XXV Domenica del Tempo
Ordinario – Mc 9,30-37
Partiti di là, attraversavano la
Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi
discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell'uomo viene consegnato nelle mani degli
uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi
però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in
casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi
tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande.
Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia
l'ultimo di tutti e il servitore di tutti». E, preso un bambino, lo pose in
mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi
bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui
che mi ha mandato».
Il
brano di questa domenica è di complessa interpretazione anche a causa di una
non proprio felice scelta dei termini usati nella traduzione.
Gesù(1),
che si trova nella regione di Cesarea di Filippo, terra pagana, parte ed attraversa
la Galilea, ma vuole rimanere in incognito.
“Partiti di là, attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo
sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli…” Questa parte del
viaggio non deve essere conosciuta dalla gente, perché a Gesù interessa
continuare l’insegnamento ai discepoli. Il primo insegnamento è fallito, i
discepoli hanno mostrato di non volerlo ascoltare assolutamente, come ha
dimostrato l’intervento di Pietro (cfr. Mc
8,27-35). Gesù riprende di nuovo l’insegnamento ai discepoli perché è
importante la formazione del gruppo; il gruppo, infatti, dovrà proseguire la
missione dopo la morte di Gesù,
“…e diceva loro: «Il Figlio
dell'uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una
volta ucciso, dopo tre giorni(2)risorgerà»”.
Qui
abbiamo il secondo annuncio della passione, apparentemente uguale al primo,
però molto più generico: Gesù non scende in particolari del patire, o su chi siano
i responsabili della morte, anzi, non la collega nemmeno ad un popolo
particolare. Infatti Gesù sta pensando alla missione tra i pagani: come nel
popolo d’Israele ci sono i rappresentanti del potere che rifiutano il modello
di umanità che Gesù presenta, lo stesso ci saranno, in altre parti, i
rappresentanti di altri poteri. Quelli che seguono il suo cammino sappiano che
non solo all’interno della nazione di Israele, ma anche fuori di questi limiti
geografici, ci saranno altre strutture di potere, che si alzeranno contro il
modello di uomo che Gesù propone(3). Gesù adopera di nuovo
l’espressione “Figlio dell’uomo” che
qui ha un valore inclusivo: quello che riguarda Gesù è anche proponibile ai
suoi seguaci.
È
qui interessante come Gesù presenta l’annuncio. Propone, da una parte, il Figlio dell’uomo e dall’altra parte
gli “uomini”: il Figlio dell’uomo è quello che viene a dare la vita, gli “uomini” sono quelli che gliela tolgono.
C’è una opposizione radicale tra un uomo che dà la vita e certi uomini che
questa vita la disprezzano fino al punto di uccidere colui che la vuole
diffondere agli altri.
Chi
sono questi “uomini”? In maniera
generica, anonima, riguarda chiunque, nella storia, rifiuta l’amore che Gesù ha
testimoniato con la vita e soprattutto la capacità di comunicare vita agli
altri. Gesù sta indicando ai suoi discepoli, che ci saranno nella storia anche
degli “uomini” che non conoscono la
pienezza di vita, che a loro non interessa, e che non vogliono sapere nulla di
tutto questo; per loro risulta odioso, intollerabile, che ci siano persone che
annunciano l’umanità di Gesù.
Gesù
ci insegna che ci sono possibilità di superare gli ostacoli che, nella storia,
impediscono la promozione umana: non lanciando le bombe, ma fomentando la vita,
insegnando l’uguaglianza, creando rapporti di solidarietà con gli altri. Questo
sì che permette di uscire da una situazione di ignoranza e di miseria che poi
porta al fanatismo.
Questi
“uomini” non accettano quel modello
di umanità; gli “uomini”, il termine
è stato già usato nel brano esaminato la scorsa domenica: “cosa dicono gli uomini chi io sia?”. In quel caso Gesù stava
parlando in maniera generica, in questo intende qualcosa di molto più preciso: sono
i nemici dell’umanità, sono quelli che non tollerano che il messaggio di Gesù
si possa diffondere. Questo messaggio è rifiutato perché accettarlo, significa
rinunciare ai privilegi fino ad allora goduti. Sono gli oppressori degli altri,
coloro che si oppongono con la violenza alla proposta che Gesù fa.
