Parte terza di 2. Spiritualità,
purificazione e mortificazione
Può
sembrare strano a chi non è abituato alla esegesi, cioè alla interpretazione
dei vangeli, ma tutti e tre i brani letti vogliono dire la stessa cosa: la
sequela di Cristo è gioia, sazietà e
amore reciproco.
Nella
nostra tradizione l’idea di Dio e della sua volontà raramente o, meglio, quasi
mai viene associata all’idea di felicità. Se pensate a Dio, la vostra
formazione, i vostri ricordi fanno si che è più facile associarlo alla
sofferenza che alla felicità; al dolore che alla gioia.
Questo
sorge dal fatto che ci è stato presentato un Dio che proibisce di cogliere il
bello della vita e obbliga a tutto quello che è penoso.
Dice
il Concilio Vaticano II che l’esistenza di un numero sempre crescente di atei o
di indifferenti è responsabilità dei cristiani che hanno presentato sempre un
Dio che non esiste, un Dio che punisce e minaccia, un Dio che pretende (1).
A
un Dio così io non crederei mai.
Il
messaggio di Gesù riportato dai vangeli dimostra che l’uomo è chiamato ad
essere pienamente felice qui, in questa esistenza terrena, oltre che nell’al di
là. Dio vuole che l’uomo sia felice: “Questo
vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena”.
La
sofferenza, il dolore non è e non sarà mai un valore né tanto meno un merito;
durante i nostri momenti bui, durante le disgrazie che ci colpiscono, Cristo
non si mette a contabilizzare i nostri meriti, lamento dopo lamento; al
contrario Cristo soffre con noi, è sottobraccio a noi, ci accarezza, ci
abbraccia, piange con noi, ci porta in braccio verso la luce della fine della
sofferenza e io questo lo posso dire per esperienza personale.
E
allora, come mai esiste il dolore? Paolo nella lettera ai Romani (8,19–23)
afferma:
“...La creazione stessa attende con impazienza
la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità
- non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa - e nutre la
speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per
entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che
tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non
è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo
interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo...”
Paolo
dice, quindi, che il male, la sofferenza, è propria di un mondo in cui la
creazione non è ancora completata; a questa carenza di creazione noi tutti
siamo chiamati a porre rimedio decidendo, finalmente e definitivamente, di
divenire figli di Dio, collaboratori di Cristo nel completamento della
creazione.
Dio
ci ama e non vuole mai che noi soffriamo, meno che mai accetta che noi ci
procuriamo da soli la sofferenza anche se pensiamo che sia a fin di bene: “...Misericordia
io voglio, non sacrificio...”.
Durante
la sua predicazione Cristo ha aspramente combattuto contro la pratica del
digiuno rituale, sia osteggiando i farisei che la praticavano, sia dimostrando
per due volte (2), di fronte a migliaia di persone, che la
condivisione e la sazietà sono la base della vita del discepolo: “Tutti mangiarono e si saziarono”.
Il messaggio del regno di Dio portato da Cristo
comporta come momento essenziale la "sazietà"
nel suo senso completo, cioè come realizzazione piena di tutte le aspirazioni,
gli aneliti, le potenzialità, gli ideali, le utopie dell'essere umano.
Sazietà a tutti i livelli, materiali e spirituali;
nell'alimentazione, nel vestiario, nell'abitazione, nell’affettività;
nell'educazione, nella letteratura, nell'arte, nella scienza che non è mai un
nemico, ma è una scintilla della sapienza di Dio sulla terra.
Ma la sazietà non è un momento di compiacimento
individuale; la sazietà ha la sua sorgente nella condivisione dei beni e ha
come conseguenza e fine un’ulteriore condivisione e così all’infinito in un
perpetuarsi di amore.
Con un colpo di spugna Cristo cancella la legge che
lui chiama ”...tradizioni di uomini...”
(Mc 7,8–13) e la sostituisce con il
comandamento nuovo “...che vi amiate gli uni
gli altri, come io vi ho amati...”.
Per
questo Paolo, nella lettera a Galati (3,13) afferma: “...Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge...”.
