XXIII Domenica del Tempo
Ordinario – Lc 14,25-33
Una folla numerosa
andava con lui. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più
di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e
perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la
propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo
costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i
mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è
in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo,
dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il
lavoro». Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede
prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro
con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri
per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non
può essere mio discepolo.
Per
una volta tanto devo riconoscere che la traduzione di questo brano è stata
fatta con accortezza.
“Una folla numerosa andava con lui. Egli si
voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo
padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la
propria vita, non può essere mio discepolo….”
Il
testo greco, infatti, afferma: “Chi non
odia suo padre, la madre, la moglie, i figli…” trascrivendo alla lettera
un’espressione semitica molto forte; questo brano di Luca, infatti, è ricco di
espressioni tipicamente ebraiche, che vanno interpretate per quello che
volevano dire 2000 anni fa.
La
prima di queste espressioni è “odiare il padre, …”. Gesù, in realtà, non
domanda odio, ma invita a non anteporre la famiglia, i beni e la propria vita
alla parola di Dio; l’uso di un verbo così estremo per gli ebrei aveva la
funzione di una sottolineatura, di una forte indicazione dell’importanza
dell’affermazione.
“Colui che non porta la propria croce e non viene
dietro a me, non può essere mio discepolo”.
Altro
ebraismo è la parola “croce”. Il valore che oggi ad essa viene
attribuito è quello delle tribolazioni che s’incontrano nella vita; ma non era
questo il significato che i lettori di Luca davano a questo scritto; per essi
il senso che Gesù voleva attribuirvi era chiaro e risiedeva nei ricordi ancora
freschi dei 500 crocifissi al giorno con i quali i Romani avevano soffocato nel
sangue la rivolta del 70 d.C. Per questo è necessario recuperare l’autentico significato
della parola “croce” nei vangeli.
La
croce non era contemplata nel diritto penale giudaico come pena capitale;
inventata dai Persiani, la crocifissione fu adottata in seguito dai Romani come
deterrente per mantenere sottomessi gli schiavi. Più che un sistema di
esecuzione capitale, la condanna alla croce era un’atroce e crudele tortura che
lentamente conduceva alla morte, la quale sopravveniva, a volte, anche dopo
tre, quattro o perfino sette giorni1, dopo i più strazianti tormenti
di una lenta e dolorosissima agonia. Forse è per l’orrore che suscitava, che
non si ha nessuna descrizione dettagliata di questo supplizio, da parte degli
storici dell’epoca.
È
dunque all’orrore di questa condanna, che veniva inflitta esclusivamente ai
rifiuti della società, ai maledetti da Dio, come li definisce il Libro del
Deuteronomio (21, 22-23), che Gesù si
riferisce con il suo invito a caricarsi della croce; per un ebreo subire questa
condanna voleva dire prima di tutto che Dio l’aveva permessa e quindi il condannato
era certamente un essere ignobile, un reietto, un maledetto, un disprezzato, un
rifiuto della società2. Caricarsi della croce vuol dire quindi
accettare di perdere la propria reputazione, di essere maledetto, disprezzato,
di essere considerato l’ultimo cane immondo di Israele. Gesù non offre titoli,
privilegi, posti onorifici a coloro che intendono seguirlo: li avverte che se
non arrivano ad accettare che la società, civile e religiosa, li consideri come
delinquenti, li dichiari gente indesiderabile, è meglio che rinuncino a
seguirlo.
“Chi di voi, volendo costruire una torre, non
siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a
termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il
lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: «Costui ha
iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro»”. Oppure quale
re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può
affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no,
mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.”
Per
questo Gesù fa l’esempio del costruttore della torre e del re che deve partire
per la guerra. Chi intende seguire Gesù, deve pensare a quello che va incontro,
deve farlo dopo aver attentamente ponderato la sua capacità di sopportazione
degli insulti della società. Questo, se era vero al momento in cui Luca
scriveva (fine del I secolo d.C., durante le persecuzioni che l’Impero Romano
stava facendo nei confronti dei cristiani), a maggior ragione è vero nella
realtà odierna, in cui il cristiano è circondato da una società sempre
indifferente e spesso ostile all’insegnamento di Cristo. In queste condizioni
pensare di mantenere intatta la stima da parte degli altri e i privilegi
conseguenti (“Così chiunque di voi non
rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo”) seguendo
Cristo è pura illusione.
Note: 1. Gesù
morì in breve tempo a causa della crudele e ripetuta flagellazione a cui lo
avevano sottoposto e per l’uso dei chiodi, cosa rara nelle crocifissioni
romane. – 2. Questa è la motivazione principale per la quale il Sinedrio ha
insistito perché Gesù fosse crocifisso e non lapidato. La morte di Gesù in
croce aveva quindi un forte valore politico e permetteva agli scribi, sulla
base della Legge, di dichiarare falsi gli insegnamenti di Gesù, mantenendo così
intatti i privilegi sociali ed economici dei sacerdoti e degli stessi scribi.