Contenuti del blog

Le esegesi riportate in questo blog non sono frutto delle mie capacità, in realtà molto modeste. Le ricavo leggendo diversi testi dei più importanti specialisti a livello mondiale, generalmente cattolici, ma non disdegno di verificare anche l’operato di esegeti protestanti, in particolare anglicani. Se si escludono alcuni miei approfondimenti specifici, per la parte tecnica dell’analisi critica il mio testo di riferimento è questo:

- Giovanni Leonardi
, Per saper fare esegesi nella Chiesa, 2007 Ed. Elledici (testo promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale). Questo testo è molto semplice, veramente alla portata di tutti; per migliorare la capacità di analisi deve essere affiancato da altri due testi per la parte linguistica, anch’essi a livello divulgativo:

- Filippo Serafini,
Corso di greco del nuovo testamento, 2003 Ed. San Paolo.
- Luciana Pepi, Filippo Serafini,
Corso di ebraico biblico, 2006 Ed. San Paolo (da usare solo nel caso si voglia approfondire l’etimologia semitica sottesa ai vocaboli greci).

I testi della Bibbia in lingua originale sono pubblicati da varie case editrici; in particolare per i Vangeli segnalo l'ottimo testo della Edizioni Enaudi e quello sinottico della Edizioni Messagero in quanto hanno i testi greco ed italiano a fronte. Si trovano anche in vari siti in rete, ma non sempre sono testi aggiornati con le ultime scoperte a livello archeologico o paleografico.
Per la parte sostanziale normalmente faccio riferimento a documenti prodotti dalle fonti seguenti, che riporto in ordine decrescente di frequenza di utilizzo:

- École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), retto dai Domenicani e dove ha lavorato anche il Card. Martini.
- Centro Studi Biblici “G. Vannucci” – Montefano (An), retto dall’Ordine dei Servi di Maria.
- Sito www.Nicodemo.net gestito da P. Alessandro Sacchi.
- Università degli studi di Torino – Corso di Letteratura cristiana antica – Prof.essa Clementina Mazzucco.
- Fr. Dante Androli, OSM, docente di esegesi alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum – Roma
- Università degli studi La Sapienza di Roma – Corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Prof.essa Emanuela Prinzivalli.
- Biblia, Associazione laica di cultura biblica – Settimello (Fi)


martedì 28 ottobre 2014

Commemorazione dei defunti (Messa II)



Commemorazione di tutti i defunti (Messa II)
Mt 25,31-46

Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me». Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato». Anch'essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?». Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l'avete fatto a me». E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».

Questo brano è la conclusione del cap. 25 nel quale Matteo, con le parabole delle vergini stolte e dei talenti, vuole rispondere alla domanda escatologica presente nella sua comunità giudeo-cristiana: chi non ha potuto o voluto accogliere Gesù ed il suo messaggio che fine avrà?
La risposta che Matteo costruisce è fondata sulla tradizione farisaica che non prevedeva il giudizio finale per i discendenti di Abramo e lo prevedeva invece per i gentili1; Matteo, però, inserisce in questa concezione il pensiero di Gesù.
Infatti nel Vangelo di Matteo c'è un episodio abbastanza sconcertante, almeno secondo la mentalità religiosa ebraica, ed è quello dell’incontro di Gesù con “il giovane ricco”(Mt 19,16-22). Egli chiede a Gesù cosa deve fare per avere la vita eterna. Gesù gli risponde: “osserva i comandamenti”. Il tale vuole sapere “quali”, e Gesù, in maniera sconcertante e scandalosa per le orecchie di una persona religiosa di quell’epoca (ma forse di tutte le epoche) gli cita soltanto quei comandamenti che riguardano i doveri nei confronti degli uomini. Questa è la novità clamorosa portata da Gesù.
Nella religione, in tutte religioni, l'uomo si sforza di innalzarsi verso Dio, di sublimarsi, di spiritualizzarsi, e lo fa separandosi dal resto della gente. Per questo le persone religiose si separano dalle altre persone, le quali non possono o non vogliono vivere una vita fatta di sacrifici, di preghiere ecc.
Questa concezione, all’epoca di Gesù, ha portato alla nascita del fariseismo. Il termine fariseo infatti non significa altro che separato. Nei primi secoli della nostra era questa concezione ha portato, in Egitto, alla nascita del monachesimo, movimento che fece proprie le idee buddiste che giungevano dall’oriente portate dai mercanti.
Il fariseismo e il monachesimo non sono concezioni cristiane: nei Vangeli si denuncia che proprio queste persone, tanto spirituali, devote e religiose, sono in pratica atee. Non solo. Gesù spesso sottolinea che queste persone, tanto pie e devote, sono divenute disumane; si sono talmente spiritualizzate da allontanrsi dalla loro umanità (vedi, a titolo di esempio, Mc 3, 1-6).
La novità che Gesù ha portato, che ancora forse non è stata pienamente compresa, è che con Gesù non è l'uomo che deve tentare di raggiungere l'altezza della divinità, ma ha la possibilità di accogliere un Dio che scende e si abbassa al livello dell'umanità, un Dio che serve.
Gesù insegna che per incontrare il Dio che è già in noi, non dobbiamo spiritualizzarci, non dobbiamo separarci dagli altri attraverso determinate preghiere, devozioni, sacrifici, ma dobbiamo semplicemente umanizzarci: più noi penseremo agli altri, più scopriremo il divino che è in noi.
Proprio perché Dio si è fatto profondamente umano, la relazione con lui non si baserà sugli atteggiamenti religiosi, spirituali, ma su quelle che sono le normali regole umane, basilari, di convivenza: “avevo fame‟, “ avevo sete”, “ero nudo”, “ero straniero‟, “ero carcerato‟.