In
questo annuncio della passione, si parla per due volte della morte, c’è come
una accentuazione da parte di Gesù: come per insistere sulla violenza che
questi uomini possono adoperare. Gesù in questa maniera sta svuotando di
significato la morte, perché, per chi ama la vita e aderisce a questo modello
di vita, la vita è un’esplosione anche nella morte.
Gesù
torna sul discorso della morte perché vuole convincere i discepoli che questa
morte non è una sconfitta; il gruppo pensa che la morte sia una sconfitta
perché con essa crollano tutti i sogni, crollano tutte le speranze, tutte le
attese di gloria.
Gesù
vuol convincere che è proprio il contrario. Se la morte è espressione massima
dell’amore, questa morte non mette fine alla vita, ma la fa rinascere con una
forza molto ma molto più grande.
“Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo”.
La
reazione dei discepoli è veramente terribile, incomprensione assoluta; non
solo, hanno timore di chiedergli spiegazioni perché non vogliono confrontarsi
con lui. Loro, come discepoli, manifestano una grande incapacità, perché il
discepolo è tale in quanto si confronta con il maestro.
Loro
hanno paura di confrontarsi perché intuiscono che con questi discorsi, con queste
parole che Gesù sta dicendo, finiscono le loro attese di restaurazione per la
loro nazione, di egemonia del loro popolo sugli altri popoli. Loro intuiscono
che stanno crollando le sicurezze che essi si sono creati,… e allora meglio non
chiedere. Continuano nella loro posizione ostinati nel loro modo di pensare,
per non crollare del tutto. Ormai si intuisce che sono vacillanti, meglio stare
zitti perché non arrivi il colpo finale, il colpo di grazia.
In
questo discorso, la preoccupazione principale dei discepoli, il fatto che
stiano zitti, che abbiano timore interrogare Gesù, non è di lavorare per il
bene degli altri – come Gesù sta chiedendo attraverso le condizioni che ha già
posto e da quello che ha insegnato ai discepoli – ma la preoccupazione dei discepoli
è come possono raggiungere la gloria della loro nazione, come possono diventare
il popolo più importante degli altri.
Per
loro, che Gesù parli che dopo tre giorni risorgerà o che c’è una vita dopo la
morte, non ha alcun senso se per loro la morte di Gesù è la fine delle loro
attese ed il crollo di tutti i loro sogni di grandezza. I discepoli dimostrano
una incomprensione assoluta e l’evangelista vuol far capire che, a questo
gruppo, non entra in testa quello che Gesù insegna: l’esistenza di una società
nuova, dove si possa veramente vivere in maniera bella con tutti.
Questo
non si può fare mai partendo dal dominio di un popolo, Israele, sugli altri
popoli, non si potrà mai creare una società nuova così, non si può attendere un
Messia dominatore perché questo non darà mai niente di buono, ma creerà altri
problemi, creerà altre sofferenze e altre ingiustizie.
L’unica
possibilità di creare qualcosa di nuovo è il prendersi tutti la responsabilità,
entrando in un rapporto di uguaglianza e di solidarietà con tutti. E’ da questo
punto di vista che Marco ci sta parlando, quando adopera l’espressione Figlio dell’uomo - Gesù Messia, espressione di un messianismo collettivo ove tutti
possiamo collaborare con lui nella creazione di una società nuova.
“Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in
casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?»”. Guarda caso, questi
non solo non hanno capito quello che Gesù ha detto e non hanno avuto il
coraggio di chiedere, ma hanno fatto un discorso per conto loro. Vedete già la
spaccatura forte tra Gesù, che è il maestro, e
il suo gruppo.
Qui
si parla di Cafarnao, il luogo dove è incominciata l’attività di Gesù e dove si
è creata la sua prima comunità. A Cafarnao c’è la casa di Gesù, dove Gesù si è
seduto a tavola con i pubblicani, con i peccatori. A questa tavola si sono
seduti anche questi discepoli provenienti dal giudaismo (possiamo immaginare la
loro altezzosità: «guarda dove ci tocca metterci a sedere oggi, proprio con
questi peccatori»); comunque sia, si sono seduti con i peccatori e con i
pubblicani (cfr. Mc 2,15) in questa
casa che rappresenta la comunità di Gesù.
