Contenuti del blog

Le esegesi riportate in questo blog non sono frutto delle mie capacità, in realtà molto modeste. Le ricavo leggendo diversi testi dei più importanti specialisti a livello mondiale, generalmente cattolici, ma non disdegno di verificare anche l’operato di esegeti protestanti, in particolare anglicani. Se si escludono alcuni miei approfondimenti specifici, per la parte tecnica dell’analisi critica il mio testo di riferimento è questo:

- Giovanni Leonardi
, Per saper fare esegesi nella Chiesa, 2007 Ed. Elledici (testo promosso dall’Ufficio Catechistico nazionale). Questo testo è molto semplice, veramente alla portata di tutti; per migliorare la capacità di analisi deve essere affiancato da altri due testi per la parte linguistica, anch’essi a livello divulgativo:

- Filippo Serafini,
Corso di greco del nuovo testamento, 2003 Ed. San Paolo.
- Luciana Pepi, Filippo Serafini,
Corso di ebraico biblico, 2006 Ed. San Paolo (da usare solo nel caso si voglia approfondire l’etimologia semitica sottesa ai vocaboli greci).

I testi della Bibbia in lingua originale sono pubblicati da varie case editrici; in particolare per i Vangeli segnalo l'ottimo testo della Edizioni Enaudi e quello sinottico della Edizioni Messagero in quanto hanno i testi greco ed italiano a fronte. Si trovano anche in vari siti in rete, ma non sempre sono testi aggiornati con le ultime scoperte a livello archeologico o paleografico.
Per la parte sostanziale normalmente faccio riferimento a documenti prodotti dalle fonti seguenti, che riporto in ordine decrescente di frequenza di utilizzo:

- École biblique et archéologique française de Jérusalem (EBAF), retto dai Domenicani e dove ha lavorato anche il Card. Martini.
- Centro Studi Biblici “G. Vannucci” – Montefano (An), retto dall’Ordine dei Servi di Maria.
- Sito www.Nicodemo.net gestito da P. Alessandro Sacchi.
- Università degli studi di Torino – Corso di Letteratura cristiana antica – Prof.essa Clementina Mazzucco.
- Fr. Dante Androli, OSM, docente di esegesi alla Pontificia Facoltà Teologica Marianum – Roma
- Università degli studi La Sapienza di Roma – Corso di Storia del Cristianesimo e delle Chiese – Prof.essa Emanuela Prinzivalli.
- Biblia, Associazione laica di cultura biblica – Settimello (Fi)


sabato 23 luglio 2016

Diciassettesima Domenica del Tempo Ordinario



XVII Domenica del Tempo Ordinario – Lc 11,1-13

Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:
Padre,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdona a noi i nostri peccati,
anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione».
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», e se quello dall'interno gli risponde: «Non m'importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani», vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».