Vediamo quindi cosa dice questo brano.
Inizia con lo stile di un documento ufficiale, come un atto diplomatico; sembra quasi che Matteo stia parlando di un popolo straniero: “Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria”.
Gesù non proclama se stesso come il Messia, ma come il “figlio dell'uomo‟. In aramaico, la lingua parlata da Gesù, questa allocuzione significa semplicemente “uomo”; se lo colleghiamo al linguaggio preso dal profeta Daniele (Dn 7,13), significa un uomo che ha raggiunto il massimo della sua umanità, ed è quindi entrato nella condizione divina: l'uomo-Dio.
Quando Gesù annunzierà la sua passione e morte non dirà che il Sinedrio, i sommi sacerdoti, i farisei, i capi odiano il Messia; Gesù dichiara che l'odio dell'istituzione religiosa è contro il progetto di Dio sull'umanità. L'istituzione religiosa è riuscita, attraverso l'invenzione del peccato, a inculcare il senso di colpa nelle persone per farle sentire sempre indegne e bisognose della casta sacerdotale per ottenere il perdono.
L'istituzione religiosa è riuscita a scavare un abisso tra Dio e gli uomini: gli uomini, per quanto si diano da fare, non riusciranno mai raggiungere il Signore, perché la dottrina degli scribi e farisei li fa sentire sempre in colpa, sempre indegni.
Nel Libro del Levitico si trova un elenco dettagliato di tutto quel che può separare l‟uomo da Dio, quel che lo rende “impuro‟. Impuro secondo la concezione biblica dell'epoca significa separato da Dio, nell’impossibilità anche di pregare. Il Signore è infatti situato nella sfera dell'assoluta santità e della purezza.
L'uomo, per entrare in contatto con Dio, deve purificarsi; per farlo deve ricorrere ai sacerdoti e al tempio per poter rientrare in comunione con Dio. Su questo si è sempre basata l’istituzione religiosa a costo di rendere difficile e senza gioia la vita dell’uomo
Per contro nei vangeli emerge una verità profonda e importante: per Gesù non c'è un valore assoluto più importante del bene dell'uomo. Nel caso che al bene dell'uomo viene sovrapposta una dottrina o una verità più importante, questa non proviene da Dio, perchè prima o poi si ritorcerà contro l’uomo.
Per Gesù non c'è nell'orizzonte del credente un obiettivo più importante che il bene dell'uomo, più di qualunque dogma, più di ogni verità. Gesù non chiede pratiche straordinarie, chiede di essere profondamente umani cioè attenti ai bisogni e alle necessità delle persone andando loro incontro, mettendosi a loro servizio per alleviare le sofferenze. Questo è possibile per tutti. Quando accade questo l'uomo sente nascere dentro di sé una nuova realtà, una vita di una qualità divina, perché l'uomo incontra Dio quando si umanizza completamente.
Gesù sacralizza l'uomo e desacralizza tutto quello che era ritenuto sacro dalla religione. Si comprende allora l'odio dell'istituzione religiosa contro il “figlio dell'Uomo‟, ritenuto un bestemmiatore, un indemoniato che merita la morte. E lo ammazzeranno. Ma quando crederanno di aver vinto, quella sarà la loro sconfitta perché l'uomo che ha la condizione divina non muore, chi ha lo Spirito non muore perché lo Spirito è vita e dove c‟è la vita di Dio non c‟è la morte.
Pertanto Gesù dichiara che quell’uomo che sarà ucciso, con la morte più infamante, quella della croce, “verrà nella sua gloria”, cioè acquisterà la condizione divina, e con lui tutti gli inviati (angeli). E’ l’affermazione della resurrezione2.
Gli angeli sono gli inviati di Gesù, quelli che hanno accolto il suo messaggio, e con lui e come lui hanno orientato la propria vita per il bene degli altri. Sono quanti attraverso la sequela di Gesù e l’accoglienza del suo messaggio hanno sentito la loro vita trasformarsi.
Allora “si siederà sul trono della sua gloria”.
Questa espressione presa dall'AT indica la presenza di Dio nel tempio. Con Gesù Dio esce dal tempio e per prima cosa va incontro alle persone escluse dal tempio3, perché  per Dio non c'è nessuna persona che possa essere considerata indegna. E’ una verità importante come lo stesso Pietro ha capito dopo l'incontro con il centurione4. E’ la fine della religione.
Con Gesù non c'è una sola persona che possa sentirsi esclusa dall'amore di Dio. Gesù va incontro agli esclusi, ai rifiutati dalla religione, agli impuri e ai peccatori. A quanti non potevano avvicinarsi al Dio del Tempio, il Dio di Gesù va loro incontro per comunicare a tutti il suo amore.
Con Gesù c'è un cambio radicale nel rapporto tra gli uomini e Dio. La nuova relazione con il Signore non sarà più attraverso l’osservanza della Legge di Dio, ma mediante l‟accoglienza dell'amore del Padre. La legge di Dio non è altro che un vuoto contenitore diventato strumento di potere da parte delle autorità religiose per consolidare e rafforzare sempre di più il loro dominio e il loro prestigio sulle persone.
Gesù invece non agisce mosso dalla legge di Dio, ma dall'amore del Padre; non dal bene della dottrina, ma dal bene dell'uomo. Questo è il Gesù che si manifesta in questa scena: “Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre”.
La religione, ogni religione, non potendo convincere le persone con le sue osservanze, le sue regole, che sono tutte irrazionali, obbliga a osservare i suoi insegnamenti, spacciando per verità divine quelle che sono solo dottrine di uomini, e per questo ricorre al terrorismo religioso inculcando nelle persone la paura di Dio e del suo giudizio. Un'immagine che ha angosciato generazioni di credenti, è proprio l'immagine del giudizio universale.
I pittori si sono esercitati nel manifestare questo giudizio; basti pensare alla Cappella Sistina: alle poche anime di eletti, quasi tutti religiosi5, corrisponde una gran massa di dannati; e lì si è dato sfogo al sadismo, al masochismo per immaginare le pene più tremende per quanti saranno castigati nel giorno del giudizio universale.
Ma l'immagine di un giudizio universale è assente dai Vangeli.
Gesù dichiara che saranno riunite davanti a lui tutte le genti e usa il termine greco ethne, da cui deriva la parola etnico, che indica le nazioni pagane. Pertanto questo giudizio non è universale, non è per tutto il mondo, è per i pagani. Per il giudizio di Israele saranno i dodici discepoli che giudicheranno le dodici tribù (Mt 19,28). Per i credenti in Gesù non c'è invece nessun giudizio. Per il fatto di aver accolto Gesù come modello della propria esistenza e per il fatto di aver orientato la propria vita verso il bene degli altri, i credenti nel Cristo sono già nella pienezza della vita eterna e non vanno incontro a nessun giudizio (Rm 3,24; 1Cor 6,11; Gal 2,16; Tt 3,7).
Ma quelli che non hanno mai sentito parlare di Cristo, quelli che non l’hanno conosciuto, in base a cosa saranno giudicati? È a questo interrogativo che risponde la parabola di Matteo.
Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre…”
Prima Gesù si è presentato come il figlio dell’uomo, l'uomo che ha la condizione divina. Ora Gesù si presenta sotto le vesti del pastore. In nessuna di queste espressioni c'è qualcosa che indichi la paura, il timore. Il pastore è colui che si prende cura delle pecore, quello che va in cerca della pecora smarrita, il pastore che offre la vita per le sue pecore, è il pastore che separa le pecore dai capri6. Gesù si rifà alla pratica palestinese dei beduini dove la sera i greggi venivano separati per la mungitura, e afferma che porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sua sinistra.
“Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra...”.
Dopo il pastore, Gesù si presenta come re. Israele, dopo il fallimento della monarchia, non aveva avuto più re e aspettava un re ideale, quello che si prende cura degli orfani e le vedove. Gli orfani e le vedove sono due categorie umane che non hanno un uomo, un maschio che pensa a loro. Il re, nella simbologia ebraica, indica colui che protegge quelle persone delle quali nessuno si prende cura. E Gesù dirà a quelli che stanno alla sua de-stra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo”.
Come fa Gesù a riconoscere quelli che sono benedetti?
Nella tradizione ebraica, che poi è confluita nella spiritualità cristiana, si diceva che tutte le azioni di un uomo erano scritte in un libro che Dio avrebbe consultato nel giorno del giudizio. Gesù non ha bisogno di consultare nessun libro. Come il pastore distingue le pecore dalle capre, ugualmente il Signore distingue prontamente quelli che hanno orientato la propria vita per il bene degli altri e quelli che invece sono vissuti solamente per se stessi.
Gesù, parlando del regno di Dio, l’aveva paragonato a un pescatore che tira fuori dalla sua rete pesci buoni e pesci marci7 (Mt 13,48). I pesci non sono cattivi, sono marci, sono senza vita, e non vengono eliminati per la loro cattiva condotta, perché hanno commesso qualcosa, vengono scartati perché sono marci, inutili. Ugualmente il contadino esperto distingue subito il frutto buono dal frutto marcio. E così Gesù distingue prontamente quelli che hanno vissuto per gli altri, perché chi orienta la propria vita per il bene dei fratelli, trasforma la propria esistenza, diventa una persona splendida: “…se l'occhio che è in te è luminoso, tutto il tuo corpo sarà luminoso…” (Mt 6,22). L'occhio luminoso è un'espressione ebraica che indica la generosità. Una persona che vive per gli altri è una persona splendida.
Gesù non ha bisogno di consultare i libri. Vede le persone che sono splendide e le persone che invece sono nelle tenebre.
Il Padre di Gesù benedice queste persone (benedetti dal Padre mio) chiamate a ricevere “…in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo…”.
Il Dio che emerge dai Vangeli è un Dio completamente diverso da quello della tradizione religiosa. Il Dio della religione è un Dio sempre scontento dell'umanità, un Dio che, secondo il salmista, si affaccia, guarda la terra e si ritrae nauseato.
Il Padre di Gesù guarda anche lui l'umanità ed esclama: che meraviglia! Non è che Dio non veda la realtà così come è, ma Dio vede l'uomo come può diventare se coglie il suo amore. E’ un Dio talmente innamorato della sua creazione che fin dalla creazione del mondo, ha pensato a ogni sua creatura per farla erede del suo regno.
È lo stesso pensiero espresso da Paolo nella lettera agli Efesini con l’inno dell'ottimismo di Dio sul creato: “…in Gesù, Dio ci ha eletti prima della creazione del mondo…“(Ef 1,4). Prima ancora di creare il mondo Dio aveva pensato a noi, aveva pensato a ognuno di noi per renderci suoi figli adottivi.
E’ l'adozione di un potente, non è l'adozione come noi la intendiamo, cioè l'accoglienza di un bambino per amore all'interno di una famiglia, ma a quell’atto giuridico con il quale l’imperatore, quando vedeva approssimarsi ormai la fine della sua esistenza, sceglieva tra i suoi valorosi uno che riteneva avesse le sue stesse qualità per continuare a portare avanti il suo impero come lui e meglio di lui.
Questo significa essere figli adottivi di Dio: il Signore ci stima tanto, ci apprezza tanto e soprattutto ha tanto bisogno di noi, che ci chiede di collaborare alla sua azione creatrice. La creazione non è terminata fintanto che ci sarà il male e la sofferenza nel mondo (Rm 8,18-23).
I primi capitoli del libro della Genesi, dove leggiamo del giardino (in persiano: paradiso), dell'armonia tra l'uomo e la donna, tra gli uomini e la natura, non sono la descrizione di un mondo irrimediabilmente perduto, ma la profezia di un paradiso da costruire, collaborando all'azione creatrice di Dio.
Collaborare alla creazione di questo mondo non è nulla di impossibile o di strano: basta capire la frase “…perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare…”. Lavorare all'azione creatrice del Padre significa esercitare nella vita opere che comunicano vita agli altri. “…ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato…”.
Per collaborare col Creatore basta avere una risposta d'amore, di tenerezza, di misericordia nei confronti di chi ha bisogno. Collaborare all'azione creatrice di Dio significa comunicare vita a chi vita non ce l‟ha.
In queste sei azioni, chiamate le sei opere di misericordia, non viene chiesto conto del comportamento nei confronti della divinità. Quelli che sono benedetti dal Padre non lo sono perché hanno pregato, perché hanno offerto sacrifici, ma perché hanno dato vita agli altri. Il giudizio per quanti non hanno conosciuto Dio non è il rapporto che hanno avuto con il Signore, ma con le altre persone.
Nel Talmud, libro sacro degli ebrei, c'era una parabola simile a questa di Matteo. Nel Talmud si legge infatti che nell'aldilà il Santo, che benedetto sia, - espressione per indicare il Signore - prenderà un rotolo della Legge, i primi cinque libri della Bibbia, se lo poserà sulle ginocchia e dirà: chi se ne è occupato venga e riceverà la sua ricompensa. Nella tradizione ebraica per entrare a far parte della benedizione, della ricompensa di Dio, bisognava aver osservato la sua Legge. Con Gesù tutto questo è terminato. Quello che determina il gradimento di Dio non è avere osservato o meno la sua Legge, ma il comportamento tenuto verso l‟altro.
La novità portata da Gesù è che all’orizzonte del credente c’è soltanto il bene dell‟altro; non c'è nient'altro.
Da notare che queste opere di misericordia erano conosciute del mondo antico anche presso gli scrittori pagani; e si trovano sia nei testi religiosi sia nei testi laici. Ma in tali testi non si trova la categoria dei carcerati con i quali il Signore si identifica: “…ero carcerato e siete venuti a visitarmi”.
Gesù si identifica con gli ultimi della società, non con i primi. Il Signore si identifica con gli affamati, con gli assetati, con gli stranieri, con i nudi e - cosa veramente scandalosa per le pie orecchie dell'epoca – con i carcerati.
Il carcerato veniva considerato una persona giustamente punita per le sue colpe e verso il carcerato non c'era nessun sentimento di pietà e di compassione o di misericordia, perché era responsabile della propria condanna. Con l'immagine del carcerato Gesù indica tutte quelle persone che per la loro condotta si trovano in una situazione di totale rifiuto da parte della società e non meritano un minimo sentimento di pietà o di misericordia.
A quell'epoca i carcerati erano detenuti soltanto per il periodo in attesa dell'esecuzione capitale; e la sopravvivenza del condannato non era determinata dai carcerieri ma dai familiari e amici che dovevano portargli da mangiare. Quindi visitare il carcerato non significa soltanto recare una visita di conforto ma dare vita a quelle persone che la religione e la società civile ritengono i più lontani e non degni di un minimo di compassione.
“Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere?”