Se
stiamo al testo, dal punto di vista letterale, l’evangelista dice “giunsero a Cafarnao”, cioè Gesù con i
discepoli; poi, però quando lui fu in casa, non dice che i discepoli entrarono
in casa. Certo che saranno entrati, però sono delle sottigliezze con le quali
l’evangelista vuole far comprendere che i discepoli non seguono Gesù veramente,
non si sentono appartenenti alla sua comunità, una comunità che è aperta a
tutti, dove non c’è privilegio per nessuno, dove non ci sono gerarchie.
La
motivazione che ha spinto l’evangelista a far comprendere che i discepoli non
sono realmente entrati nella casa, diviene chiara quando leggiamo di che cosa
hanno discusso per la strada.
Gesù,
in questo cammino, ha spiegato, per la seconda volta, qual è il destino che
attende il Figlio dell’uomo a
Gerusalemme, ma i discepoli sono rimasti zitti. Gesù allora li interroga. Hanno
fatto una conversazione a cui Gesù non ha partecipato. Gesù fa una domanda diretta,
perché si vede che la questione che essi hanno trattato è una questione
importante.
“Ed essi tacevano. Per la strada
infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande”. Ecco, vedete ora per
quale motivo, in maniera figurata, l’evangelista dice che non sono entrati
nella casa con Gesù, perché questi continuano a pensare chi è il più grande.
Nella casa di Gesù, non c’è posto per questi, non possono entrare quelli che
ancora alimentano ideologie basate sul potere, sulle gerarchie o sulle
divisioni. Sono loro stessi che non si trovano al loro posto lì dentro, da qui il
silenzio imbarazzato.
Loro
vanno comunque per la loro strada, nonostante Gesù abbia fatto un insegnamento
preciso “Se qualcuno vuol venire dietro
di me, rinneghi sé stesso e si carichi della sua croce”. Questi continuano
a discutere chi è il più grande, il maggiore, ed evitano il confronto con lui.
Marco
è grandioso nello scrivere questo testo. Gesù dice: «Di che cosa parlavate
sulla strada?» Lui è positivo nel modo
di avvicinarsi ai discepoli, pensa che abbiano parlato di qualcosa di
interessante. L’evangelista interviene per dire “sulla strada avevano
discusso”, non “parlato”. Qui c‘è una sfumatura nei verbi che in greco risulta
ancora più evidente.
Trattare
il tema su chi è il più grande, crea subito la polemica, la confusione, il
dibattito, chi urla di più e chi è più prepotente dell’altro…
Gesù
vuole riportare questo gruppo al suo insegnamento, affinché si inserisca sulla
sua strada e lasci l’altra strada, quella dell’aspirazione al potere, che è quella
fallimentare: quando si comincia a discutere su chi è il più grande, vuol dire
che quella storia di rinnegare sè stesso e caricarsi la croce non interessa
affatto, non tocca minimamente.
“Sedutosi, chiamò i Dodici e disse
loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l'ultimo di tutti e il servitore di
tutti»”.
Gesù
si trova nella casa, figura della comunità, e si mette seduto. Questo
atteggiamento vuol dire: la dimora stabile di Gesù è la casa di persone che si
amano come lui ci ama. Non c’è altra
dimora per Gesù, non luoghi santi, santuari, cattedrali, Gesù prende dimora in
una casa dove esiste una comunità di fratelli, che vivano secondo il suo stile
di vita(4). Qui l’evangelista inserisce i Dodici: prima ha parlato
dei discepoli, ora vuole dare un colpo più preciso sulla identità di quelli che
si oppongono all’insegnamento di Gesù, quelli che vogliono camminare per
un’altra strada.
