IV Domenica di Pasqua – Gv 10, 1-10
«In verità, in verità
io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da
un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è
pastore delle pecore.
Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Gesù disse loro
questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo.
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo.
Il ladro non viene se
non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e
l’abbiano in abbondanza».(1)
L’immagine(2) di Gesù quale “Buon
Pastore” è indubbiamente la più cara ai cristiani di tutti i tempi. Bisogna
però chiedersi se il successo di tale immagine non derivi dal travisamento
dell’espressione evangelica più che dalla sua comprensione; infatti, questa
raffigurazione, che per i cristiani è carica di rassicurante tenerezza, mandò
su tutte le furie gli ascoltatori dell’epoca: Gesù non aveva ancora terminato
di definirsi “Buon Pastore” che i presenti lo definiscono “indemoniato e fuori di sé” (Gv 10,19) e quando termina il suo
discorso “di nuovo i Giudei raccolsero
delle pietre per lapidarlo” (Gv 10,31).
C’è da chiedersi se erano i Giudei tanto
ottusi da fraintendere espressioni belle e rassicuranti o i cristiani che hanno
trasformato il messaggio di Gesù in un rassicurante prodotto ad uso di un
devozionalismo tanto sdolcinato quanto sterile ed illusorio.
Per comprendere cosa può aver detto Gesù di
così scandaloso per le orecchie dei capi del popolo e di così importante per i
cristiani occorre risalire all’immagine del pastore alla quale Gesù si
richiama.
Il contesto nel quale Gesù rivendica di
essere il “buon pastore” è la disputa con i farisei dopo la guarigione del
cieco nato (Gv 9,1): i capi del
popolo (sacerdoti, scribi e farisei) avevano “cacciato [ekbalon(3)] fuori” (Gv 9,34) il cieco nato
che una volta recuperata la vista aveva riconosciuto in Gesù l’inviato da Dio.
I capi del popolo non possono ammettere che
mediante la trasgressione del comandamento del sabato qualcuno possa aver
operato del bene. Non potendo ammettere alcuna contraddizione nella loro
dottrina, cercano di negare la verità del fatto, insinuando il dubbio della
frode e, convocati i genitori del sedicente cieco guarito, li accusano di
essere all'origine dell'imbroglio ("E'
questo il vostro figlio,
che voi dite esser
nato cieco? Come mai ora ci vede?", Gv 9,19).
Questo è il punto fondamentale: partendo dal
principio che non può essere sbagliato il dogma, vengono contestati i fatti. La
guarigione del figlio viene considerata dalle autorità un crimine del quale i
genitori devono rispondere(4).
Abituati a trovare nei libri sacri, scritti
secoli prima, una risposta valida per ogni situazione dei loro contemporanei, i
capi religiosi non pensano di avere nulla da imparare o da modificare e vedono
ogni novità come un attentato a Dio che ha determinato per sempre nella sua legge
il comportamento dell'uomo al quale non resta che sottomettersi a norme
stabilite in altri tempi e per altri uomini(5).
Con una breve discorso (Gv 10,1-6) Gesù avverte i capi che in realtà non sono essi che
cacciano le persone fuori della sinagoga, ma lui che le libera (“quando ha cacciato [ekbalê] fuori tute le
sue pecore” (Gv 10,4).
I capii del popolo possono tenere sottomesso
il popolo fintanto questo è cieco(6), ma una volta che questo
recupera la vista è già fuori del loro dominio.
Rivendicando di essere il vero “pastore delle pecore” (Gv 10,2) “venuto
perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10), Gesù denuncia
tutti gli altri presunti pastori, i dirigenti religiosi, definiti da Gesù tutti
“ladri e briganti” (Gv 10,2.8), che,
dopo aver imprigionato il popolo (“pecore”)
dentro l'istituzione religiosa (“recinto”),
non vi entrano "se non per rubare,
uccidere e distruggere".
Nel vangelo di Giovanni il termine “ladri” viene adoperato dall’evangelista
per i dirigenti del popolo (Gv 10,1.8.10)
e per Giuda, che “era ladro e, avendo la
borsa, sottraeva ciò che vi veniva messo dentro” (Gv 12,6).
Il termine “briganti” Giovanni lo usa per i dirigenti (Gv 10,1.8) e per Barabba, che “era
un brigante” (Gv 18,40).
Per Gesù i dirigenti sono ladri in quanto si
sono appropriati del gregge appartenente all’unico pastore e sono omicidi in
quanto, per portare a compimento il loro furto, uccideranno il legittimo
pastore.