Giusto nel Talmud significa “fedele”, colui che è fedele all'osservanza della Legge. Il giusto con Gesù non sarà più il fedele osservante della legge, che non determina più la condotta del credente, ma fedele all’uomo, all’amore verso ogni creatura.
Allora gli chiedono: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”
Ed ecco la risposta clamorosa di Gesù: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli (= insignificanti)…”. Gesù chiamerà fratelli i suoi discepoli dopo la resurrezione, ma qui anticipa già che suoi fratelli sono le persone ritenute insignificanti dalla società, le persone che non contano nulla, che sono invisibili. Le persone che il mondo ignora, Gesù le considera suoi fratelli: “ …che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, cioè insignificanti, l’avete fatto a me…”.
Questo brano evangelico non giustifica in alcun modo quell’errata spiritualità che consiste nel vedere Cristo nel povero. Le persone che hanno aiutato l'affamato, non l’hanno fatto perché vi vedevano Cristo, non hanno accolto lo straniero perché ospitando il forestiero accoglievano il Signore; essi del Signore non sanno niente, e infatti si meravigliano.
Le azioni di vita che loro hanno fatto sono state nei confronti dei bisognosi in quanto tali e non del Signore. Non hanno dovuto cercare qualcosa di divino nel bisognoso per amarlo, lo hanno amato perché ne aveva bisogno.
Non si amano gli altri perché negli altri c'è il Signore, ma con il Signore e come il Signore si amano gli altri, così come sono, senza pensare a una possibile ricompensa divina. Non si tratta di vedere Gesù nel povero, ma di guardare lo straniero e il carcerato con lo stesso sguardo con il quale lo vede Gesù.
Nella religione (per religione si intende quello che gli uomini fanno per Dio) il traguardo è Dio; tutto quello che l'uomo fa, lo fa per Dio. Con Gesù la religione è finita; al suo posto c'è la fede, che è la risposta degli uomini a quello che Dio fa per loro.
Con Gesù Dio non è più al traguardo dell'esistenza, ma all'inizio: è Gesù che prende l'iniziativa di amarci, e noi, avvolti da questo amore, con lui e come lui amiamo l'altro così come è: pidocchioso, sporco, insopportabile. Non devo trovare Cristo nell'altro per amarlo, ma devo scoprire in me lo stesso sguardo di Gesù, e con Cristo come Cristo amare queste persone.
Adesso vediamo invece il rovescio della medaglia: questa pagina è drammatica perché vi sono delle parole di una durezza che ci devono far riflettere veramente.
“Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato»”.
Sono parole tremende che uno non si aspetta di trovare in bocca a Gesù, tanto più che poco prima aveva detto venite benedetti dal Padre mio.
Adesso si gira, guarda quelli che ha collocato alla sua sinistra, (ricordo che la divisione che Gesù ha fatto, non l’ha fatta consultando un libro dove sono scritte le azioni delle persone ma è bastato guardare perché ci sono persone vive e persone che sono già morte e putrefatte), e rivolto a queste persone dice: “via, lontano da me”.
Gesù è la vita, ed è incompatibile con la morte, con il marciume; Gesù è la luce, ed è incompatibile con le tenebre per questo li allontana.
“…maledetti…”, ma non sono maledetti da Dio.
Abbiamo letto prima nel testo: venite benedetti dal Padre mio. Il Padre è amore, Dio è amore, e non ha nessuna maniera di rapportarsi con le persone che non sia una comunicazione traboccante, crescente, d'amore. Dal Padre, viene soltanto benedizione e amore.
Gesù non dice maledetti dal Padre mio; ma solo maledetti: sono divenuti maledetti da soli, perchè Dio non maledice, Dio benedice.
“…via lontano da me, maledetti”. Questa espressione così forte appare un’unica volta nel Vangelo di Matteo. L'evangelista si rifà al primo assassino della Bibbia, a Caino che ammazzò il fratello; nel libro della Genesi (Gn 4,1-16) si legge: ora, sii maledetto. Richiamandosi a questa maledizione l'evangelista vuol dire che negare l'aiuto all'altro è come ucciderlo. Se la risposta era fattore di vita, avevo fame e mi avete dato da mangiare, la mancata risposta è causa di morte.
Coloro che non aiutano l'altro, coloro che non sono attenti ai bisogni e alle sofferenze degli altri, sono assassini e la maledizione non viene da Dio, ma si sono maledetti da sé. Sono parole veramente dure.
Quelle persone che vivono esclusivamente centrate sui propri bisogni, sulle proprie necessità, ignorano i bisogni e le necessità magari delle persone che sono loro accanto, con le quali vivono insieme, a volte nella stessa famiglia. Chi vive unicamente centrato egoisticamente su se stesso vede tutto il mondo orientato su di sé, pensa soltanto a quello che gli devono gli altri e non apre gli occhi per vedere ciò che lui deve agli altri.
Ma come si fa a non dare da mangiare a uno che muore di fame? a non dare da bere a uno che muore di sete, a non vestire uno che è nudo, a non visitare uno che è malato. Cercando nel Vangelo esempi del genere, si vede che è possibile.
Ci sono due categorie di persone che rientrano sotto questa maledizione: i ricchi e le persone religiose.
Il ricco lo troviamo nel Vangelo di Luca nell'episodio conosciuto come “il povero Lazzaro” (Lc 16,19-31). In questa parabola il ricco non viene condannato perché è malvagio, perché si comporta male nei confronti del povero, ma semplicemente perché lo ignora.
La descrizione che Luca fa del ricco è straordinaria dal punto di vista psicologico; dice: c'era un uomo molto ricco che vestiva di porpora e bisso (oggi potremmo tradurre in maniera molto più comprensibile: vestiva firmato dal capo ai piedi) e tutti i giorni banchettava lautamente. Quindi il ricco è il vero povero e la povertà interiore ha bisogno di essere mascherata con il lusso esteriore e l’abbondanza.
Questo ricco non si comporta male nei confronti di Lazzaro, non lo fa picchiare, semplicemente lo ignora. Se ne ricorda soltanto quando è nel regno della morte8. Ma i ricchi non cambiano mai; dirà ad Abramo “mandalo”, continuando la propria abitudine al comando: si accorge dell'esistenza di Lazzaro soltanto per i propri bisogni. Abramo dice che non si può.
Il ricco è tale perché è egoista, se non fosse egoista, non sarebbe ricco, se fosse generoso non sarebbe più ricco.
L'ultimo favore che chiede ad Abramo: mandalo a casa mia dai miei fratelli... Continua a  pensare soltanto a se stesso: non dice mandalo al popolo a dire cosa succede a chi vive per sé, no, mandalo a casa mia, ai miei fratelli. Il ricco è colui che cade sotto questa maledizione non perché si comporta in maniera malvagia nei confronti degli affamati, dei poveri, ma semplicemente perché li ignora. Non sono nel suo orizzonte.
Gesù è molto categorico: nel suo regno non c'è posto per i ricchi, ma solo per i signori. C’è differenza fra il ricco e il signore: il ricco è colui che ha, il signore è colui che dà. Signori possiamo esserlo tutti, perché tutti possiamo dare qualcosa, magari un sorriso. Il ricco no, il ricco è quello che ha e trattiene per sé. Nella categoria dei maledetti ci sono i ricchi, quelli che vivono e accumulano per sé.
L'altra categoria, ancora più tragica, sono le persone religiose cioè quelle persone per le quali gli obblighi nei confronti di Dio vengono prima e sono più importanti del bene dell'uomo9.
Quando si ci trova nella vita di fronte a un dilemma, di fronte a un conflitto, come ad esempio: cos'è più importante osservare le leggi di Dio o fare del bene all'altro, le persone religiose non hanno dubbi: è più importante l'onore e il rispetto di Dio10.
