difficoltà e questo mette a nudo l'insufficienza della fede di Pietro: la sua fede era stata capace di arrivare fino a un certo punto, ma poi si rivela incapace di andare oltre. Il vento fa sorgere in Pietro un dubbio che incrina la precedente certezza. L'aggravarsi delle circostanze, causato dal vento, avrebbe dovuto aiutarlo a fare un passo avanti nella fede, ma questo non avviene. L'aggravarsi delle circostanze gli fa fare un passo indietro nella fede, gli fa perdere anche quel tanto di fede che finora aveva dimostrato. Molti lettori di Matteo sentono così il conforto di identificarsi in Pietro.

Più che creare una nuova paura, il vento fa affiorare dal cuore di Pietro quella paura che prima era stata sconfitta. Quello che la fede prima gli aveva fatto intravedere come possibile e tradurre nella realtà, ora torna ad apparirgli come una cosa assurda. Quella raffica di vento ha richiamato bruscamente Pietro alla realtà che aveva dimenticato o perso di vista. Richiamato alla realtà, Pietro adesso la guarda come sorpreso e si domanda che cosa ci sta a fare in piedi sull'acqua. In questo momento è come se Gesù non ci fosse più: c'è solo Pietro con tutta la pesantezza del suo corpo e sotto di lui null'altro che acqua. Allora reagisce secondo la mentalità dell'uomo e non secondo la mentalità di Dio: si lascia prendere dalla paura. La vista di nuove difficoltà fa perdere di vista la presenza del Signore. La poca fede è quindi una mescolanza di fede e di incredulità. Quando scavalca la barca Pietro non è certamente incredulo, ma quando sente soffiare il vento contrario si comporta come uno che dispone solo di forze e di certezze umane.

Vi è una seconda spiegazione del fallimento di Pietro, data specialmente da Agostino: in Pietro c'è una mancanza di umiltà. I primi passi sull'acqua gli avevano dato la sensazione di possedere per sempre quella capacità come qualcosa di suo, di acquisito. Aveva dimenticato che quella possibilità era un dono che veniva da Gesù, un dono che doveva essere accolto sempre di nuovo, momento per momento, nello stupore e nel ringraziamento. Commenta Agostino: «Ciò che impedisce a molti di essere forti, è la presunzione di essere forti. Nessuno riceverà da Dio il dono della fortezza se non è persuaso della propria debolezza... Nessuno riceverà il dono della fortezza se prima non comprende di essere, per se stesso, debole... Pietro riuscì grazie al Signore, vacillò invece in quanto uomo».

L'intuizione spirituale di Agostino è assai profonda: lo scoraggiamento nasce precisamente dall'orgoglio, dall'attribuire il successo alle proprie forze umane, di cui prima o poi appariranno certamente i limiti. La fiducia invece nasce dall'umiltà: se è il Signore che opera, la nostra pochezza non è di ostacolo e nulla sarà mai troppo grande.

Questa spiegazione risulta più chiara se la confrontiamo con l'episodio del rinnegamento. Pietro aveva assicurato che tutti avrebbero potuto rinnegare Gesù, ma che lui non lo avrebbe fatto mai. In realtà sarà l'unico a rinnegarlo, mentre gli altri fuggiranno. Anche in questa circostanza, come sul lago, Pietro in un primo momento riuscirà a dominare la paura: mentre gli altri fuggiranno, egli seguirà Gesù fino nel cortile del sommo sacerdote. Poi, quando vedrà il pericolo più vicino, sarà vinto dalla paura. E' poca fede anche l'eccesso di fiducia in se stessi, oltre che la mancanza di fiducia nel Signore. Del resto i due aspetti sono intimamente legati.

Da parte di Gesù il sottrarre l'aiuto a Pietro, abbandonandolo un istante alle sue sole forze, non ha una finalità punitiva, ma vuole essere piuttosto un richiamo, un invito a ritornare alla fede. Ed è quello che avviene. Pietro infatti grida: «Signore, salvami!».

Prima aveva reagito come un incredulo, ora invece ritorna ad essere credente, conta sul Signore e sulla sua potenza. La sua fede avrebbe dovuto essere così forte da non farlo vacillare, da non fargli perdere di vista il Signore che aveva davanti. Però è fede anche il gridare verso di lui. La fede di Pietro non è stata così forte da distruggere nel suo cuore l'incredulità, ma neppure l'incredulità è stata così totale da distruggere nel suo cuore la fede. Proprio questa situazione viene chiamata da Gesù «poca fede». La fede di Pietro è poca perché è debole, non riesce a fronteggiare le nuove difficoltà, le nuove sfide; è poca perché è oscillante, fatta di sprazzi; è poca perché è superficiale, senza radici profonde, senza diventare una mentalità abituale, un criterio di giudizio costante.

Gesù lo afferra e gli domanda con un doloroso stupore: «Perché hai dubitato?». Nel discepolo la mancanza di fede non è ammissibile; mentre lo rimprovera, però, Gesù stende la sua mano e lo salva: Pietro è perdonato. Nonostante la sua fragilità, o forse proprio a causa di essa, «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».

L'aggettivo «di poca fede» è usato cinque volte nel vangelo secondo Matteo e riguarda sempre e soltanto i discepoli. Essi vengono descritti così quando sono preoccupati per il domani (Mt 6,30), durante la tempesta sul lago (Mt 8,26), quando Pietro affonda nelle acque (Mt 14,31), quando hanno dimenticato il segno della moltiplicazione del pane (Mt 16,8), di fronte al giovane epilettico (Mt 17,20). In tutte e cinque le situazioni i discepoli vivono un momento di pericolo superiore alle loro forze, percepiscono Gesù come assente, si sentono abbandonati a se stessi e in preda alla paura.