L’esegesi di questo brano è complessa e richiederà più pagine del normale. Mi scuso con i lettori ma, trattandosi di un capisaldo del cristianesimo, è necessario comprenderlo appieno.
La preghiera(1) al Padre riportata da Luca è più corta e più scarna di quella riportata da Matteo: in Matteo vi sono 8 domande, in Luca solo 5. Forse il testo di Luca è più vicino all’originale in quanto per le comunità cristiane del primo secolo era più facile aggiungere che togliere; si sentivano infatti “autorizzati” a chiarire un testo aggiungendo parole piuttosto che a ridurlo.
L'insegnamento di Gesù sulla preghiera (sottolineato dalla ripetizione per tre volte del verbo pregare) si apre con l'invocazione a Dio quale Padre. Nella cultura ebraica non esiste il termine genitori ma solo padre e madre ciascuno con compiti differenti: il padre è colui che genera, la madre si limita a partorire il figlio (Is 45,10). Il figlio riceve la vita esclusivamente dal padre e la prolunga assomigliandogli nel comportamento mediante la pratica dei valori ricevuti. “Figlio di...” non significa “nato da...” ma “assomigliante a…” nelle idee e nel comportamento.
La prima volta che Gesù ha parlato ai suoi di Dio come un Padre è stato per invitare i discepoli ad assomigliargli nell'amore: "Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso" (Lc 6,36). Per Gesù il credente non è colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo, solo così "sarete figli dell'Altissimo; perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi”. (Lc 6,35).
L'immagine di Dio che Gesù presenta era completamente nuova nel panorama religioso dell'epoca. Per la prima volta veniva presentato un Dio che non premiava i buoni e castigava i malvagi ma a tutti indistintamente dirigeva il suo amore. Per questo, poco prima dell'insegnamento del Pater, Gesù propone come modello di credente proprio l'individuo che agli occhi della religione era ritenuto il più lontano da Dio: l'eretico samaritano. L'unico al quale Gesù applica il verbo avere compassione, espressione che, nella cultura ebraica, viene usata soltanto per indicare l'atteggiamento di Dio nell'AT e di Gesù nei vangeli. L'eretico assomiglia a Dio perché mostra un amore simile al suo (Lc 10,29-37), gli addetti al culto, sacerdote e levita, in quanto osservanti e obbedienti alla Legge, non possono avere compassione e sono lontani da Dio.
Con questo Gesù scalza le fondamenta stesse della religione dove l'uomo veniva presentato quale un servo chiamato a servire il suo Signore. Nella nuova relazione con Dio alla quale Gesù invita, dalla “servitù” nei confronti di Dio si passa alla “figliolanza” verso il Padre. Mentre la prima sottolineava la distanza tra Dio e l'uomo, la seconda l'annulla. Non più l'uomo è chiamato a servire la divinità, ma è Dio stesso che si fa servo degli uomini per innalzarli al suo stesso livello.
Per questo, al momento dell'ultima cena, Gesù, l'uomo che manifesta una pienezza di vita pari alla condizione divina, definisce se stesso con queste parole: "Io sto in mezzo a voi come colui che serve" (Lc 22,27).

Padre, sia santificato il tuo nome,…” (= venga riconosciuto questo tuo nome, oppure, = fa conoscere a tutti chi sei)

La prima richiesta del Pater riguarda il nome di Dio. Il nome nella cultura ebraica non indica solo come è chiamato l'individuo, ma chi realmente è, in quanto il nome manifesta le qualità di colui che viene nominato. In quella cultura la conoscenza del nome di Dio aveva un'importanza essenziale per i rapporti dell'uomo con la divinità. Per questo Mosè chiede a Dio di rivelargli il suo nome: "Mosè disse a Dio: Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: qual è il suo nome?; E io che cosa risponderò loro? Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono(2)! Poi disse: “Dirai agli Israeliti: Io Sono mi ha mandato a voi" (Es 3,13-14; cfr Gen 32,30).
Nella sua risposta Dio non rivela la sua identità, ma un’attività che lo rende riconoscibile. Mosè non riceve una risposta su “chi è” Dio, ma su “come” Dio si presenta: Io Sono indica che Dio non è una divinità lontana, insensibile alle esigenze e alle sofferenze dell'umanità, ma un Dio che è sempre presente con il suo popolo mediante una continua attività creatrice e liberatrice. Questa attività che rende riconoscibile la presenza di Dio, con Gesù viene indicata nel nome Padre: Dio è colui che comunica la vita indistruttibile a quanti lo accolgono.
Il verbo “santificare” (= consacrare)  ha il significato di "separare" qualcuno o qualcosa allo scopo di metterne in risalto un particolare valore, per esempio del vasellame adibito esclusivamente per la liturgia, che viene consacrato (= riservato) a questo uso.
I primi cristiani non esitarono a denominarsi "santi"(3) (Rm 1,7). Quando oggetto del verbo “santificare” è Dio, questo assume il significato di "riconoscere" ciò che è per eccellenza l'essenza di Dio: tre volte (cioè pienamente) santo: “Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti” (Is 6,3; Ap 4,8).
Mentre l'attività del Dio "santo" è mirata a consacrare il suo popolo, l'azione dell'uomo è diretta a riconoscere la santità di Dio: la particolare forma verbale utilizzata dall’evangelista vuole significare che questa santificazione viene resa visibile.
Essendo il nome quel che rende riconoscibile e quindi designabile una persona, con la richiesta “sia santificato il tuo nome” si domanda che Dio venga conosciuto non più con  quello di Yahvé, ma quello, già conosciuto e sperimentato dai discepoli, di Padre.

