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Le esegesi riportate in questo blog non sono frutto delle mie capacità, in realtà molto modeste. Le ricavo leggendo diversi testi dei più importanti specialisti a livello mondiale, generalmente cattolici, ma non disdegno di verificare anche l’operato di esegeti protestanti, in particolare anglicani. Se si escludono alcuni miei approfondimenti specifici, per la parte tecnica dell’analisi critica il mio testo di riferimento è questo:

- Giovanni Leonardi
, Per saper fare esegesi nella Chiesa, 2007 Ed. Elledici (testo promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale). Questo testo è molto semplice, veramente alla portata di tutti; per migliorare la capacità di analisi deve essere affiancato da altri due testi per la parte linguistica, anch’essi a livello divulgativo:

- Filippo Serafini,
Corso di greco del nuovo testamento, 2003 Ed. San Paolo.
- Luciana Pepi, Filippo Serafini,
Corso di ebraico biblico, 2006 Ed. San Paolo (da usare solo nel caso si voglia approfondire l’etimologia semitica sottesa ai vocaboli greci).

I testi della Bibbia in lingua originale sono pubblicati da varie case editrici; in particolare per i Vangeli segnalo l'ottimo testo della Edizioni Enaudi e quello sinottico della Edizioni Messagero in quanto hanno i testi greco ed italiano a fronte. Si trovano anche in vari siti in rete, ma non sempre sono testi aggiornati con le ultime scoperte a livello archeologico o paleografico.
Per la parte sostanziale normalmente faccio riferimento a documenti prodotti dalle fonti seguenti, che riporto in ordine decrescente di frequenza di utilizzo:

- École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), retto dai Domenicani e dove ha lavorato anche il Card. Martini.
- Centro Studi Biblici “G. Vannucci” – Montefano (An), retto dall’Ordine dei Servi di Maria.
- Sito www.Nicodemo.net gestito da P. Alessandro Sacchi.
- Università degli studi di Torino – Corso di Letteratura cristiana antica – Prof.essa Clementina Mazzucco.
- Fr. Dante Androli, OSM, docente di esegesi alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum – Roma
- Università degli studi La Sapienza di Roma – Corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Prof.essa Emanuela Prinzivalli.
- Biblia, Associazione laica di cultura biblica – Settimello (Fi)


lunedì 8 aprile 2013


Domenica 14 aprile 2013 – Terza Domenica di Pasqua
Gv 21,1-19
Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla.
Quando già era l'alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po' del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti.
Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».
[Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?».
Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: «Signore, che cosa sarà di lui?». Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi». Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa?».]1

L'ultimo capitolo del vangelo di Giovanni(2) fa seguito al racconto delle apparizioni di Gesù ai discepoli nel Cenacolo (cfr. Gv 20), al termine del quale l'autore aveva posto una breve conclusione. Sembrava quindi che il vangelo fosse terminato. Invece viene riportato il racconto di un'ulteriore apparizione, questa volta non più a Gerusalemme ma in Galilea. Esso proviene da un antico frammento della tradizione giovannea, dotato di alcune caratteristiche proprie, che è stato collocato in questo punto dell'opera al momento della sua redazione finale, a cavallo tra il I ed il II secolo dopo Cristo.
Il testo ha un significato fortemente simbolico e riprende l'antica tradizione, attestata dai sinottici, secondo cui le apparizioni del Risorto hanno avuto luogo in Galilea (cfr. Mc 16,7; Mt 28,7.16). Si noti come la scena della pesca straordinaria trovi un parallelo in Luca (cfr. Lc 5,1-11), dove fa da sfondo alla vocazione dei primi discepoli.
Al termine il redattore finale ha posto una seconda conclusione del libro che ha un profondo significato e che quindi riporto e commento nonostante che il liturgista non la prenda in considerazione.

"Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade." Con questa frase Giovanni intende raccordare questo episodio con le apparizioni narrate precedentemente, mostrando come esso ne rappresenti il normale sviluppo: nel v. 14 dirà che si tratta della terza apparizione. Da notare che il verbo greco phaneroô usato da Giovanni indica una manifestazione trascendente: in Gesù risorto è Dio stesso che si manifesta.