Tutto questo scaturisce dalla lettura dei vangeli e
degli Atti degli Apostoli; sopratutto in questi ultimi si vede come la
gioia, la condivisione e la sazietà erano il fondamento della vita delle prime
comunità cristiane.
Non tutti gli apostoli accettarono totalmente questa
visione di vita così in contrasto con la tradizione ebraica; il primo tra
questi è Pietro, fortemente radicato nella concezione farisaica della purità e
del digiuno rituale.
Per convincere, o meglio per convertire, Pietro sarà
necessario l’intervento diretto di Dio Padre (Att 10,13) che con un perentorio: “...Alzati, Pietro, uccidi e mangia!...” ripetuto tre volte, farà
comprendere a Pietro l’inutilità della tradizione giudaica.
Gesù
ha proposto una relazione con Dio completamente diversa. Essa consiste non più
nell’offrire qualcosa a Dio, nel fare le cose per Dio, non più l’uomo servo del
Signore, (“...non vi chiamo più servi...
ma amici...” Gv 15,15), ma con Gesù
inizia l’epoca in cui l’uomo accoglie ciò che Dio fa per lui.
Ecco
perché Gesù rifiuta il sacrificio, il digiuno, la mortificazione, perché fanno
parte di una vecchia e inutile concezione del rapporto con Dio che lui ha
superato e ha trasformato.
Non
più Dio al traguardo dell’esistenza dell’individuo, ma un Dio che è all’inizio
dell’esistenza dell’individuo, è lui che prende l’iniziativa di amare
l’individuo e non chiede nulla in cambio. L’offerta gratuita di Cristo
sulla croce ne è la dimostrazione e la conferma.
Con
Gesù, ed è stata questa la grande novità che è stata chiamata buona notizia, l’evangelo, con Gesù l’amore
di Dio non va più meritato per gli sforzi delle persone, ma va accolto per la
grande generosità del Padre (Lc
15,11-32).
Questo era la convinzione dei credenti nei primi
secoli, ed è questo che ha permesso al cristianesimo, in pochissimi anni, in un
mondo senza radio, senza televisione, senza telefono e con una posta efficiente
ma militare e quindi preclusa alla maggioranza del popolo, di diffondersi
rapidamente in tutto il mondo allora conosciuto, dall’Armenia ad est fino alla
Spagna a ovest; dall’Etiopia a sud fino all’Irlanda a nord.
L’abbandono di questi concetti fondamentali è alla
base delle crisi di fede che si sono abbattute nella Chiesa compresa quella a
cui stiamo assistendo.
Come si è verificato questo abbandono? Perché la
tradizione cristiana parla di mortificazione, di digiuno, di astinenza? Quale è
stato il meccanismo che ha così macroscopicamente modificato il messaggio di
Cristo?
La tendenza a mantenere le tradizioni giudaiche è
cosa antica e contro la quale ha sempre combattuto Paolo durante i suoi quasi
trent’anni di predicazione; quasi tutte le chiese primitive erano tentate da
questo ritorno all’antico. Lo stesso Paolo, ai Colossesi (2,16-23), si vede
costretto ad affermare:
“...Nessuno dunque vi condanni più in fatto di
cibo o di bevanda, o riguardo a feste, a noviluni e a sabati: tutte cose queste
che sono ombra delle future; ma la realtà invece è Cristo! Nessuno v’impedisca
di conseguire il premio, compiacendosi in pratiche di poco conto e nella
venerazione degli angeli (oggi diremmo dei santi),
seguendo le proprie pretese visioni, gonfio di vano orgoglio nella sua mente
carnale, senza essere stretto invece al capo, dal quale tutto il corpo riceve
sostentamento e coesione per mezzo di giunture e legami, realizzando così la
crescita secondo il volere di Dio.
Se pertanto siete
morti con Cristo agli elementi del mondo (oggi diremmo: se rifiutate il
paganesimo economico imperante), perché
lasciarvi imporre, come se viveste ancora nel mondo, dei precetti quali «Non
prendere, non gustare, non toccare»? Tutte cose destinate a scomparire con
l’uso: sono infatti prescrizioni e insegnamenti di uomini! Queste cose hanno
una parvenza di sapienza, con la loro affettata religiosità e umiltà e
austerità riguardo al corpo, ma in realtà non servono che per soddisfare la
carne...”