A quanti sono sottomessi a questi ladri e
briganti Gesù li invita a uscire dal recinto (l’ovile): “…egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori.” (Gv 10,3).
Per comprendere la piena portata delle parole
di Gesù occorre esaminare il linguaggio adoperato dall’evangelista.
Con il termine “pecore” nell’AT viene spesso
designato il popolo d’Israele (Ez 34,31).
Il verbo "condurre/far uscire" [in greco exagô] è il termine tecnico
utilizzato nell'AT per indicare la fine della schiavitù di Israele quando il
Signore “fece uscire dall’Egitto” il suo popolo (Es 3,10; 6,27(7), ed è la chiave di lettura per la
comprensione della similitudine del "buon pastore".
Ma vi è un’ulteriore indicazione: Gesù
conduce fuori le pecore dal recinto (ovile); per indicare questo luogo
l’evangelista adopera la parola greca aulè
che mai nella Bibbia(8) indica un recinto di pecore, ma l’atrio
davanti al Santuario nel Tempio di Gerusalemme, centro dell’istituzione
religiosa giudaica (Es 27,9). In
Giovanni il termine ricorre qui e per indicare l’atrio della casa del sommo
sacerdote (Gv 18,15). Con questo
l’evangelista vuole indicare che la terra promessa si è convertita in un luogo
d'oppressione e di schiavitù dal quale il Messia deve "far uscire" i
credenti in lui.
Gesù afferma che “E quando ha spinto fuori [ekbalê(9)] tutte le sue pecore,
cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce”
(Gv 10,4).
Come nell’esodo il Signore cammina davanti al
suo popolo per condurlo verso la libertà. Non solo, ma una volta fuori, Gesù
non conduce le pecore in un altro recinto, Gesù non va a creare un’istituzione
parallela a quella antica, ma a dare la libertà. Quanti lo seguono sono
chiamati a vivere con lui (Gv 1,39) e
uniti a lui (Gv 15,9).
Gesù, proclama se stesso l’unico pastore del
gregge, colui che era stato annunciato dal profeta Ezechiele (Ez 34,23) e cantato dal salmista (Sal 23).
Per comprenderlo facciamo un passo indietro:
gli ebrei deportati a Babilonia, dopo l'assedio di Gerusalemme dell’inizio del
VI secolo a.C., sperano ancora di poter tornare nella loro patria. Invano, da
Gerusalemme, il profeta Geremia scrive loro di rassegnarsi all'esilio: i
deportati, ingannati dai falsi profeti, non gli credono.
Nel 593 a.C., uno degli esiliati, il
sacerdote Ezechiele, viene incaricato dal Signore di annunciare al popolo che
il peggio deve ancora arrivare. Infatti nel 588 Nabucodònosor distrugge
Gerusalemme e deporta un nuovo gruppo di giudei.
Ora gli ebrei hanno perso tutto: il regno,
che Dio aveva promesso a Davide che sarebbe durato in eterno, la terra
promessa, la certezza di essere il popolo eletto; entra in crisi anche la loro fede
in Dio perché pensano che ora li punisce per i peccati dei loro padri(10).
In questo tragico contesto, Ezechiele
denuncia i responsabili della catastrofe ed incoraggia il popolo ad una nuova
relazione col Signore; il profeta si rivolge, in particolare, ai "pastori
d'Israele", responsabili della rovina del popolo “lupi che dilaniano la
preda”, identificandoli
nei prìncipi che divorano la gente, nei
sacerdoti che violano la stessa legge che predicano, nei profeti che offrono
false visioni e nei possidenti che sfruttano il povero (Ez 22,25-28).
Ezechiele proclama solennemente che il
Signore, unico proprietario del gregge, spodesterà questi pastori che guidano
il gregge “con crudeltà e violenza"
(Ez 34,4), ed assumerà il loro ruolo non dominando, ma mettendosi a
servizio del popolo: “Così dice il
Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura” (Ez 34,11)(11).
Ezechiele annuncia che il Signore viene, come
nel primo esodo, a liberare il popolo ridotto in duplice schiavitù dai nemici e
dai capi del popolo. Agli esiliati viene assicurato che, una volta liberati
dalle "fauci dei pastori" (Ez
34,10), verrà dato loro un solo pastore: “Susciterò per loro un solo pastore che le pascerà, Davide mio servo.
Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore” (Ez 34,23). “Il mio servo
Davide sarà su di loro e non vi sarà che un unico pastore per tutti” (Ez
37,24). Compito di questo unico pastore riunire gli Israeliti dispersi e
divisi in due regni (Israele e Giuda) in “un
solo popolo” sul quale regnerà “un
solo re” (Ez 37,22). Questo unico
pastore inaugurerà “un'alleanza di pace”
che farà “sparire dal paese le bestie
nocive” (Ez 34,25).