"E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla." L'evento ha luogo sul "mare di Tiberiade", altrove chiamato Genesaret ed è pervaso da un senso di vuoto. I discepoli si riuniscono ma non hanno più la guida, non sanno cosa fare. Per tentare di riempire questo vuoto sei dei discepoli si recano con Pietro a pescare. Essi pescano tutta la notte, ma senza risultato. La notte è simbolo dell'assenza di Gesù, luce del mondo: per questo il risultato della pesca è nullo.
"Quando già era l'alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No»."
Gesù si rivolge a loro con l'appellativo affettuoso di ragazzini (paidia) qui tradotto con figlioli che non rende del tutto il senso dell'affettuosità della parola di Gesù(3); chiede se hanno qualcosa da mangiare. Sembra un modo come un altro per attaccare discorso, ma nella cultura ebraica il mangiare insieme è il simbolo della comunità, un modo intimo di scambiarsi vita, esattamente quello di cui hanno bisogno i discepoli.
"Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci."
Sentendo che non avevano preso nulla, dice loro di gettare la rete, indicando di farlo sul lato destro dell'imbarcazione: questa indicazione di luogo, assente nella versione lucana dell'episodio, serve per sottolineare come la pesca abbondante non è frutto di casualità, ma dell'intervento di Gesù, che ha indicato lui stesso dove gettare le reti. Essi obbediscono e la rete si riempie di pesci, senza per questo spezzarsi.
"Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri."
Il discepolo che Gesù amava non è Giovanni, o meglio, non è solo Giovanni: come tutti i personaggi senza nome dei vangeli, esso rappresenta tutte le persone che vengono a trovarsi in situazioni simili, quindi rappresenta tutti i discepoli passati, presenti e futuri di Gesù. Simon Pietro, al riconoscimento, non attende che la barca accosti alla riva e si butta impetuosamente a nuoto, mentre i discepoli sulla barca cercano di portare a riva la rete strapiena.
"Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po' del pesce che avete preso ora». Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò."
I discepoli, una volta a terra, trovano la colazione in parte pronta, occorre solo arricchirla con altro pesce. Notate il protagonismo di Simon Pietro, prima si butta in acqua perché ha fretta, poi, nonostante sulla barca ci siano cinque discepoli, è lui che va a tirare su la rete. Vedremo più avanti come questo protagonismo viene valutato da Gesù. L'evangelista non lo giudica male (lo chiama sia col nome che con il soprannome), ma nemmeno lo prende come esempio.
Il numero di pesci catturati è segno dell'universalismo della missione, in quanto sembra che esso corrisponda a quello delle specie di pesci conosciute nell'antichità(4). Nella pesca straordinaria viene simboleggiata, come nel brano parallelo di Luca, la missione conferita da Gesù ai discepoli: essi sono inviati nel mondo perché invitino tutti gli uomini ad entrare nel regno, aggregandosi alla chiesa, che ne rappresenta l'anticipazione e il nucleo originario (cfr. la parabola della rete in Mt 13,47-50); il loro successo è assicurato, purché agiscano con Gesù e seguano la sua parola (cfr. Gv 15,5b: "Senza di me non potete far nulla"). In questo contesto la grande quantità di pesci raccolti rappresenta il successo della missione. Il fatto che la rete non si rompa simboleggia infine l'unità della chiesa (cfr. la veste senza cuciture in Gv 19,24).
"Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti." La comunità è riunita intorno alla mensa che, anche se non è specificato dall'evangelista, dobbiamo considerare eucaristica; a questa comunità Gesù inizia un importante discorso e, per farlo, si rivolge a Pietro.
Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai suoi discepoli dopo essere resuscitato dai morti. Ricordo che il numero tre non va mai preso in maniera matematica, ma sempre in maniera figurata: vuol dire che Gesù si è manifestato completamente. "Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?»."
Inizia qui un racconto pieno di grande tensione, in crescendo; Gesù prende l'iniziativa perché, se Simone è testardo, Gesù è più testardo di lui. Abbiamo visto che questo discepolo è stato un disastro finché, spergiurando, lo ha tradito.