I
Dodici (numero che richiama le tribù di Israele) sono i rappresentanti
dell’Israele messianico; questi dodici non sono i dodici che vediamo nei quadri,
bellissimi, di Leonardo e di altri artisti, è un numero simbolico per
rappresentare tutti quelli che provengono dall’Israele messianico per fare
parte della nuova comunità. Sono quelli che fanno più fatica ad aderire a questo
messaggio, proprio perché imbevuti dalle idee religiose della tradizione
ebraica.
È
interessante che in questo versetto Gesù li deve chiamare. Questo ‘chiamare’ vuol dire usare la voce per
appellare qualcuno, vuol dire che questi non stanno vicino a Gesù: se stessero
vicino, non avrebbe avuto bisogno di chiamarli. Vuol dire che li deve
distogliere da quella strada, dove stanno camminando, per portarli nella sua.
Gesù,
pur consapevole di questa mentalità gretta e limitata dei discepoli, non li
rifiuta né li rimprovera. Da parte di Gesù non c’è un atteggiamento duro, ma un
atteggiamento delicato e offre loro una nuova opportunità. Non tutti potranno
essere “il più grande”, uno può essere il più grande dell’altro, il più
prepotente, finché non arriva un altro più prepotente e dice: «adesso tocca a
me». Gesù dice “Se uno vuol essere il
primo”: è diverso che “il più grande” perchè dire “il più grande” riguarda
una gerarchia che Gesù rifiuta completamente nella sua casa; però ci può essere
il primato, questo sì, il primo nel senso di essere vicino a lui, il primo anche
nel senso di chi sta più vicino agli altri. Il primato lo possono conquistare
tutti, dice Gesù, basta che si fanno ultimi e servi di tutti.
Siate
l’ultimo di tutti, il servo di tutti, e in questa maniera state vicino a me.
Questo è quello che avvicina a Gesù, è l’unica possibilità di stare vicino a
lui, è quella di farsi ultimo, servo di tutti, è questo l’ideale che Gesù
propone ai discepoli per liberarli dalla loro ambizione. Questo è il
significato di “rinnegare sé stesso”, ma attenti, rinnegare se stessi non vuol
dire umiliarsi; quando vi fanno quella predica (un vero terrorismo ecclesiale),
che siete nulla, che non valete niente, chiudete le orecchie e pregate per chi
vi parla: è un poverccio che non ha capito niente del cristianesimo! Noi
valiamo molto, agli occhi di Dio siamo preziosi, ma il valore di questa nostra
persona lo scopriamo nel momento in cui mettiamo le nostre qualità al servizio
e per il bene degli altri.
Dio
ha una grande stima dell’uomo. Ma l’uomo non capisce che questa stima la si
manifesta nella capacità di mettersi al servizio degli altri, o farsi ultimo di
tutti, come chiede Gesù, quando dice «se tu ti fai ultimo, sei più vicino a
me».
C’è
chi pensa: io vorrei stare vicino a Gesù così mi farò dieci ore davanti al
Santissimo, davanti al tabernacolo! No!!! Non è questa la vicinanza a Gesù, non
è stare vicino al tabernacolo che mi può dare la vicinanza a Gesù, non lo sono
minimamente le ore passate in adorazione eucaristica, in preghiera, in
meditazione. Magari le ore in cui porto il grembiule, lavando i piatti, dando
una mano in casa, facendo il mio lavoro in maniera giusta: questo sì che mi
permette di sperimentare la vicinanza con lui. Questo sì che mi porta al
primato.
Colui che si fa ultimo fra tutti e servitore
di tutti ha lo stesso atteggiamento di Gesù, si colloca pertanto nel posto più
vicino a Gesù. Per questo Gesù, seduto come sta ora, può prendere colui che gli
è prossimo: “E, preso un bambino, lo pose in
mezzo a loro e, abbracciandolo,…”
Nella casa dove Gesù è con i Dodici appare un
personaggio che sta a fianco di Gesù e non c'è bisogno di chiamarlo come ha
fatto per i Dodici. Se la distanza di questi indicava la differenza di
atteggiamento con Gesù, la vicinanza di questo personaggio significa che costui
mostra l'identico atteggiamento di Gesù. Cerchiamo di capire chi è questo
personaggio.