Dalla speranza suscitata dalle parole di
Ezechiele e dall’esperienza dell’esilio è nato il salmo teologicamente più
ricco di tutto il salterio, il salmo 23.
Nel salmo la storia del popolo e quella
dell'individuo si fondono e sfociano in un'espressione di piena fiducia
nell'unico Pastore, il Signore che ha liberato Israele dall'Egitto prima e da
Babilonia poi e lo ha guidato come un gregge per il deserto, provvedendogli
acqua, cibo e riposo. Esperienza che è, per Israele, garanzia di serenità per
il presente e di fiducia per il futuro.
La composizione del salmo presenta due
distinte tematiche (vv.1-4: tema del "pastore"; vv. 5-6: tema dell'
"ospite"). Il primo verso della prima parte è la chiave di lettura
per tutto il salmo; parlando di pecore e di pastori, il salmista rimanda al
rapporto tra l'uomo e il suo Dio: “Il
Signore è il mio pastore”(12).
Non un "signore" generico, da
confondersi con i tanti pretendenti "signori", ma Yahvé. Da questa
premessa, il salmista passa alla conseguenza: “…non manco di nulla”.
Quando del popolo si sono occupati i pastori
è stata la tragedia. Essi hanno curato il loro interesse e non quello del
gregge. “I pastori non dovrebbero forse
pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore
più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso la forza alle pecore
deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non
avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le
avete guidate con crudeltà e violenza” (Ez 34,2-4).
Purtroppo il brano del vangelo in esame è
troncato dal liturgista proprio nella parte fondamentale: ho notato spesso che
i liturgisti non hanno una visione del significato reale del brano scelto(13).
Infatti, se proseguiamo nella lettura, vediamo che Gesù, rivendicando d’essere
il Pastore profetizzato da Ezechiele, ne arricchisce la figura.
Gesù elimina ogni traccia di dominio: lui è
il vero patore, perché il dono generoso della sua vita non nasce da un pericolo
per i suoi, ma lo precede.
La sua fine non è un incidente di percorso,
ma parte del suo programma, una sua libera scelta. La morte del pastore sarà la
vita per le pecore: la carne dell'Agnello sarà l'alimento che permetterà ai
suoi il nuovo esodo, e il suo sangue li libererà per sempre dalla morte.
La capacità di Gesù di dare la vita per i
suoi e manifestare così l'amore del Padre ("da
questo abbiamo conosciuto l'amore: Egli ha dato la sua vita per noi")
è estensibile a quanti prolungheranno il suo dinamismo d'amore: "quindi anche noi dobbiamo dare la vita
per i fratelli" (1 Gv 3,16).
La relazione del gregge col pastore non è
quella di due differenti realtà (gregge più pastore), ma una sola cosa:
l'esistenza del gregge (comunità dei credenti) conterrà in sè la presenza del
Signore e formerà il nuovo santuario da dove si irradierà l'amore di Dio per
tutta l'umanità, come affermerà Gesù nel discorso che precede la sua morte: “La gloria che tu hai dato a me, io l’ho
data a loro, perché siano uno come noi siamo uno. Io in loro e tu in me, perché
siano perfetti nell’uno e il mondo sappia che tu mi hai mandato e che li hai
amati come hai amato me” (Gv 17,22-23).
E’ tutto questo che fa infuriare i capi del
popolo, è la certezza che il loro potere è destinato a finire.
A differenza del vecchio, il nuovo Santuario
non è statico e immobile, in attesa dei fedeli che salgono al Tempio. Essendo
composto dal gregge e dal suo pastore il nuovo Santuario è in movimento e va
incontro a quanti sono stati scacciati fuori dall’istituzione religiosa o a
quanti per la loro condizione religiosa e morale si sentono indegni di
avvicinarsi al Signore. A tutti costoro il Signore e il suo gregge fanno
risuonare la parola del Pastore che invita a unirsi in un’unica comunità
d’amore.
Il
nuovo culto che Dio richiede non si dirige a lui, ma è la forza d’amore che da
lui parte e che ha bisogno di collaboratori perché raggiunga tutta l’umanità.
Note: 1. Per comprendere il reale
significato di questo brano è indispensabile leggere anche il brano che segue
Gv 10,11-21, senza il quale il brano indicato dal liturgista perde ogni
significato. – 2. Quanto segue è in gran parte liberamente tratto da un appunto
per una conferenza preparato da Padre Alberto Maggi nel febbraio 2010. – 3.