Gesù invece mette sempre al primo posto il bene dell'uomo. Non c'è altro valore, non c'è legge, non c'è dottrina che sia più importante del bene dell'uomo. Questa è la novità portata da Gesù. E naturalmente, è stato attaccato: a un dottore della legge (Lc 10,25-37) che si sente coplito da questa novità e vuole sapere chi è il prossimo, Gesù gli racconta la parabola chiamata del buon samaritano: c'era un uomo, scendeva per la strada che conduce a Gerico, capita in un'imboscata, lo massacrano di botte, lo rapinano e lo lasciano moribondo; in quelle condizioni la morte è sicura. Ed ecco, arriva un sacerdote che scendeva per quella strada. Il fatto che scendeva, significa che era stato al tempio, era stato a contatto con il Signore, era pienamente puro. Lo vede e passa dall’altra parte. Perché? Perché la Legge dice che tu, sacerdote, non poi avvicinare un ferito, perché se per caso anche una sola goccia di sangue ti sporca le mani tu sei impuro. Qui c'è un sacerdote che è stato una settimana in servizio a Gerusalemme, ha fatto tutte le abluzioni, le purificazioni, è puro. E lui si trova di fronte al dilemma: cosa debbo fare? E’ più importante osservare la legge di Dio, o il precetto dell'amore del prossimo? E decide che  è più importante il precetto dell'amore di Dio. Il prossimo lo ricorderò nelle preghiere, come fanno certe persone pie e religiose quando chiedete loro un favore, in qualsiasi situazione difficile vi troviate, queste sono quelle che vi dicono: che vi ricorderò nelle preghiere, con il risultato che tu stai peggio di prima.
Onorando l'uomo si onora Dio, spesso onorando Dio, si disonora l'uomo.
“…Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli,…”
Qui occorre fare attenzione, perché veniamo da tradizioni che, allontanatesi dal Vangelo, hanno distorto i significati delle frasi del vangelo11.
Se voi buttate qualcosa nel fuoco questa cosa si distrugge, il fuoco la consuma tutta. Il fuoco nella Bibbia è il simbolo della distruzione totale; se poi questo fuoco arde per sempre, è un fuoco che distrugge tutto.
Il fuoco perenne nel quale vengono gettate queste persone, non è un castigo a dei viventi, ma è l'inceneritore per persone che sono già morte. Il fuoco perenne rimanda alla Gheenna: una valle che c'è ancora a Gerusalemme, è un burrone che veniva usato come inceneritore, come discarica di rifiuti.
Gesù più volte ammonisce: se non cambiate la vita, guardate che finite là, cioè quando morite, andate nell'immondizia, nell'inceneritore, nella distruzione totale. Quindi il fuoco perenne significa l'annientamento totale, la distruzione totale.
Secondo la tradizione ebraica i malvagi finivano in questo immondezzaio per 12 mesi e poi venivano completamente distrutti, completamente annientati.
Il fuoco perenne, preparato per il diavolo e per i suoi inviati, per i suoi messaggeri: è l'ultima volta che appare il diavolo nel vangelo di Matteo, per la sua definitiva sconfitta; il diavolo è stato definitivamente sconfitto da Gesù. Qui il diavolo va a finire nel fuoco perenne cioè nella distruzione totale. Non c'è più posto per il diavolo nella vita, nel mondo dei credenti in Gesù. Tutti gli evangelisti hanno questa immagine.
Qui Matteo, con un’immagine ancora più radicale, dice che il diavolo viene cacciato nel fuoco perenne, che, ripeto, non indica un supplizio ultraterreno, ma l'annientamento totale.
L’annientamento totale è quello che nel NT si chiama la morte seconda (Ap 21,8). Vediamo cos’è questa morte seconda: gli evangelisti per indicare la vita adoperano due termini greci: uno è bios, (adoperiamo tutti la parola biologo); bios significa una vita che ha un inizio, ha un massimo sviluppo, poi comincia il suo declino fino alla fine. L'altro termine che adoperano i evangelisti per indicare vita è zoe; questo termine da qualche decennio sappiamo che indica la vita intellettiva, di relazione, una vita prossima a quella divina che ha un inizio, ma non ha una fine.
Nell'esistenza di noi tutti c'è una crescita armoniosa della parte biologica e della parte divina in noi fino al massimo sviluppo; poi, purtroppo, incomincia nella nostra esistenza l'inevitabile lento declino che ci porta al disfacimento. Ci dispiace a tutti, cerchiamo di tenerci in forma ma è inevitabile per quanti lifting possiamo fare, fa parte della sfera biologica che dopo il massimo sviluppo, va fino alla distruzione.
Nel momento in cui comincia a declinare, l'altra vita, quella divina, continua a crescere. San Paolo ha una bellissima espressione in una delle sue lettere dice: “anche se il nostro corpo esteriore si fa disfacendo quello interiore si rinvigorisce di giorno in giorno” (2Car 4,16).
C'è una prima morte alla quale tutti andremo incontro, è la morte biologica ma noi, ci assicura Gesù, non ce ne accorgeremo, continueremo a vivere in Dio. Il rischio è, che quando arriva la morte biologica, trova un corpo svuotato dell'altra vita. Non c'è la zoe, la vita divina. Questa è la morte definitiva della persona, è l'annientamento totale della persona, era un progetto di vita che è stato abortito.
Vediamo come si è espresso Gesù.
Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?
Notate come queste persone sono rudi. Queste persone spicce riassumono tutto: quando ti abbiamo visto affamato, assettato, nudo, ammalato o in carcere - e attenzione alla spia - e non ti abbiamo servito? Ecco quale è stato il motivo: loro hanno servito il loro dio e, se avessero visto Gesù, lo avrebbero servito. Avrebbero fatto un servizio inutile, perché Gesù ha detto: “…io non sono venuto per essere servito ma per servire…” (Mt 20,28).
Noi non dobbiamo servire Gesù, non dobbiamo servire Dio, ma come Dio e come Gesù dobbiamo metterci a servizio degli altri. Questi hanno servito un dio, ma non hanno servito i fratelli; tutti presi dalle cose divine si sono dimenticati delle cose umane. Ecco la denuncia che fa l'evangelista.
Ma egli risponderà: "In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l'avete fatto a me». E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».
Il contrario di quello che Gesù aveva detto ai giusti È l'unica volta che nel Vangelo di Matteo appare il termine “punizione” che deriva dal verbo “mutilare‟.
Non è una punizione ultraterrena: non vuol dire: adesso siete morti, adesso vi aspetta un'eternità di punizione. E’ invece il fallimento totale dell'esistenza, hanno mutilato la loro vita, chi non vive amando gli altri mutila la propria vita, rinuncia alla propria vita; se quelli che hanno amato gli altri hanno come effetto una vita eterna, una vita per sempre, gli altri sprofondano nella morte per sempre, per cui Gesù qui non sta parlando di un castigo dopo la morte, ma la constatazione tragica, tremenda del fallimento dell'esistenza.
Quando è arrivata la morte biologica non ha trovato niente, è la mutilazione, era un progetto di vita che invece si è mutilato completamente. E’ quella che, come abbiamo visto, si chiama la morte seconda12: se ne andranno questi alla punizione eterna, ma i giusti alla vita eterna. Per Gesù il giusto non è colui che è fedele alla legge, ma è fedele all’uomo, al bene dell’uomo. Questi sono i giusti del vangelo: questi se ne andranno alla vita eterna; vita eterna significa una vita indistruttibile che continua per sempre.