Soltanto i discepoli in Matteo vengono chiamati «di poca fede»; le altre persone non ricevono mai questo appellativo. I discepoli non vengono mai equiparati agli increduli, come talvolta fa l'evangelista Marco (cfr. Mc 4,40; 6,52; 8,14-21), ma non vengono neppure lodati per la loro grande fede, come avviene per il centurione (Mt 8,13), o per la donna cananea (Mt 15,28). Il caratterizzare i discepoli di Gesù come uomini «di poca fede» ha un significato profondo. Non si tratta semplicemente della situazione dei Dodici che stavano con Gesù, ma è quasi una situazione permanente, che accompagna costantemente i discepoli. La fede è sempre «poca», e il discepolo avrà sempre il compito di aprirsi a una fede più grande.

Chi di fede ne ha poca, può anche illudersi di averne abbastanza; chi invece si inoltra nel cammino della fede, chi ne sente il vero valore, ammette di averne poca.

La poca fede addolora Gesù, è una situazione che non ci dovrebbe essere, ma Gesù d'altra parte continuamente la perdona, la tollera. Egli viene in soccorso di chi ha poca fede, perché su questa terra è impossibile raggiungere una fede piena, completa: su questa terra i discepoli sono sempre la comunità dei piccoli che credono in Gesù (cfr. Mt 18,6), dei deboli nella fede (cfr. Rom 14,1.2.21; 1Cor 8,11-12).

Il racconto di Pietro che cammina sulle acque ha quindi un duplice scopo: mostrarci che il cristiano potrà fare le opere del Maestro e ricordarci che egli però resta sempre un uomo di poca fede, un uomo che ha paura quando il vento soffia troppo forte, un uomo che deve pertanto rimanere nella modestia. L'errore fondamentale di Pietro non è stato quello di aver avuto poca fede o di avere avuto paura, ma di aver dimenticato di essere un uomo di poca fede, fragile e pertanto soggetto al dubbio e alla paura. L'errore di Pietro non è stato colare a picco, ma pensare che questo non sarebbe mai successo. Il suo errore è stato il non aver dubitato di se stesso e l'aver dubitato invece della forza della parola di Gesù. La fede e il coraggio salvano Pietro, il dubbio nei confronti di Gesù lo fa cadere. Questo episodio preannuncia tutte le insidie che attendono le comunità cristiane in futuro: bisogna affidarsi alla presenza di Gesù per uscire illesi da tutte le traversie.

"Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!»". I discepoli nella barca erano caratterizzati dalla paura; Pietro sulle acque si dimostrò uomo di poca fede. Il contrario dei due atteggiamenti è la fede piena, e alla fine dell'episodio questa diventa esplicita, diventa un corale riconoscimento: «Davvero tu sei Figlio di Dio!». Gli uomini della barca sono ormai diventati la Chiesa adulta, che adora Gesù, suo Signore, e lo confessa come il Figlio di Dio che la salva dagli abissi del mare e dalla violenza della tempesta. E' necessario che in mezzo alle tempeste della storia la Chiesa sappia piegare le ginocchia, non per la paura o per la vigliaccheria, ma con il coraggio della fede, della adorazione, della invocazione, sappia riconoscere che Gesù è totalmente vicino al Padre, ma è anche tutto preso dall'amore e dalla sollecitudine per gli uomini, e gli dica semplicemente con tutto l'affetto e con tutta la fiducia: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».

Note: 1. L'editto è del 41 d.C. ma la sua applicazione è terminata all'incirca nel 50. Ne abbiamo notizia da Gaio Svetonio Tranquillo che nella sua "Vita dei Cesari" dichiara: "Cacciò da Roma quei Giudei che, istigati da Cresto, provocavano disordini continui", ma anche dagli Atti degli Apostoli (18,2): "Claudio infatti aveva ordinato che tutti i Giudei abbandonassero Roma". – 2. Quanto segue è stato in parte liberamente tratto da un articolo di Don Lorenzo Zani, biblista della Diocesi di Trento. – 3. Secondo la simbolica ebraica il monte rappresenta il punto più vicino alla divinità. Questa frase vuole quindi dire che Gesù era in intimità con Dio. – 4. L'evangelista non usa la parola acqua il cui significato sarebbe del tutto neutro, ma usa la parola mare che nella simbolica ebraica aveva un significato fortemente negativo in quanto indicava un ambiente sconosciuto che separava Israele dai pagani. Per esempio, morire in mare, secondo la teologia farisaica, comportava l'impossibilità per il defunto di risorgere nell'ultimo giorno. – 5. Da notare che Matteo chiama subito l'apostolo con il suo soprannome Pietro (Cefa) cioè testardo o zuccone, senza passare per Simone o Simon Pietro intendendo con questo che l'azione dell'apostolo sarà sicuramente negativa. - 6. Durante le persecuzioni subite dai cristiani, molti per evitare la morte o l'esilio, abiurarono la fede (al pari di Pietro in questo episodio) per poi richiedere la riammissione nella comunità passato il pericolo. Proprio per questi casi si cominciò a pensare ad una specie di confessione pubblica di fronte alla comunità per ottenerne il perdono. Questo rappresenta il primo germe di quello che sarà il Sacramento della Riconciliazione.