L’indicare la parola greca usata da Giovanni non è un mettere sfacciatamente in
mostra la cultura (o presunta tale) dello scrivente, ma, come si vedrà più
avanti, è un indispensabile strumento di comprensione che sfuggirebbe usando il
solo vocabolo italiano. – 4. I capi del popolo, a costo di negare l'evidenza,
non possono ammettere la guarigione dell'uomo perché ciò scalfirebbe
l'autorevolezza del loro insegnamento. Se poi qualcuno, a causa di questo, deve
soffrire, pazienza, Dio provvederà. Il loro giudizio teologico è considerato
più valido dell'esperienza dell'uomo, ed essendo il loro giudizio creduto
infallibile e quindi immutabile, sono gli uomini a doversi sottomettere loro. - 5. Questa mentalità invaderà presto
anche il cristianesimo, e la chiesa occidentale in particolare, creando
situazioni di sofferenza nei fedeli in contrasto con la felicità dei fedeli
auspicata da Gesù. Secondo Gesù la legge di Dio non può anteporsi al bene
dell’uomo: “il figlio dell’uomo è signore del sabato…” (Mt 12,8; Mc 2,28; Lc
6,5). Ricordo che la locuzione “figlio dell’uomo” in aramaico, la lingua
parlata da Gesù, significava semplicemente “l’uomo”. – 6. Gli episodi dei segni
operati da Gesù (chiamati miracoli, cioè cose degne di ammirazione, nel tardo
medio evo) vanno sempre intesi anche (e talvolta esclusivamente) in senso
figurato. L’apertura degli occhi è quasi sempre simbolo della presa di
coscienza della propria situazione religiosa, sociale e politica da parte del
popolo. – 7. Secondo la traduzione in greco detta dei Settanta (II sec. a.C.)
unico testo della Bibbia conosciuto dagli evangelisti. – 8. Ci si riferisce
sempre alla traduzione in greco detta dei Settanta. – 9. Ora si comprende il
perché della citazione del vocabolo greco. Senza l’atto di comparare i due
verbi, non era possibile comprendere la relazione di significato dei due atti,
quello dei capi del popolo e quello di Gesù. – 10. Da questa condizione
angosciante ne usciranno con un’elaborazione teologica mirabile, passando dalla
monolatria al monoteismo, comprendendo che Dio è il Dio di tutti, creatore
dell’universo e che l’uomo è, per sua natura, peccatore ed accettando questo
fatto come inevitabile ed oggetto della misericordia divina. – 11. E’ il primo
annuncio del Regno di Dio, lo stesso annuncio che farà Gesù combattendo contro
i capi del popolo. – 12. Quel che nelle lingue occidentali ha bisogno di 5-6
vocaboli, in ebraico viene espresso in maniera molto asciutta: "Yahvé ro`î ", due soli
termini per affermare in maniera perentoria che l'unico pastore riconosciuto
come tale è Yahvé. – 13. Io, che penso sempre male, suppongo anche che la
seconda parte del brano sia stata saltata perché contraddice nettamente la
frase "Extra Ecclesiam nulla salus" (cioè non vi è salvezza al di
fuori della Chiesa), frase indotta da uno dei tanti errori presenti nella
traduzione dal greco in latino detta Vulgata, fatta da Girolamo nel IV secolo.
L’aver tradotto "et fiet unum ovile" (perché siano un solo ovile,
anziché un solo gregge come dice il testo greco) ha influito negativamente per
1500 anni sulla concezione di Chiesa. Ancora negli anni ’60, nei manuali di
teologia, l’"Extra Ecclesiam nulla salus" veniva giustificato in
quanto Gesù "parla di un solo ovile e un solo pastore". In realtà il pastore non rinchiude le sue
pecore in un altro ovile, ma forma un unico gregge, al quale liberamente si può
appartenere senza necessariamente identificarsi con le istituzioni che
storicamente pretendono di rappresentarlo. Sarà il Concilio Vaticano II ad
eliminare questa frase dall’orizzonte del cristiano anche se tentativi di
risuscitarla sono stati realizzati sia da papa Giovanni Paolo II che da
Benedetto XVI, contravvenendo a quanto definito dal Concilio di Costanza del
1414 (dipendenza totale dell’azione papale da quanto stabilito dai concili:
costituzioni Haec Sancta e Frequens ancor oggi oggetto di
discussione tra gli specialisti per le forti limitazioni all’azione papale che esse
pongono).
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