“…venga il tuo regno;…” (= si estenda la tua signoria)

L'esperienza della monarchia in Israele era un ricordo tragico e fonte di tutte le disgrazie patite nel presente. Dio, che non tollera che un uomo si possa mettere al di sopra di altri, non aveva voluto l'istituto della monarchia per il suo popolo. Ogni qualvolta il popolo si trovava in pericolo Dio investiva della sua forza (lo Spirito) un individuo che veniva chiamato a liberare il popolo. Le gesta di questi condottieri o eroi rimasti celebri nella storia di Israele come Gedeone o il mitico Sansone sono narrate nel Libro dei Giudici.
Quando il popolo di Israele chiese di venire governato da un re come gli altri popoli, il profeta Samuele lo mise in guardia da tutti i rischi che avrebbe comportato l'instaurazione di una monarchia (cfr 1Sam 8,10-22). Ma Israele insisté per avere "un re che ci governi, come avviene per tutti i popoli" (1Sam 8,5) e fu l'inizio della sua rovina.
La tragica esperienza della monarchia portò il popolo a proiettare in Dio stesso l'ideale di un re difensore dei poveri e degli oppressi e nel cui regno si sarebbe amministrata una giustizia perfetta: "Padre degli orfani e difensore delle vedove" (Sal 68,6; cfr Sal 146,9); Dio si sarebbe preso cura di tutti gli emarginati (cfr Mi 4,6-7), rappresentati dalle categorie della vedova, dell'orfano e dello straniero, persone che più di altri erano vittime di soprusi.
Il “regno” richiesto esprime il concetto dinamico di "regalità" in quanto esercizio del governo da parte del re (= signoria), più che quello statico di "reame" nel senso di estensione geografico-politica dei possedimenti.
La petizione del Pater non è una richiesta per l'avvento del regno, ma è la preghiera di quelli che ne fanno parte affinché questo regno, già presente (Lc 6,20), si estenda e continui a inserirsi nella storia. Per questo la forma verbale greca adoperata dall’evangelista designa non solo l'inizio del regno ma pure ogni sua successiva affermazione.
Di questo regno non ne è auspicata la nascita, ma la crescita e la diffusione; saranno poi gli uomini a decidere se appartenervi o no. I credenti vi appartengono già: "E' lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto" (Col 1,13; cfr Ap 1,6).
La regalità del Padre che la comunità ha sperimentato, e che chiede si estenda anche ad altri, non viene esercitata privando l’uomo dei suoi averi e sottraendogli energie, ma arricchendolo dei beni ed energie divine che gli comunicano la stessa vita indistruttibile di Dio. Il Padre non governa i suoi imponendo delle Leggi da osservare, ma comunicando il suo stesso spirito che li rende capaci di prolungare il suo stesso amore. Nel regno, ambito nel quale l’amore reciproco è norma di comportamento, la paternità di Dio viene sperimentata nei quotidiani gesti di perdono e nella generosa condivisione, che rendono visibile la “santificazione” del Padre.
La realtà del regno dipende dalla risposta di quanti accoglieranno l'invito di Gesù (lasciato tutto lo seguirono - Lc 5,11) e entrano volontariamente nella condizione di “poveri”(Mt 5,1-12). Su costoro il Padre può esercitare la "regalità" e "paternità" che sono così strettamente legate da poter divenire l'una sinonimo dell'altra: Dio esercita la sua regalità manifestandosi Padre, e la sua paternità si manifesta prendendosi cura, come il re ideale, di tutti i poveri e dei più deboli della società. Per questo Gesù avverte i suoi discepoli che chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non vi entrerà (Lc 18,17). Il bambino, nella cultura ebraica, era colui che si trovava all'ultimo posto della scala sociale, ed era ritenuto senza alcun valore. Solo chi accetta di mettersi con gli ultimi ha l'accesso al regno; agli altri, i primi, è negato: “Quanto è difficile, per coloro che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio. E' più facile per un cammello passare per la cruna di un ago(4) che per un ricco entrare nel regno di Dio!” (Lc 18,24-25).