Lo chiama il figlio di Giovanni(5), è questo il motivo che lo ha portato al tradimento, perché è rimasto legato all'idea di un Messia trionfatore come l'aveva il Battista. E non era presente quando Giovanni ha capito che Gesù era l'agnello di Dio che veniva a togliere il peccato dal mondo! Pietro è rimasto discepolo di Giovanni.
"…mi ami tu più di costoro?»". Il pallino fisso di Pietro è stato quello di essere il leader, il protagonista, il portavoce, il capogruppo. Gesù gli dice: va bene, vuoi essere il portavoce, il leader di questo gruppo? Allora ti chiedo se mi ami. E qui, nel testo greco, c'è tutto un gioco di parole tra il verbo amare e il verbo voler bene. Per il verbo amare l'evangelista adopera il verbo greco 'agapaô' da cui deriva una parola che conosciamo tutti: agape, che significa un amore che si fa dono generoso e gratuito nei confronti degli altri.
Ogni volta che Gesù fa una domanda al gruppo, risponde sempre lui, lui è il solista. "Mi ami più di tutti questi?". E figuratevi se il povero Simone può rispondere: è l'unico in questo vangelo, a parte Giuda, che lo ha rinnegato. Gesù gli chiede: "che credenziali hai per essere il capogruppo, il leader: mi ami di un amore incondizionato più di tutti gli altri?". In Simone l'evangelista fotografa tutti noi, sempre furbi, sempre abili a svicolare le richieste del Signore.
"Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli»."
Attenti a quelli che rispondono "sì, Signore." Nei vangeli sono sempre quelli che fregano, meglio quelli che dicono no, ma poi lo fanno. Pietro non può dire a Gesù che lo ama e usa il verbo volere bene che in greco è 'phileô', da cui filantropia, filosofia, che significa un voler bene di amicizia, un affetto che però richiede un contraccambio, e cioè: "io voglio bene al mio amico perché anche lui ne vuole a me".
Gesù sembra accettare la risposta e lo invita a "pascere" (letteralmente "alimentare") i suoi agnelli. Tutte le volte che Gesù parlerà di agnelli e di pecore, dirà sempre: sono mie, non scordarti, tu non sei il padrone del gregge.
Ma Gesù non è soddisfatto e torna alla carica. "Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore»."
La domanda è identica alla prima, ma Gesù evita la comparazione con gli altri. Anche la risposta di Simone è identica alla precedente. Gesù accetta anche questa risposta e dice letteralmente (è un po' difficile tradurre letteralmente): "Pastura le mie pecore". Prima aveva parlato degli elementi deboli, gli agnelli, adesso degli altri elementi della comunità. Agnelli e pecore significano tutta quanta la comunità. Al posto di pascere c'è un verbo, che è difficile da usare in italiano: essere pastore, pasturare, verbo che si rifà all'attività del pastore con un particolare accento sulla cura e sulla protezione del gregge. Di conseguenza, il volere bene a Gesù si dimostra nel farsi alimento per gli altri e nel proteggere gli altri.
Ma Gesù non è ancora soddisfatto. Simone non ha risposto a quello che Gesù gli ha chiesto. "Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore."
Per due volte Gesù gli ha chiesto: Mi ami? E lui per due volte ha risposto: "Si Signore, ti voglio bene". Il povero Pietro sembra un pugile ormai suonato alle corde, è frastornato, Gesù lo ha veramente demolito con questo incontro. Per due volte gli ha chiesto se lo ama e per due volte Pietro ha risposto che gli vuole bene. Adesso, la terza volta, Gesù gli chiede: «Mi vuoi bene?» E finalmente assistiamo al crollo di Simone.
Finalmente compare il dolore(6) e crolla: era ora! Lui ha sempre ritenuto di conoscersi più di quello che il Signore sapesse di lui. Gesù aveva detto: voi tutti mi tradirete e lui: io, no! - "Signore tu sai tutto". E non può dire che lo ama, non può dire che lo ama incondizionatamente, generosamente, e dice: "Tu sai che ti voglio bene". Si ferma a questo livello, non è capace di dire che lo ama.
"Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore." La risposta di Gesù racchiude il verbo adoperato nella prima risposta, nutri, pascola e il nome della seconda, non gli agnelli ma le pecore. Questa unione riassume il compito di Pietro: procurare vita e proteggere il gregge di Gesù. Gesù non lo chiama alla funzione di pastore! Nel vangelo di Giovanni l'unico pastore è il Cristo. Quando Gesù parla di sé con quella inesatta traduzione "io sono il buon pastore", non intende una qualità morale del pastore: lui è buono e gli altri sono cattivi. Il termine che traduciamo con "buono", significa l'eccellenza. Gesù dice: io sono il pastore per eccellenza, nessun altro può esercitare questo ruolo.
Il pastore è colui che guida il suo gregge e quindi l'unica guida della comunità è Gesù, nessun altro deve prendere il suo posto. Poi ci sono discepoli che possono collaborare con Gesù in questa attività. Ecco che Gesù dice allora: fai l'erba, dai da mangiare e proteggi questo gregge. Ma l'unico pastore della comunità è Gesù.
Gesù gli fa capire che si può procurare agli altri la vita soltanto quando si è capaci di donare la propria. Donare la propria vita agli altri significa orientarla al servizio degli altri, orientarla al bene degli altri. Solo così si trasmette vita. Quanti sono dominati, come Pietro, dall'ambizione, dalla carriera, dal successo, possono vestire paramenti religiosi o liturgici importanti ma non trasmettono vita e il contrario della vita è trasmettere morte. Soltanto quando una persona orienta la propria esistenza verso il bene degli altri trasmette vita.
Per questo Gesù aggiunge ora una predizione della morte del discepolo. "In verità, in verità ti dico:…"; quando incontriamo l'espressione "in verità, in verità" specie nel vangelo di Giovanni, significa una affermazione sicura da parte di Gesù, potremmo tradurre, in termini più comprensibili per noi, "vi assicuro".
Ecco la predizione(7) della morte di Pietro: "…quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi».".
Il condannato alla crocifissione doveva portare il patibolo e poi era condotto sul luogo della esecuzione. Proprio quella croce che Pietro aveva evitato per tutta la sua esistenza ed era stata la causa del suo rinnegare Gesù, Gesù gliela mette come obiettivo finale del suo seguire. Pietro tenderà le mani sul patibolo, verrà condotto sul luogo del supplizio, ed il destino di Pietro sarà la croce come Gesù e non il successo con il Messia.
Pietro non seguiva Gesù, lo accompagnava. Nei vangeli si sottolinea la differenza tra il seguire (che vuol dire accogliere l'individuo e il suo messaggio) e l'accompagnare. Lui accompagnava Gesù, animato dai sui desideri di gloria e di predominio.
"Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio." Qui c'è una stranezza, ma è la linea dei vangeli. Sembra strano, un avvenimento come la morte (e qui si tratta di una esecuzione, di una crocifissione!) Gesù la associa alla glorificazione di Dio. Gesù qui usa l'identica espressione per indicare la sua morte in croce: "quando io sarò elevato da terra attirerò tutti a me. Questo diceva per indicare con quale morte stava per morire". La stessa morte in croce sarà la fine del discepolo, morte che non sarà il fallimento di una esistenza, ma il momento culminante dell'esistenza dell'uomo nel quale si manifesta la gloria di Dio, che si rende visibile nel momento in cui c'è il dono della propria vita per gli altri.
È la linea teologica di Giovanni, un evangelista che ubriaca i credenti, portandoli a grandi altezze. Secondo l'evangelista, ogni persona che accetta Gesù e come lui orienta la propria esistenza verso il bene degli altri, diviene l'unico vero santuario nel quale si manifesta e si irradia la gloria di Dio. Gloria significa la manifestazione visibile di ciò che è Dio. Dio non è più da cercare nel tempio, ma dove ci sono persone che volontariamente, liberamente, per amore, mettono la propria esistenza a servizio degli altri, lì si manifesta Dio.
"E, detto questo, aggiunse: «Seguimi»."