Detto questo, una sottolineatura. Questo messaggio non è per la comunità cristiana. Questo messaggio è per quelli che non hanno conosciuto il Signore, per quanti non ne hanno mai sentito parlare. Per questi Gesù usa questa parabola.
Ma per i credenti la vita eterna non comincia dopo la morte; per i credenti che hanno accolto Gesù, e con lui e come lui hanno orientato la propria vita al servizio degli altri, la vita eterna incomincia qui in questa esistenza.
Mai Gesù, quando parla ai suoi discepoli, parla di vita eterna usando verbi al futuro. Non dice: credi e avrai la vita eterna, ama e avrai la vita eterna, ma chi crede ha la vita eterna, chi ama ha già la vita eterna.
Gesù dice: se oggi decidete di orientare la vostra vita per il bene degli altri, già oggi stesso, in voi sgorga una nuova vita che assomiglia a quella di Dio, è divina, una vita che vi permetterà quando incontrerete il momento della morte, di superarla e di vivere per sempre.
Questo fa comprendere perchè il messaggio di Gesù si chiama la buona notizia.

Note: 1. Questo tipo di distinzione non è presente negli altri tre vangeli canonici (e, per quanto io abbia potuto verificare, nemmeno negli apocrifi) ed è quindi una caratteristica specifica del pensiero della comunità giudeo-cristiana di Matteo. – 2. Onde evitare malintesi, sottolineo che qui non si parla del ritorno escatologico di Cristo, della parusia. L’idea della seconda venuta di Cristo non è presente in maniera esplicita nel NT e il versetto Gv 14,3, che, ad una lettura superficiale, sembra annunziarla, può più propriamente essere inteso in modo simbolico. Solo con l’interpretazione molto personale di Giustino si inizia a parlare di “ritorno” di Cristo. Giustino martire (Flavia Neapolis, 100 – Roma 162) è stato un filosofo palestinese fortemente influenzato dalla filosofia greca e platonica in particolare. Flavia Neapolis, la sua città natale, era il nome romano dell'attuale Nablus. La Chiesa cattolica lo venera come santo e lo annovera tra i Padri della Chiesa; i suoi due più famosi scritti Prima Apologia dei Cristiani e Seconda Apologia dei Cristiani ne fanno uno dei primi difensori del pensiero cristiano. Viene venerato come santo anche dalla Chiesa ortodossa. – 3. Perché, come vedremo più avanti, si trova alla presenza dei gentili. – 4. Pietro aveva annunciato ai pagani che se si fossero convertiti e battezzati lo Spirito Santo sarebbe sceso su di essi… e lo Spirito scende sui pagani senza che si siano convertiti o passati attraverso il rito del battesimo…(At 10,1-33). E Pietro, da questa esperienza sconvolgente, comprende una profonda e importante verità di fede: “Dio mi ha insegnato che non c'è neanche un uomo che possa essere considerato impuro”(At 10,28b). – 5. L’insieme degli eletti, in greco, è espresso da una parola che in italiano suona “il clero”. – 6. La parola è maschile, non femminile come la traduzione CEI. E’ evidente che il traduttore non conosce il mondo della pastorizia, né si è informato prima di tradurre. – 7. Nel testo CEI il vocabolo è stato tradotto con “cattivi” sottintendendo una connotazione morale. La traduzione corretta è “marci”. – 8. Si ricorda che l’episodio di Lazzaro in Luca fa riferimento alla concezione farisaica della retribuzione post-mortem, con un periodo di 12 mesi di sofferenze diversificate in trimestri (fuoco, gelo, prurito e insetti) seguite dalla distruzione totale della persona e dalla scomparsa anche nel ricordo dei vivi. Al contrario il giusto proseguiva la sua vita nel “seno di Abramo”. – 9. Purtroppo, e questo lo dico con profonda tristezza, i precetti costruiti lungo tutti i secoli dalla teologia cattolica risultano conformi a questa visione. La conversione a Cristo della Chiesa cattolica è la grande speranza del mondo. – 10. Gesù ha sempre condannato questo comportamento; per esempio nel passo Mc 3,1-6, che, per essere correttamente inteso, richiede la conoscenza che nel centro delle sinagoghe era presente un palo o treppiede con appesi i rotoli della Legge. – 11. Gli studiosi (storici delle religioni e sociologi) danno una spiegazione “strategica” della costruzione teologica dell’Inferno. Dopo l’Editto di Costantino (313 d.C.) si ha una liberalizzazione delle attività di pensiero e di culto del cristianesimo. Però nelle regioni rurali, ove risiede una quantità enorme della popolazione imperiale, l’attaccamento ai culti pagani risulta tenace. Per scalzare la resistenza del paganesimo, (religione mondana aperta, per via delle influenze orientali, ai riti orgiastici), occorre aprire la mentalità popolare sull’orizzonte dell’aldilà. E’ così che dal IV al VI secolo la concezione cristiana dell’aldilà assume una forma suggestiva e, nello stesso tempo, terrificante. La suggestione è legata al paradiso, che, presentato alle persone colte come un luogo risplendente di fulgida luce e della visione beatifica di Dio, diventa per il popolo una regione sublime, dove l’aria è infinitamente dolce e la primavera eterna. Ma il fascino del paradiso non basta. Per scongiurare la tendenza dell’uomo al peccato, occorre definire in termini più incisivi e drammatici il destino che spetta a coloro che muoiono peccatori. E’ in questo periodo che si definisce la teologia dell’inferno, universo materiale ed eterno le cui componenti essenziali sono il verme e il fuoco.  La tradizione cristiana, destinata a crescere nel corso del tempo, costruisce un enorme edificio infernale su fragili basi scritturistiche, quasi inesistenti, e che diventa un’arma pastorale di grande rilievo. Complementarmente alla teologia dell’inferno, cresce anche e si diffonde la teologia del demonio. Maestro di nequizie, il demonio diventa l’avversario dell’uomo, la causa e l’origine di ogni suo male e della sua perdizione. La teologia demonologica identifica negli dei pagani i rappresentanti del demonio. Sono essi, impotenti a dare la felicità, a tentare l’uomo per mantenerlo nell’idolatria, il peggiore peccato contro l’unico Dio. E’ questa l’arma terrificante che, lentamente, incide sulla mentalità popolare e la rende cristiana. E’ il terrore, insomma, e non l’amore di Dio che estirpa le radici del paganesimo. La maggiore arma pubblicitaria dell’inferno e del purgatorio (che iniziava il suo percorso pastorale in quegli anni e che lo culminerà nel Concilio di Trento) sarà Dante Alighieri con la Divina Commedia, anche se il poeta la scrisse come simbolo della vita dell’uomo, carnale all’inizio, dubitante nell’età di mezzo, adorante in quella matura. – 12. Anche al di fuori del NT si parla di morte seconda, infatti S. Francesco, nel suo Cantico delle creature, scrive:
Laudato si' mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullu homo vivente po' skappare:
guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;
beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,
ka la morte secunda no 'l farrà male.”
L’ultimo versetto è poi andato in disuso perché era in contrasto con la teologia tommasea che si andava affermando in quel periodo.