“…dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,…” (= il nostro pane di vita dacci ogni giorno)

La richiesta del pane, posta strategicamente al centro del Pater, serve da perno tra la strofa riguardante l'intervento di Dio sull'umanità e quella che si riferisce alle necessità della comunità. Dal punto di vista letterario la richiesta del "pane" è l'unica a iniziare con enfasi mediante il complemento (“il pane...”), anziché con un verbo come tutte le altre petizioni ("sia santificato... venga...); inoltre l'uso, certamente non indispensabile, in greco, del doppio articolo determinativo pone deliberatamente l'accento sull'aggettivo che qualifica questo pane (il pane... il epiousion”).
Non è pertanto un pane qualunque, ma il pane (o quel pane) ben determinato, che è già in qualche maniera conosciuto ai lettori di Luca destinatari del Pater, ma non lo è più a noi.
La traduzione latina del quarto secolo denominata Vulgata tentò di superare la difficoltà presentata da questo termine (epiousion) sconosciuto traducendo l’aggettivo in due diverse maniere: "cotidianum" in Lc 11,3 e "supersubstantialem" In Mt 6,11. Per la preghiera liturgica venne scelto il testo di Matteo considerato più completo ma con la sostituzione di "supersubstantialem" con “cotidianum”, termine più facile a pronunziarsi e più comprensibile.
In realtà entrambe le traduzioni non comprendono del tutto il significato dell’aggettivo greco sul quale possono oggi essere effettuate solo ipotesi riconducibili principalmente a tre categorie che non contrastano tra di loro ma si completano l'una con l'altra:
Il pane del domani. In questa prima ipotesi epiousios, formato da epi+ienai, significherebbe futuro, del tempo che viene, necessario alla vita del giorno, da cui il "giorno seguente", l'indomani, il giorno che viene(5). Nel vangelo apocrifo detto “degli Ebrei”, in luogo di pane “epiousion” si trova “maar”, cioè “di domani”, da qui il significato: “il pane del giorno dopo, cioè futuro, daccelo oggi”.
Secondo questa interpretazione, nella petizione del Pater si tratterebbe di chiedere a Dio il pane del/per domani come già nel deserto donò doppia razione di manna la vigilia del sabato (cfr Es 16,5.29), ed epiousios sarebbe la traduzione greca dell’ebraico domani. Ciò però, sarebbe in contraddizione con quanto poi affermato da Gesù: non cercate perciò che cosa mangerete e berrete... (Lc 12,29).
Il pane supersostanziale. I Padri greci e latini hanno interpretato epiousios anche come composto da epi (sopra) e ousia (natura/sostanza), da cui si avrebbe il pane "supersubstantialem", cioè un alimento per lo spirito e non un cibo per il corpo, e Origéne identifica questo pane con il Verbo e la sapienza di Dio e, conseguentemente, con la carne di Cristo.