Gesù, nel vangelo di Giovanni, non invita Pietro a seguirlo quando lo incontra, perché sa cosa c'è in questo uomo. Soltanto ora che gli ha messo in chiaro che anche lui passerà per la croce - e già Gesù è passato attraverso il supplizio dei maledetti da Dio - soltanto adesso gli dice: "segui me". Adesso sai che seguire me non significa fare carriera, andare a regnare, ma significa passare attraverso l'ignominia della croce. Occorre però comprendere che, nel vangelo di Giovanni come negli altri evangelisti, Gesù non è una vittima sacrificale. L'immagine del Cristo che porta la croce nella via crucis e cade tre volte (teniamola, se proprio volete, come devozione!) non esiste: nei vangeli il Cristo crocifisso non è una vittima che viene portata al supplizio, ma è l'eroe che trionfa, che non vede l'ora, attraverso questo supplizio, di manifestare tutto l'amore di Dio per l'umanità. Non è una sconfitta, non è un patibolo, ma è un trionfo. Gesù, sulla croce, non solo non viene distrutto, ma manifesta tutto sé stesso.
"«Seguimi»." Credete che l'abbia seguito? Non per niente lo chiamavano Pietro, il Testardo. Per questo dicevo all'inizio che era opportuno riportare e commentare anche i versetti finali del capitolo.
L'evangelista qui è quasi comico: "Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?»." Gesù gli dice: segui me e lui si volta da un'altra parte! Fino all'ultimo, ma lo vedremo poi negli Atti degli Apostoli, per decenni Pietro continuerà in questo atteggiamento. Per questo penso che è una figura consolatoria: se Gesù c'è riuscito con Pietro, ci riuscirà senz'altro anche con noi.
Pietro ha sbagliato tutto, ha fallito tutto, non ne ha imbroccata una giusta. Quando l'evangelista dice: "il discepolo che Gesù amava", non è che Gesù aveva un discepolo prediletto, ma l'amore è la relazione normale di Gesù con qualunque suo discepolo. Gesù amava questo discepolo come amava Lazzaro, amava Marta, amava Maria. Non c'è il discepolo prediletto. L'unico prediletto nei vangeli è Gesù, che è il prediletto del Padre.
"Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: «Signore, che cosa sarà di lui?».".
Qui la traduzione è sinceramente un po' arzigogolata; la traduzione più semplice è «Signore, è lui?». Pietro si trova ad un bivio, ha combinato un disastro, non ne ha imbroccata una e di fronte a Gesù che gli dice: «Segui me», guarda il discepolo che non ha mai sbagliato! Dice: è lui? Cioè: voglio seguire te, però voglio camminare dietro a lui.
In maniera un po' umoristica, Pietro vuole un padre spirituale, vuole qualcuno che lo consigli esattamente su cosa, come e quando fare. Pietro, il discepolo che non è stato capace di seguire Gesù, che ha finito col rinnegarlo, vuole avere come guida spirituale il discepolo che invece gli è stato sempre fedele. Adesso che finalmente Gesù lo ha invitato a seguirlo e sa che questo itinerario finirà sulla croce, vuole seguire il discepolo, quello che – lui sì - era presso la croce. A Gesù che gli ha chiesto di seguirlo, Pietro dice: sì, ma preferisco camminare dietro l'altro.
"Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi»." La frase è un po' complessa, vediamo di spiegarla: Gesù dice a Pietro che non deve interessargli il fatto che un altro discepolo lo segue, l'importante è che Pietro segua Gesù. Quello che Gesù dice a Pietro, lo dice ad ogni credente. Gesù gli rinnova l'invito, che viene ripetuto con maggiore forza: prima gli aveva detto: "seguimi", adesso dice: "tu segui me".
Pietro non deve seguire l'altro discepolo; questa è una indicazione importante anche per la comunità cristiana: ognuno ha il suo cammino diverso da compiere, ma tutti devono seguire l'unico Gesù. Nessuno, in questo seguire Gesù, è chiamato a imitare un'altra persona per quanto santa possa essere, per quanto grande possa essere la sua fedeltà e la sua santità. Gesù sa che ognuno di noi è una realtà unica, irripetibile e nessuno deve scimmiottare un'altra persona. Ognuno deve realizzare pienamente sé stesso attraverso la sequela di Gesù. Gesù non ammette che lo si possa seguire attraverso un mediatore, un intermediario, fosse pure il discepolo modello, quello più vicino a lui. Ogni imitazione di discepoli (parliamo pure di imitazione di santi) sarebbe di ostacolo alla piena e intima comunicazione che Gesù vuole con i suoi.