“Carne”:
ovvero i nostri legami con l’egoismo umano nella sua massima espressione.
Paolo
non sembra avere ricevuto una eccessiva influenza dalla filosofia greca pagana
(lo gnosticismo, lo stoicismo e il neoplatonismo in particolare); influenze che
invece si sono manifestate nella teologia cristiana dal secondo secolo in poi
specialmente in Alessandria d’Egitto, zona stranamente ignorata dalla
predicazione di Paolo e, forse, anche dagli altri apostoli.
Eppure
è proprio Alessandria, con la sua forza culturale ed economica, ad influenzare
il mondo latino al punto che proprio da qui, agli albori del V secolo, parte
quella spinta che ha portato a trasformare il periodo di gioia e di festa che
precedeva il battesimo dei catecumeni alla Veglia pasquale, nella Quaresima,
periodo di penitenza, astinenza e digiuno. Ci hanno messo poco meno di due
secoli a distruggere la gioia.
A
tutto questo si sono aggiunti gli errori di traduzione della Bibbia da parte di
S. Girolamo (al posto di “convertitevi”
tradusse “fate penitenza”) e le
influenze della mitologia celtica portata da Carlo Magno.
Il
risultato di tutto questo lo cominciarono a vedere i papi intorno al XII secolo
con le chiese che si vuotano e con il popolo che si crea riti propri, lontani
dalla liturgia ufficiale: i mortuori, i presepi, il culto popolare della
madonna (che poco o nulla aveva ed ha a che fare con Maria, Madre di Dio).
Il
Concilio Vaticano II ha posto le premesse per un ritorno alla chiesa di Paolo,
di Giovanni, di Pietro, ad un rinnovamento che, sostanzialmente, è un ritorno
all’antico, ad una visione autentica di Cristo, priva delle pesanti incrostazioni
che lo ricoprivano fino ad allora.
Questo
ha consentito, per esempio, di vedere la Quaresima, sostanzialmente, come un
periodo di revisione di vita, più vicino al pensiero di Cristo e più consono
all’attesa della vita eterna.
Si
può concludere che chi fa “offerta” a Dio è più vicino alle concezioni
giudaiche e del paganesimo greco che al pensiero di Cristo.
La
vera offerta gradita a Cristo è la misericordia, l’agàpe, cioè l’amore incondizionato verso gli altri fratelli, in
particolare coloro che hanno bisogno della nostra attenzione, e la misericordia
è indipendente dal sesso, dallo stato civile, dal colore della pelle, dalla
religione professata, dal censo e, soprattutto, da presunti “meriti” (3).
E’ la misericordia, non l’offerta, il carattere distintivo dei seguaci di
Cristo.
Gesù non ripete l’imperativo dell’Antico Testamento “siate santi come io sono santo”. Nei
vangeli non c’è l’invito di Gesù alla santità; Gesù invece dice: siate
compassionevoli o meglio
misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso. Dio è amore,
la misericordia è l’espressione tangibile di questo amore. Ecco allora perché
per Gesù l’amore non può essere formulato attraverso le leggi, l’amore può
essere comunicato soltanto attraverso a dei gesti che lo esprimano. Non esiste
amore se non è accompagnato da un gesto che lo esprime, un amore soltanto teorico,
non è amore. L’amore quando è reale deve essere accompagnato da gesti di servizio.
(segue la prossima
domenica)
Note: 1. Vedi Gaudium e Spes n. 19. – 2. Vedere,
in merito, la moltiplicazione dei pani Mc 6,42; Mt 14,20 e15,37; Lc 9,17. – 3. Ricordate
in passato, l’errata traduzione del
versetto “Gloria a Dio nell’alto dei
cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà” (Lc 2,14) che era
espressione di una certa mentalità religiosa, che deformava anche il contenuto
del vangelo pur di affermare il proprio pensiero: “agli uomini di buona volontà”. Solo a chi se lo merita, a quelli di
buona volontà! E’ l’idea che l’amore di Dio va meritato. Vedete come una mentalità,
una ideologia, può travisare persino il significato del testo evangelico, ma
nelle vostre Bibbie trovate ormai la
traduzione esatta: “sulla terra
pace agli uomini, che egli ama”.