Il pane necessario. Nella terza ipotesi l'aggettivo epiousios viene considerato formato da epi (in/su) e einai (essere) e significherebbe quel che necessita all'esistenza o sufficiente, quindi "necessario alla vita" come espresso dalla tradizione sapienziale nel Libro dei Proverbi: "Non darmi né povertà né ricchezza; ma fammi avere il pane necessario" (Pr 30,8).
Considerando che delle diverse ipotesi dell'etimologia di epiuousios nessuna si impone sulle altre in maniera decisiva, e che il valore di una parola non coincide necessariamente col suo senso etimologico, si ritiene che la soluzione del significato del termine debba ricercarsi unicamente nel contesto del Pater.
La Scrittura afferma che è la generosità di Dio che nutre il creato e "dà il cibo ad ogni vivente", ma questo non esime gli uomini dal procurarsi il cibo quale frutto del loro lavoro: "con il sudore del tuo volto mangerai il pane" (Gen 3,19; Sal 104,14-15). Il pane che nutre l’uomo non va richiesto a Dio e non viene inviato dal cielo, ma è compito degli uomini produrlo e condividerlo generosamente con chi non ne ha.
L’esortazione di Gesù ai suoi discepoli di non preoccuparsi del cibo non è certo un invito a non occuparsene (cfr Lc 12,22-32). Nelle prime petizioni del Pater, l'esaudimento delle richieste, pur esigendo la collaborazione dell'uomo, dipende unicamente da Dio. Sarà il Padre a santificare il suo nome, e ad estendere la sua signoria. Similmente, nelle due richieste seguenti la petizione del pane, solo il Padre può condonare i debiti e preservare dalle prove.
Il fatto che questo pane venga domandato al Padre significa che si tratta di un alimento che può essere donato soltanto da Dio e non prodotto dall'uomo. Le varie interpretazioni di epiousios come "pane di domani", "pane necessario", o "al di là della sostanza", vedono nel particolare pane richiesto nel Pater un richiamo al dono della manna del deserto, come viene narrato nel Libro dell' Esodo (cfr Es 16).
Nella tradizione giudaica la manna, dono col quale Dio ha accompagnato il suo popolo nell'esodo, è stata considerata il pane per eccellenza: "Fece piovere su di essi la manna per cibo e diede loro pane del cielo" (Sal 78,24; cfr Dt 8,16; Gv 6,31.49-50).
Alla base della petizione del Pater di Luca c'è la concezione tradizionale che la manna quale pane del cielo sarebbe stata l'alimento dei tempi messianici, con una correzione da parte dell'evangelista che riflette l'influsso della teologia del vangelo di Giovanni. Non un pane cibo per il corpo destinato "a finire nella fogna" (Mt 15,17), e neanche l'effimera e inefficace manna discesa nel deserto per merito di Mosè, ma un pane efficace e duraturo che alimenta lo spirito e che viene individuato in Gesù-Messia, vera sapienza di Dio che può saziare la fame dei suoi.
La richiesta di ottenere “ogni giorno” questo pane si rifà alle rappresentazioni presenti sia nell'AT che nel NT della realtà definitiva del regno di Dio, visto da Luca come un banchetto: "Beato chi mangerà il pane nel regno di Dio!" (Lc 14,15; cfr Mt 9,14-15) .