Il termine greco tradotto con bambino (paidion)(5), è un diminutivo di pais, che significa figlio,
ragazzino o servo, e viene usato per indicare un ragazzo tra i sette e i
dodici anni (Marco designa con questo termine la figlia di Giairo, che aveva
dodici anni, cfr. Mc 5,39.42).
Nella
lingua italiana il vocabolo equivale a garzone, l’individuo che per età
e ruolo sociale è all'ultimo posto nella società ed è incaricato dei lavori
meno importanti. Il termine paidion racchiude pertanto i due aspetti
enunciati prima da Gesù:
- per
la sua età è l'ultimo di tutti;
- per
il suo servizio è il servo di tutti.
Il
suo atteggiamento uguale a quello di Gesù, ultimo e servo di tutti, dimostra
che con la denominazione paidion
s’intende indicare tutti quelli che seguono da vicino Gesù.
Il garzone,
ultimo e servo di tutti, è modello della sequela, mentre i Dodici, attaccati alla
tradizione e alle categorie del giudaismo, non si decidono a seguire Gesù.
Ponendo
il garzone in mezzo, Gesù lo colloca al suo posto, quale manifestazione
visibile della gloria divina e come esempio ai Dodici. Gesù abbraccia il
ragazzino compiendo, con questo un gesto d'amore, l’identificazione con quelli
che portano a compimento il disegno di Dio (“Chiunque avrà fatto la volontà
di Dio, mi è fratello, sorella e madre, Mc
3,35).
“…disse loro: «Chi accoglie uno solo
di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie
me, ma colui che mi ha mandato»”.
Nei discepoli l’ambizione alla
grandezza aveva suscitato rivalità. Gesù li invita a non pensare di scalare la
vetta del successo, ma ad abbassarsi al livello del garzone, scendendo nella
scala sociale e mettendosi dalla parte degli ultimi, come erano considerati i
ragazzini nella cultura dell'epoca, individui ritenuti ancora senza ragione,
degli imbecilli con i quali è inutile chiacchierare (cfr. Sap 12,24; 15,14).
Il
seguace di Gesù, che ha il suo stesso atteggiamento di servire volontariamente
per amore, si identifica con lui e manifesta la presenza di Gesù stesso, che a
sua volta si identifica nel Padre che lo ha inviato, sicché l'individuo,
attraverso Gesù, è unito pure al Padre, fonte della vita.
Il
discepolo che volontariamente, per amore, pone la sua esistenza a servizio
degli altri diventa così l’unico vero santuario dal quale s’irradia l’amore del
Padre.
Note: 1. La presente
esegesi è liberamente tratta dall’intervento tenuto da P. Riccardo Perez OSM
durante la X Settimana Biblica svoltasi dal 30.06 al 05.07.2003 presso il
Centro Biblico G. Vannucci di Montefano (Mc). – 2. Mi sembra utile ricordare che la locuzione “tre giorni” non vuole affatto dire che
Gesù, una volta morto, ha atteso tre giorni nella tomba il momento di
risorgere. Questa interpretazione, maturata nel Medio Evo, era dovuta alla
assoluta ignoranza che, in quel periodo,
la chiesa aveva della lingua e delle usanze della cultura ebraica. Nel mondo
ebraico il numero tre rappresenta il tutto, la perfezione, la completezza,
quindi tre giorni vuol dire immediatamente e completamente. Gesù è
quindi risorto in modo completo immediatamente dopo morto. – 3. Ancora oggi,
sia nella Chiesa Cattolica che fuori di essa, esistono strutture di potere che
contrastano il modello di umanità che Gesù ha proposto. – 4. Questo è un
impotantissimo insegnamento: la presenza del Risorto non è sicura nemmeno nelle
chiese, se queste non appartengono a comunità dove ciascun componente è servo
degli altri, vescovo e parroco in testa. – 5. L’uso, secondo la CEI del 2008,
del termine bambino mette in evidenza
il fatto che la commissione che ha effettuato materialmente la traduzione o
quella che ne ha approvato il lavoro, hanno evidentemente una conoscenza poco
profonda della esegesi del brano.