lunedì 27 ottobre 2014

Tutti i Santi



Tutti i Santi – Mt 5,1-12a
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». 

Fare l’esegesi di questo brano richiederebbe la scrittura di un libro, tanto numerosi sono i concetti e le sorprese nascoste in queste poche frasi. Qui c’è tutto il cristianesimo, quello vero, libero da dogmi e norme di diritto che lo hanno snaturato nello sviluppo lungo i secoli. Questa è davvero la voce di Dio.
Per contenere lo scritto in poche pagine, esaminiamo la prima beatitudine; tenete presente che le altre beatitudini sono sostanzialmente sviluppi e ampliamenti della prima.

“Gesù salì su il monte e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli". Questo monte è fondamentale, perché è la condizione per poter sperimentare Gesù resuscitato.
Gli evangelisti non adoperano nemmeno una parola a caso: in questo passo anziché scrivere il termine "popolo", che in bocca agli ebrei ha il significato di "popolo eletto", l'evangelista scrive le "folle", che è un termine che riguarda tutti, sia il popolo di Israele, sia i pagani. Matteo è ebreo, ma ha una capacità non comune di guardare al di là del muro di casa in contrasto con quella che era la culrura prevalente della sua epoca.
Per Gesù non esiste più un popolo eletto da Dio, perché ogni preminenza di un popolo fa scaturire un desiderio di dominio, di supremazia, di razzismo e di violenza. Niente è più nefasto di quando un popolo si considera eletto, superiore agli altri e investito di una missione particolare, perché da questo scaturisce sempre la violenza.
"Vedendo le folle, Gesù salì sul monte". In queste righe può sembrare che Gesù, vedendo le folle, se ne voglia allontanare salendo sul monte, ma non è così. L'unica altra volta che viene usata questa espressione "vedendo le folle" è nel capitolo 9 di Matteo, quando l'evangelista scrive: "Vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore"(Mt 9,36).
La salita di Gesù sul monte è anch'essa espressione di questa compassione per il popolo, dal quale Gesù non si allontana, ma a cui si rivolge invitandolo ad entrare nel regno di Dio, abbandonando definitivamente la condizione di pecore perdute1 per entrare nella condizione dei beati2.
Scrive l'evangelista: "salì sul monte". Questa espressione non intende una località geografica, ma allude a due monti principali nella storia di Israele: il monte Sinai, dove Dio diede a Mosè le sue leggi (Es 31,18), per cui l’evangelista invita a pensare che il monte delle beatitudini sostituisca d’ora in poi il monte Sinai, ed il monte Sion, il luogo dove risiedeva il tempio e la gloria di Dio. Il Dio di Gesù non si manifesta più in un tempio, ma attraverso la messa in pratica delle beatitudini da parte nostra.
"Prendendo allora la parola, insegnava loro dicendo: Beati i poveri in spirito, perché di questi è il regno dei cieli".
Questa è la prima delle beatitudini ed è la più importante, perché poi tutte le altre beatitudini sono la conseguenza della prima.
C'è, purtroppo, la convinzione che Gesù abbia detto "Beati i poveri"! Gesù non ha mai detto che i poveri sono beati; i poveri sono disgraziati ed è compito della comunità dei credenti toglierli dalla condizione di povertà.
Le religioni sono state definite oppio dei popoli, ed in particolare questa accusa è stata rivolta al cattolicesimo, spesso con ragione. L'oppio è una sostanza che addormenta e rende inattiva la gente: in passato, per ignoranza e, purtroppo, anche per interesse, ai poveri è stato fatto questo insegnamento: siete i prediletti dei Signore, siete i preferiti del Signore, il Signore vi considera beati, perché andrete in paradiso, per cui state tranquilli e contenti nel vostro stato.
Gesù, nel Vangelo di Matteo, dice "beati i poveri in spirito"; solo nel Vangelo di Luca, che ha anch'esso le beatitudini, Gesù dice "beati voi poveri", ma in quel caso si rivolge unicamente ai discepoli che già hanno abbandonato tutto e, da poveri, lo hanno seguito.
Qui è importante comprendere cosa significa "in spirito". Al termine "in spirito" si possono dare tre significati.
Il primo, "poveri di spirito" intendendo le persone che hanno dei problemi mentali o delle difficoltà di relazione oppure di apprendimento; sinceramente è molto difficile che Gesù abbia beatificato questa categoria, specialmente in questo discorso che assume il significato del nuovo decalogo; sicuramente le persone in difficoltà non vanno emarginate, anzi sarà compito della comunità cristiana soccorrerle e confortarle, ma è un significato così riduttivo, che non può essere stata questa l’intenzione di Gesù.
Può poi significare "poveri nello spirito" e questa, naturalmente, è stata l'interpretazione che ha avuto più successo negli anni passati. Sono coloro che pur possedendo tante ricchezze ne sono spiritualmente distaccati. A convalida di questa interpretazione, non potendo prendere nessun esempio di un ricco buono nel Nuovo Testamento, si è dovuti andar in cerca di modelli nell'Antico Testamento, come Abramo, Giobbe o Salomone.
Ma dal contesto del Vangelo di Matteo e del discorso della montagna si vedrà che non si può essere "poveri nello spirito" senza essere materialmente poveri. Gesù non si accontenta di chiedere al ricco, invitato a seguirlo, un distacco spirituale dalle sue ricchezze, ma dice "va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri"(Mt 19,21) e continua: "difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago3, che un ricco entri nel regno dei cieli"(Mt 19,23-24).
Ci sono soltanto due uomini ricchi nei Vangeli: uno è Giuseppe di Arimatea, che essendo considerato "discepolo di Gesù"(Mt 27,57) deve aver certamente lasciato i suoi beni, perché Gesù ha detto "chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo"(Lc 14,33) e l'altro è Zaccheo.
Zaccheo è descritto, nel Vangelo di Luca (Lc 19,1-10), come "piccolo di statura". Anche in questo caso l'evangelista non è andato con il metro a misurarne l'altezza, ma ci vuol dire che Zaccheo, poiché è ricco, non è all'altezza di vedere Gesù. Il ricco vive ad un livello tale che non è quello degli "alti", ma per l'evangelista è quello dei "bassi" che non possono vedere Gesù. Zaccheo vedrà Gesù quando deciderà di sbarazzarsi delle sue ricchezze e di restituire quattro volte tanto a quanti aveva imbrogliato.
Perciò l'unica interpretazione possibile è "poveri per lo spirito".
Per Gesù il metro per valutare la grandezza della persona sta nella sua generosità. Se la persona è generosa, vale ed è splendida; se la persona non è generosa, può essere la più pia, la più devota di questo mondo, recitare tutte le preghiere del mondo, ma agli occhi di Gesù non vale niente. Per questo Gesù invita tutti i credenti a fare un passaggio dalla categoria di "ricchi" alla categoria di "signori".
Nei Vangeli c'è differenza tra questi due termini. Il ricco è colui che ha, il signore è colui che dà. Questo è il passaggio che Gesù ci vuol portare a fare: da ricchi - coloro che hanno e tengono per sé - diventare signori come lui stesso, ossia persone che danno agli altri quello che hanno. Quindi, non è un invito a una diminuzione dell'individuo, ma a una pienezza dell'individuo e questo va sottolineato, perché c'è quasi paura ad accogliere il messaggio di Gesù, che sembra quasi una trappola che ci voglia togliere qualcosa.
No, Gesù non ci vuole togliere qualcosa, ma vuole consentire all'uomo di arrivare alla pienezza, ad essere, come Lui, signore. Per questo, nel discorso della montagna, c'è la prima beatitudine che racchiude e riassume tutto l'insegnamento.
Se il cristianesimo, malinteso, è stato denunciato come oppio dei popoli, il messaggio di Gesù, se ben interpretato, è l'adrenalina dei popoli, perché causa una rivoluzione nel comportamento, in quanto ogni credente si impegna ad eliminare le cause della povertà.
Diceva un grande dei nostri tempi, il vescovo brasiliano monsignor Edel Camara: "Se io mi occupo dei poveri, subito dicono che sono un santo, ma quando indago sulle cause della loro povertà, mi danno del comunista". Ecco cosa siamo chiamati a fare: naturalmente occuparci dei poveri, ma soprattutto eliminare le cause che provocano la povertà.
Diceva uno dei primi Padri della Chiesa, Giustino: "Colui che ama il prossimo deve dunque pregare e darsi da fare perché il suo prossimo abbia le stesse cose che ha lui". Ecco la scelta della povertà!
Gesù non ci chiede di spogliarci, non ci chiede di andare ad aggiungerci ai tanti, troppi poveri che già l'umanità produce. Non è questo il messaggio di Gesù; Gesù ci chiede di vestire chi non ha di che vestirsi e, se siamo onesti e coscienti, possiamo ben vestire tante altre persone senza bisogno di andare noi in giro nudi o mendicanti. Quindi, non si tratta di togliere quello che si possiede, ma di consentire che anche gli altri lo possano avere.
Questa interpretazione era comune nei primi tempi della Chiesa; poi, per tutte le traversie storiche e politiche che la Chiesa ha avuto, è stata abbandonata, ma i primi Padri della Chiesa hanno compreso benissimo, specialmente quelli di lingua greca, che Gesù non elogiava la povertà, ma invitava a eliminare le cause della povertà.
C'è uno dei primi Padri della Chiesa, Clemente da Alessandria, che dice chiaramente: non è detto "beati i poveri", ma "beati coloro che hanno voluto diventare poveri a causa della giustizia". Il termine "povertà", che va spiegato, non significa "miseria", ma disponibilità a condividere generosamente quello che si ha e quello che si è, con chi non ha e con chi non è.
Un altro grande Padre della Chiesa, Basilio di Cesarea, scrive: "Questi poveri di spirito non sono diventati poveri per nessun'altra ragione che l'insegnamento del Signore che ha detto va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri". Infine, anche Cromazio d'Aquilea, Padre della Chiesa di lingua latina, lo ha compreso: "Non ogni povertà è beata, perché spesso è conseguenza della necessità; beata dunque la povertà spirituale... di coloro che rinunciano ai beni del mondo ed elargiscono spontaneamente le proprie sostanze".
Ecco quindi il significato vero di cosa dice Gesù: coloro che volontariamente, per amore (questo significa per lo spirito), decidono di condividere generosamente quello che hanno, sono beati, perché di questi (e non di altri) si occupa Dio.