“…e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,…”
(= e perdona i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo a ogni nostro debitore; oppure = e condona i nostri peccati perche' anche noi li abbiamo cancellati ai nostri debitori).

Entrambi i significati di debito e peccato si rifanno a un'immagine di Dio che nel giudaismo veniva concepito come un pignolo contabile che registrava accuratamente nel suo "Libro dei debiti" ogni azione degli uomini.
La tradizione religiosa ebraica insegnava che per ottenere il perdono dei peccati si esigeva un’azione di riparazione da parte dell’uomo nei confronti di un Dio che rinunciava così a punire il colpevole se costui ottemperava alle opere prescritte dalla religione quali sacrifici, digiuni e preghiere (cfr Nm 15,22-30).
La comunità di Gesù ha sperimentato che il perdono viene concesso dal Padre unicamente in base alla sua misericordia e non è condizionato da alcun tipo di prestazione umana. La richiesta del Pater va compresa alla luce dell'insegnamento contenuto nell'episodio della peccatrice: “Un creditore aveva due debitori: l'uno gli doveva cinquecento denari, l'altro cinquanta. Non avendo essi da restituire, condonò il debito a tutti e due” (Lc 7,40). Il debitore ottiene il condono dei suo debiti non per i suoi meriti ma per la generosità del creditore (cfr Ne 5,10).
Il condono concesso dall'uomo al suo simile non è condizione di quello del Padre, ma la sua conseguenza. Gesù non invita a perdonare i peccati o le colpe degli altri, ma a cancellare i loro debiti. Mentre è possibile perdonare le colpe e restare in possesso dei propri averi, il condono dei debiti esige la rinuncia a questi. Anche in questa petizione si sottolinea, mediante l'uso del pronome/aggettivo ("noi/nostri"), che la richiesta non riguarda la generosa disponibilità del singolo credente, ma lo stile della comunità. Questo comportamento è possibile solo per quanti hanno risposto all’invito di Gesù di lasciare tutto per seguirlo e vivono la beatitudine della scelta per la povertà volontaria (cfr Mt 5,3).
Luca scegliendo il termine “debiti” intende richiamarsi a quanto prescritto in Dt 15,2 (secondo la traduzione greca dei LXX), dove appare il verbo “essere debitore” in riferimento alla legge del settimo anno: “Ecco la norma di questa remissione: ogni creditore condonerà il debito del prestito fatto al suo prossimo, quando si sarà proclamata la remissione per Yahvé”. Nel contesto culturale e teologico di questa istituzione si comprende meglio il significato della richiesta del Pater. L'evangelista prende le distanze dall'istituzione del Prosbul(6) per riportarsi così alla purezza del disegno primitivo di Dio.
La sola volta in cui nel Pater una petizione viene motivata da una clausola, essa riguarda l'unica indicazione concreta sull'agire dei credenti: "perché anche noi li condoniamo ai nostri debitori". La comunità non presenta al Padre occasionali buoni propositi per il futuro, ma uno stile di vita del presente. Nel NT il verbo "esser debitore" viene usato per indicare il dovere del reciproco amore tra i componenti la comunità.
Nel vangelo di Giovanni con lo stesso verbo si esprime un atteggiamento di servizio inteso non come accondiscendente favore, ma come debito obbligatorio che ogni componente della comunità ha nei confronti dell’altro per farlo sentire “signore”. L'amore di Gesù, manifestatosi nel lavare i piedi ai suoi, precede e rende capaci i discepoli di uno scambievole servizio, come nel Pater il condono del Padre precede e rende possibile quello dei credenti.
Mentre il mutuo servizio arricchisce la comunità garantendo la presenza del Signore "venuto per servire" l'egoismo l'impoverisce, innescando un devastante processo di dissoluzione che rischia di distruggerla. Per questo il condono del debito e con esso la concessione del perdono, devono essere immediati. Ogni ritardo nella manifestazione di un amore capace di tradursi in generosa condivisione, non fa che aumentare il debito verso il Padre originato dall'assenza dell'amore e impoverire tutta la comunità: "Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole" (Rm 13,8).

“…e non abbandonarci alla tentazione…” (= non metterci alla prova) (cfr. Mt 6,13a).