Ognuno di noi deve realizzare sé stesso, non deve imitare un altro. Chi fa questo rovina la propria esistenza, perché pensa che così com'è non è gradito al Signore, l'altro invece ha dei pregi, lui solo difetti e si sforza, violenta sé stesso per essere simile all'altro. Gesù non accetta questo.
Seguire Gesù significa che ogni persona è chiamata a realizzare pienamente sé stesso, così com'è, con i propri limiti, come vediamo con Pietro, con i propri difetti. Qualunque imitazione è negativa, perché impedisce lo sviluppo della persona.

Note: 1. Questa parte del brano non è compresa nella liturgia del giorno, ma è stata aggiunta per migliorare la comprensione degli avvenimenti descritti nel brano liturgico. – 2. L'esegesi di questo brano è stata, in parte, liberamente tratta da un articolo di P. Alessandro Sacchi pubblicato su Nicodemo.net. – 3. Da notare che la parola figlioli usata dal traduttore comporta una nota paternalistica del tutto assente nelle intenzioni di Gesù che, semmai, si pone più nella posizione di un fratello che di un padre. – 4. Questo è il parere di Girolamo In Ezechielem (PL 25, 294-295): "… i quali pesci, al comando del Signore, Pietro tirò su dal lato destro: erano 153, tanto che per la loro quantità le reti minacciavano di rompersi. Coloro che hanno scritto circa la natura e le proprietà degli animali e che, sia di lingua greca sia di lingua latina, hanno studiato gli "alieutika" (fra i quali è Oppiano di Cilicia, poeta dottissimo), dicono che i generi di pesci sono 153 e che tutti furono catturati dagli apostoli, così che nulla rimase di non pescato, mentre nobili e ignobili, ricchi e poveri, e ogni genere di uomini vengono pescati dal mare di questo mondo". Anche Agostino ha provato a spiegarlo in "De Diversis Quaestionibus Oc Toginta Tribus" 57, 1-3, ma si è talmente impappinato nei calcoli che non si capisce dove è andato a parare. Cito invece una spiegazione di Enzo Bianchi che sembra più convincente: "Gesù chiede ai discepoli di portare anche il pesce che avevano preso, ed è Pietro che, riemerso dalle acque, esegue l'ordine e «trae a terra la rete piena di 153 grossi pesci» (Gv 21,11). Nella profezia sul tempio escatologico Ezechiele aveva contemplato sul lato destro del tempio acque pescose e sulle rive di En-Eglaim una distesa di reti (cf. Ez 47,1.8-10); forse nell'annotazione sui 153 pesci vi è un rimando a questo brano, perché il calcolo numerico delle lettere ebraiche che compongono il toponimo En-Eglaim, la cosiddetta ghematria, dà come risultato proprio 153. Saremmo così condotti alla visione della chiesa come tempio escatologico, della comunità cristiana come luogo della missione universale e della presenza di Dio manifestata dal Risorto. Secondo Girolamo, d'altra parte, i 153 pesci simboleggiano tutte le genti della terra, essendo questo il numero delle specie di pesci marini esistenti. In ogni caso, quella che qui viene evocata è l'universalità della missione della chiesa e l'universalità della raccolta degli uomini intorno al Risorto e alla sua comunità." – 5. Qui si intende Giovanni il Battista, del quale Pietro era discepolo. – 6. Il dolore che non era apparso al momento del triplice rinnegamento, compare qui per la prima volta. Quando Pietro ha tradito Gesù, non si parla di dolore per il tradimento, si parla di scomparsa dell'uomo. Gesù, pienamente libero, perché la libertà è interiore, di fronte ai suoi carcerieri che lo stanno per arrestare risponde: «Io sono». Io sono era il nome di Dio. Simon Pietro che è apparentemente libero, ma è legato dalle sue paure risponde: «Non sono». Gesù conferma la sua identità e dignità, Pietro perde identità e dignità. Chiamato da Gesù ad essere libero, è incapace di seguirlo e, anziché stare con Gesù, libero, sta con i servi. È chiamato ad essere libero, invece sta con i servi; chiamato a stare con Gesù, si è messo dalla parte dei suoi nemici. – 7. Questo vangelo è scritto almeno 40 anni dopo la morte di Pietro; più che una preddizione è una cronaca.