Rimane ancora da comprendere la frase “perché di questi è il regno dei cieli".
Non conoscendo questa espressione, perché usata unicamente da Matteo (mentre tutti gli altri evangelisti parlano di "regno di Dio"), si era sempre pensato all'aldilà. Per cui la spiegazione che veniva data era: i poveri vanno in paradiso! Ma l'espressione "regno dei cieli" non indica mai l'aldilà.
Gli ebrei evitano, tutte le volte che possono, di nominare Dio e di scrivere il nome di Dio, usando dei sostituti, quindi, "regno dei cieli" non significa il regno dell'aldilà, ma è un'espressione ebraica che significa "costoro hanno Dio per re"; cioè, la scelta coraggiosa di condividere quello che si ha e quello che si è con gli altri non porta nessuna conseguenza negativa, perché di questi si occupa Dio, di questi e non di altri.
La scelta volontaria della povertà causa immediatamente l'intervento di Dio; non è una scelta per il futuro - "avranno Dio per re" o "di essi sarà il regno dei cieli" -, ma questo avviene nel momento preciso in cui ci impegniamo a condividere generosamente.
La generosità è una caratteristica che tutti possono avere, meno i ricchi. Il ricco è tale perché non è generoso: se fosse generoso, non sarebbe ricco.
Per tornare ad un'altra bellissima immagine, Basilio, Padre della Chiesa, paragona la ricchezza a un fiume. Il fiume, la ricchezza, è valido soltanto se fluisce e irriga e comunica vita, ma se il fiume si ferma l'acqua stagna e va in putrefazione. Quindi la ricchezza, quando viene trattenuta per sé, produce effetti mortali; quando invece viene elargita produce la vita.
A questo punto permettete una piccola parentesi. Quando si parla di intervento di Dio, e io ci credo fermamente, di presenza di Dio, di assistenza da parte di Dio, non significa un Dio Babbo Natale o Fata dai capelli turchini con la bacchetta magica, che risolve le situazioni della vita. La presenza di Dio nella nostra esistenza non toglie le difficoltà a volte tragiche e dolorose che la vita ci presenta, ma ci dà una maniera nuova per viverle e per affrontarle.
Questa prima beatitudine corrisponde al primo comandamento della legge di Mosè: "Non avrai altri dèi di fronte a me"(Es 20,3). La divinità che il popolo è tentato di adorare è il dio Mammona, la ricchezza, il profitto.
Tutte le altre sette beatitudini sono soltanto una conseguenza di questa prima beatitudine, che potremmo semplificare in questo modo: occupatevi del bene, della felicità e del benessere degli altri, perché così finalmente permetterete al Padre di occuparsi della vostra felicità. E il cambio è vantaggioso.

Note: 1. Cioè coloro che seguono i tanti pastori, o sedicenti pastori, o che si presumono tali. - 2. Cioè coloro che, guardandosi intorno, sanno distinguere i falsi pastori e riconoscono in Gesù l'unico pastore. – 3. La cruna dell’ago era una piccola apertura nelle mura di una città, generalmente a lato di una delle porte, attraverso la quale passavano coloro che volevano entrare in città dopo l’ora di chiusura delle porte. L’apertura, con una larghezza inferiore alla larghezza delle spalle di un uomo, costringeva, per entrare, a procedere di lato ritraendo l’addome, e quindi si era del tutto inermi nei confronti delle guardie poste a difesa della porta. Nell’attraversamento si era impediti da un’eventuale obesità, caratteristica specifica dei ricchi che erano gli unici a potersi permettere di mangiare in abbondanza a quei tempi.