Mentre nell'AT il verbo "provare" non indica mai una sollecitazione al male (tentazione) né da parte di Dio e né da parte di forze ostili all'uomo, nel NT il verbo è impiegato anche con il significato di "tentare". Nel vangelo di Luca il verbo "provare" compare solo due volte, nell'episodio del deserto dove Gesù per quaranta giorni fu tentato dal diavolo (Lc 4,2) e quando alcuni "per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo" (Lc 11,16): in entrambi i casi verbo assume la connotazione negativa di tentazione.
Nel NT ogni dubbio riguardo l'azione di un “Dio tentatore" viene cancellato dalla chiara formulazione contenuta nella Lettera di Giacomo: "Nessuno, quando è tentato, dica: Sono tentato da Dio; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria cupidigia che lo attrae e lo seduce" (Gc 1,13-14). L'azione di Dio, capace di "liberare i pii dalla prova" (2Pt 2,9), non è quella di indurre l'uomo nella tentazione bensì di liberarlo dalla stessa, come testimoniato lungo tutta la storia del suo popolo.
Nella petizione del Pater, essendo il soggetto dell'azione il Padre e destinatari i credenti, il significato della richiesta non può essere quello negativo di tentazione ma quello positivo di prova.
Le prove alle quali Dio ha sottoposto sia il singolo individuo che l'intero popolo, cominciando dal patriarca Abramo (cfr Gen 22,1-18; Eb 11,17) e lungo tutto l'arco della storia della salvezza, non gli servono per conoscere quel che già gli è noto, ma per favorire la crescita e la maturazione dei suoi figli (cfr 1Pt 1,6-7). L'azione pedagogica viene illustrata nel vangelo di Giovanni nella "prova" alla quale Gesù sottopone il discepolo Filippo: "Gesù vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare? Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare" (Gv 6,6) .
Se la richiesta della comunità fosse stata quella di essere preservata dalle prove che la vita presenta, l'evangelista avrebbe usato un termine plurale anziché singolare: "Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove" (Lc 22,28).
La formula della petizione del Pater indica che si tratta di un’unica prova, particolarmente temuta in quanto si può trasformare in un autentico disastro per la comunità stessa, come lo fu la prova del popolo d'Israele nell'esodo quando "la prova della morte colpì anche i giusti e nel deserto ci fu strage di molti" (Sap 18,20).
L'invito alla preghiera che unisce tematicamente la domanda del Pater ("quando pregate") e la prova nel Getsemani ("pregate per non entrare nella prova, Lc 22,40.46), indica che in entrambi i casi l’obiettivo di Gesù è diretto a liberare i discepoli in maniera completa e definitiva dalle situazioni di pericolo. La differenza tra la petizione del Pater e la formulazione presente nella narrazione del Getsemani è che in quest'ultimo caso il termine “prova” viene introdotto dal verbo "entrare" (Lc 22,40.46) anziché "indurre/mettere". Ciò consente di collegare in successione di eventi la richiesta del Pater e il monito del Getsemani.
Mentre nel Pater la preghiera è rivolta direttamente al Padre come colui che può preservare i suoi dalla permanenza nella prova, nel Getsemani l'invito alla vigilanza e alla preghiera non mira a liberare i discepoli da una situazione esterna di pericolo (la cattura di Gesù è ormai inevitabile), ma tende ad evitare che gli stessi ne siano irrimediabilmente vinti e soccombano ad essa.
La richiesta al Padre di non essere messi alla prova contiene e sottintende quella di non soccombere alla stessa: la domanda formulata nel Pater intende prevenire i rischi connessi all'essere sopraffatti nella prova, così come era accaduto ai discepoli nel Getsemani.
Un'espressione usata in 1Cor 10,13 può chiarire questo permanere nella prova: "Nessuna prova vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate provati oltre le vostre forze, ma con la prova vi darà anche la via d'uscita e la forza per sopportarla".
Se la vittoria dalla prova è concepita come l'uscita dalla stessa, la sconfitta consiste nel rimanere all'interno della prova.
Coscienti della persecuzione alla quale si va incontro come seguaci di Gesù, i credenti chiedono ora di non cedere nella prova suprema che può mettere nuovamente in gioco la fede stessa dei discepoli e l'esistenza della comunità stessa.
La prova, che è causa di fallimento del messaggio annunciato da Gesù, viene presentata da Luca nella parabola del seminatore, dove l'evangelista sostituisce “tribolazione o persecuzione” di Matteo e Marco (Mt 13,21; Mc 4,17) con “prova”, identificando nella stessa la persecuzione a motivo della fede (cfr Mt 5,10). Il venir meno al momento della prova ha origine nel mancato radicamento della Parola: "Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono con gioia la parola, ma non hanno radice; credono per un certo tempo, ma nell'ora della prova vengono meno" (Lc 8,13).
Il fallimento del messaggio di Gesù, causato dal mancato radicamento negli ascoltatori, richiama la rovina della casa costruita sulla sabbia, la cui causa viene individuata nel non aver praticato la Parola ascoltata: "Chi ascolta e non mette in pratica è simile a un uomo che ha costruito una casa sulla terra, senza fondamenta. Il fiume la investì e subito crollò; e il disastro di quella casa fu grande" (Lc 6,47-49)

Dopo la preghiera di Gesù(7), Luca riporta una parabola con la quale vengono approfondite le modalità della preghiera.
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», e se quello dall'interno gli risponde: «Non m'importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani», vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.”
Questo brano, che appartiene alla fonte esclusiva di Luca, illustra un requisito essenziale della preghiera, la fiducia perseverante: per essere esauditi, i credenti devono pregare Dio con insistenza, senza stancarsi mai.
I particolari della descrizione presuppongono l'ambiente palestinese, nel quale l'ospitalità era tenuta in grande considerazione. Il fatto che un ospite arrivasse a mezzanotte non era del tutto insolito; spesso ci si metteva in viaggio dopo il tramonto, per evitare il fastidio del sole. Le regole dell’ospitalità impedivano di accogliere qualcuno senza dargli da mangiare. Le case normalmente si componevano di un unico vano, dove gli inquilini dormivano tutti insieme. Il pane veniva preparato per conto proprio in ogni famiglia. È facile immaginare il disagio provocato dalla richiesta importuna a mezzanotte. Tuttavia il richiedente, consapevole che il dovere dell'ospitalità è sacro, ha la certezza d'essere esaudito dall'amico. Nella conclusione, il comportamento dell'uomo importunato a mezzanotte viene implicitamente identificato con quello di Dio nei confronti di chi lo prega. Come il primo cede alle pressioni dell'amico, anche se dopo una lunga insistenza, così anche Dio non può sottrarsi alle richieste di coloro che lo pregano. Perciò dal tema della preghiera fiduciosa proposto da Gesù si è passati, in sintonia con quanto suggerisce il brano seguente, a quello dell’efficacia di una preghiera insistente e perseverante.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.”.
Questo brano è ricavato nuovamente dalla fonte Q, in quanto anche Matteo lo riporta in una versione molto simile nel contesto del discorso della montagna (Mt 7,7-11). Esso contiene anzitutto tre imperativi incalzanti: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto». Il fatto che sia l’esortazione che l’indicazione degli effetti siano ripetute tre volte è un modo per sottolinearne l’importanza e l’efficacia. È significativo che non sia espresso l'oggetto della domanda: la cosa importante non è ciò che si chiede nella preghiera ma l'atteggiamento dell'orante, che presuppone la consapevolezza della propria indigenza, che solo Dio può colmare.
Vengono poi presentati sotto forma di domanda retorica due esempi desunti dalla vita familiare: “Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?”. Rispetto a Matteo, Luca sostituisce l'immagine di «pane-pietra» con quella di «uovo-scorpione». Inoltre inverte l'ordine: prima ricorre la coppia «pesce-serpente» e poi «uovo-scorpione». Uno scorpione racchiuso in una mano può venire scambiato per un uovo. Il significato di questi due paragoni è chiaro: un padre non può deludere il proprio figlio che gli si rivolge pieno di fiducia.
Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!»”.
Questa sentenza è redatta secondo il procedimento rabbinico detto minore ad maius oppure argomento a fortiori: ciò che si applica a una realtà inferiore a maggior ragione si applicherà a quella superiore. In Luca «lo Spirito Santo» sostituisce l'espressione «cose buone» adottata da Matteo (Mt 7,11). Sostituendo ad esse lo Spirito Santo, Luca vuole forse sottolineare che nella preghiera non bisogna illudersi di ottenere da Dio dei beni specifici, magari anche di carattere spirituale, ma piuttosto lo Spirito stesso che, con la sua azione illuminate e fortificante, fa sì che il credente si conformi ai desideri di Dio e alle esigenze del suo Regno, superando con il suo aiuto a tutte le prove della vita.

Note: 1. Questa prima parte dell’esegesi è liberamente tratta da una conferenza tenuta da P. Alberto Maggi OSM a Cefalù nel 1999. – 2.  Oggi molti traduttori preferiscono tradurre: Io sono colui che sarò. La cosa è possibile in quanto in ebraico le forme verbali del presente e del futuro sono identiche e questa traduzione manifesta il divenire continuo di Dio.  – 3. In quel tempo questo appellativo non aveva l'accezione, presa in seguito, di virtù straordinariamente esercitate da pochi. – 4. La cruna dell’ago era un’apertura nelle mura di una città che consentiva solo ad una persona per volta di passare permettendo alle guardie di contrastare facilmente l’ingresso ai nemici. L’apertura permetteva il passaggio solo di lato per cui era difficile l’ingresso alle persona obese (che in genere erano ricche) e certamente impossibile ai cammelli a causa delle loro dimensioni. – 5. Questi due ultimi termini richiedono però che l’aggettivo greco sia coniugato al femminile. – 6. Il Prosbul era un certificato contenente una dichiarazione, fatta di fronte al tribunale, in virtù della quale il debitore autorizzava il creditore a riscuotere il suo credito in qualunque tempo, anche dopo i sette anni, prescindendo dalla legge del condono. Questo permetteva di eludere la legge del settimo anno. – 7. Questa parte dell’esegesi è tratta da un articolo di P. Alessandro Sacchi, pubblicato su Nicodemo.net.